CHI RUBA LA SPERANZA CRISTIANA
E se a rubare la Speranza cristiana fosse proprio il papa? Il nome Francesco? San Francesco era modesto Bergoglio ostenta la modestia: e non è certo la stessa cosa. Un papa campione di umiltà e di modestia oppure no?
di Francesco Lamendola
Ora, assumere il nome di Francesco significa lanciare un preciso messaggio: che si vuole ispirare il proprio pontificato ai valori “francescani”. Eppure, è bene ricordare che non esistono, in senso stretto, valori francescani, o domenicani, o agostiniani, o tomisti, o salesiani, o gesuiti: esistono sempre e soltanto valori cristiani; i quali, naturalmente, possono essere declinati con speciale riguardo a taluni aspetti della vita cristiana e della dottrina cristiana, ma ciò per la limitatezza e fragilità della natura umana e non perché sia cosa buona e giusta che un cristiano sviluppi certi aspetti della vita cristiana a discapito degli altri. In questo senso, adottare il nome di un grande e venerato santo è una scelta, al tempo stesso, molto impegnativa e molto ambigua: impegnativa, perché equivale a suggerire un confronto, immodesto, fra quel santo e la propria persona; ambigua, perché significa “puntare” su una delle molte dimensioni della vita cristiana, forse a discapito delle altre. Potrà sembrare paradossale, ma un papa, proprio per l’immensa responsabilità che incombe sulle sue spalle, ossia di tenere unita e indirizzare la Chiesa cattolica – stiamo parlando di un miliardo e oltre 250 milioni di persone, sparse in tutti e cinque i continenti – deve cercar di essere, prima di tutto, un buon papa; poi, se sarà anche santo, meglio ancora. Ma a un santo non è chiesto di possedere quelle doti organizzative o quel sapere teologico che sono indispensabili a un papa, per svolgere degnamente la sua missione: il santo, se si vuole, è più libero di vivere la propria chiamata individuale; il papa, invece, non deve scordarsi mai di quel miliardo e 250 milioni di anime che guardano a lui: e deve fare in modo di non essere di scandalo neppure a una di esse.
Jorge Mario Bergoglio è dal 13 marzo 2013 il duecento e sessantaseiesimo papa della Chiesa cattolica romana, con il nome di Francesco. A rigore, si dovrebbe dire Francesco I; ma, poiché è il primo papa nella storia ad aver scelto questo nome, tutti lo chiamano “Francesco” e basta. Viene da chiedersi come mai nessuno dei suoi predecessori abbia scelto questo nome, assumendo il pastorale come vescovo di Roma, nei quasi otto secoli che ci separano alla morte del Poverello di Assisi; e perché proprio lui, Bergoglio, abbia fatto questa scelta. La prima cosa che viene in mente è che nessuno dei papi vissuti fra il XIII e il XXI secolo si è sentito degno di imitare, anche solo da lontano, la santità di Francesco d’Assisi, o, comunque, di essere a lui paragonato. Si obietterà che un papa può essere santo, ma che per fare bene quel che si è stati chiamati a fare dal conclave dei cardinali, cioè per essere un buon papa, la santità non è indispensabile; il che è vero, almeno parzialmente (parzialmente, perché tutti gli uomini, e tutti i cristiani, quindi figuriamoci se rimane escluso il papa, sono chiamati alla propria santificazione personale). D’altra parte, assumere un nome da pontefice equivale a dare un’indicazione di quel che si vuol fare, dell’impronta o indirizzo particolare che s’intende conferire al proprio pontificato, fermo restando che il papa non è il padrone della Chiesa e che non è, di conseguenza, nemmeno il padrone del gregge dei fedeli, ma soltanto il vicario di Cristo, cioè il pastore del gregge.
Bergoglio, dunque, non ha dato prova né di saggezza, né di modestia, assumendo il nome di Francesco: ha ignorato la modestia e la saggezza di decine e decine d suoi predecessori, e, oltretutto - lui gesuita, che non avrebbe dovuto nemmeno essere eletto al pontificato, dato che Ignazio di Loyola non voleva che alcun gesuita diventasse mai papa - con la scelta di quel nome ha dato a intendere di sentirsi, anche lui, “francescano”, quando francescano non lo è, né per l’ordine religioso di appartenenza, né per le caratteristiche del suo carattere e della sua personalità. San Francesco era modesto, Bergoglio ostenta la modestia: e non è certo la stessa cosa. Quel salire e scendere la scaletta dell’aereo, per esempio, con la sua brava valigetta ventiquattr’ore in mano, per far vedere che lui non ha bisogno di domestici e portaborse, sapendo di essere inquadrato dalle telecamere e di esser visto da milioni di persone in tutto il mondo: quanta ostentazione di modestia e quanta effettiva immodestia, in quell’atteggiamento! Per non parlare delle quotidiane, omelie nella chiesa di Santa Marta, piene d’improvvisazioni, e delle esternazioni estemporanee a getto continuo, delle interviste rilasciate a più non posso, ma specialmente in aeroplano, sempre cercando l’applauso, sempre con la strizzatina d’occhi del furbo che pensa di aver detto qualcosa di frizzante, di sapido, o qualcosa che stupisce, che sbalordisce l’interlocutore; e sempre con quella totale mancanza di discrezione, di modestia. Certo, sorride molto, papa Francesco: ma è un sorriso tiratissimo, innaturale. Per rendersene conto, lo si confronti con il sorriso di Albino Luciani, che è passato alla storia, e giustamente, per quei miseri 30 giorni di pontificato, come “il papa del sorriso”: il suo, sì, che era un sorriso spontaneo, naturale, un sorriso buono. Bergoglio sorride con la bocca, ma gli occhi no, restano terribilmente seri: hanno una luce inquietante, diremmo quasi sinistra. E anche la bocca, si torce in una smorfia, ma non è un vero sorriso quello che vi appare: è il tentativo di imitare un sorriso. Se uno dice una parolaccia alla mia mamma, io gli do un pugno: e mentre dice una simile stupidaggine, sorride: ma non fa ridere, e neanche sorridere chi lo ascolta, chi lo guarda. Nel cuore entra un senso di gelo. Mai un papa aveva parlato così: e questo sarebbe un modello di perdono cristiano? E parla così propri lui, che ha sempre in bocca la misericordia di Dio, e mai ricorda la sua severità, la sua giustizia?
Non era quasi neanche stato eletto al pontificato, e già uscivano libri e si preparavano film su di lui, sulla sua persona. Subito è apparso in libreria un volume recante la sua firma: Non fatevi rubare la speranza (Mondadori, 2013). In effetti, contiene conferenze e discorsi da lui tenuti soprattutto nel 1989-1990, e cioè vecchi di quasi cinque lustri: un po’ datati, per farsi un’idea di quel che pensa il papa adesso. Non importa: lo abbiamo comprato, lo abbiamo letto. Ci ha lasciati estremamente perplessi; no, diciamo meglio: ci ha lasciato un’impressione penosa, sconfortante. Fin dalla copertina, la solita immodestia, la solita auto-celebrazione. In fotografia, un primissimo piano del papa che viene abbracciato con trasporto da una bambina: il volto della quale neppure si vede, in compenso di vede benissimo il sorriso intenerito di sua santità. Neanche fossimo tornati ai film sentimentali degli anni Trenta e Quaranta, quelli con l’adultera redenta, dove il marito che perdona era interpretato dal mitico Amedeo Nazzari. Una critica malevola, dirà qualcuno. Vediamo. Il titolo del libro è Non fatevi rubare la speranza. È un titolo demagogico, populista, da teologia della liberazione: un titolo che fa leva sui diritti da rivendicare e sul rancore contro i “ladri”, i ladri di speranza; ma la Speranza cristiana, con la lettera maiuscola, non può essere né rubata, né comprata, perché non è un sentimento umano, ma un dono dello Spirito Santo: è una delle tre virtù teologali. Nessuno la può rubare, è il cristiano che la deve chiedere a Dio, e una volta che l’abbia avuta, la deve custodire e la deve coltivare: tutto qui. Non c’è un nemico da combattere, se non il Nemico: il vero e unico ladro della Speranza cristiana è lui, l’Avversario: ma è questo che intendeva il titolo? Sfogliando le pagine del libro, non si direbbe proprio.
Il sottotitolo recita: La preghiera, il peccato, la filosofia e la politica pensati alla luce della speranza (e sempre “speranza” con la minuscola, dunque come sentimento puramente umano). Ma di filosofia, ce n’é ben poca in questo libro: pazienza, a un papa non si chiede di essere un filosofo (semmai un teologo), e di certo Bergoglio non lo è. Il peccato, invece: questo sì, che interessa il cristiano. Nelle Messe di santa Marta, in mezzo al quotidiano diluvio di parole, non è che il tema del peccato, e quindi della grazia, assolutamente centrali nella dottrina cattolica, ricorrano molto spesso. Perciò, ci affrettiamo a scorrere le pagine del libro per vedere cosa dice Bergoglio del peccato. Ci imbattiamo, sì, in un capitolo che s’intitola: Corruzione e peccato; ma del peccato vi si parla pochissimo. Viene nominato due o tre volte, quasi per accidente, con espressioni generiche. In realtà, si parla tutto il tempo della “corruzione”: concetto teologico un po’ insolito; concetto molto, troppo umano. Il peccato è un’offesa dell’uomo fatta a Dio: crede a questo, il papa? E perché non parla del Peccato originale? Invece, la corruzione di qua, la corruzione di là; l’uomo corrotto, il cuore corrotto; e poi, via con la filippica contro i farisei, contro le élites cristiane che tengono gli uomini lontani da Dio, e favoriscono la corruzione, essendo già corrotti loro. No: non è la sana, buona, vecchia teologia cattolica, questa: è qualcos’altro. Non è qualcosa che la contraddica frontalmente, e tuttavia è qualcosa di nuovo e di diverso: i concetti diventano ambigui, sembrano e poi non sembrano più quelli che il Magistero ha sempre insegnato: sfuggono sotto gli occhi del lettore, cambiano di significato, si trasformano; si crede d’averli afferrati, e cambiano ancora, come Proteo. Insomma, il peccato è o non è una ribellione dell’anima a Dio? Non si sa.
E tutto il libro è così: ambiguo, sfuggente, gesuitico. Dice e non dice. La cosa che più dispiace è quella costane atmosfera d’immanentismo, di dubbio, quasi di relativismo. Quasi, perché l’Autore è molto abile nel giocare con le parole. Il concetto più vicino all’eresia che abbiamo trovato è quello del “fallimento” di Gesù. Dal punto di vista umano, Gesù ha “fallito”: concetto che Bergoglio dice e ribadisce, e al quale dedica intere pagine; anzi, è “il grande fallimento”, perfino sul piano umano. Questo perché i discepoli, umanamente, hanno deluso il Maestro, non l’hanno capito: e Bergoglio ne deduce che Gesù, umanamente parlando, ha fallito. È un concetto sbagliato e prossimo all’eresia perché parte del presupposto che, in Gesù Cristo, si possano separare la natura umana e la nata divina. Il Gesù uomo, secondo Bergoglio, “ha fallito”: non ha saputo nemmeno scegliersi bene i suoi discepoli; non ha saputo nemmeno prevedere che Giuda lo avrebbe tradito. Ma ciò è totalmente falso. Gesù sapeva benissimo quel che faceva, scegliendosi proprio quelle persone; e sapeva che Giuda lo avrebbe tradito: i Vangeli lo dicono con estrema chiarezza. Semplicemente, Gesù voleva realizzare la sua opera con la collaborazione dell’uomo; e gli uomini sono così: i dodici apostoli sono un perfetto campionario dell’umanità. Con tutti i loro limiti e i loro difetti; e con la possibilità di usare male, malissimo, la loro libertà. Gesù non voleva dei superuomii, ma degli uomini: voleva far vedere che qualsiasi uomo, per quanto rozzo e ignorante, può diventare collaboratore del piano della divina Redenzione. Sulla croce, secondo Bergoglio, si consuma l’umano fallimento di Gesù; anche se aggiunge, bontà sua, che Egli seppe trovare la forza per “superare” questo umano fallimento e “spostarlo”, con la forza della fede, su un piano più alto, trasformandolo in vittoria (ma che è risorto, ci crede?). Questo è un concetto molto vicino all’eresia, perché sminuisce la divinità di Gesù Cristo: sottolinea la sua natura umana, ma mette fra parentesi quella divina. Bergoglio parla di Gesù come si parla di un uomo, di un uomo eccezionale, di un uomo eroicamente fedele a Dio; ma Gesù non è stato affatto questo: Gesù è il Figlio di Dio, e Dio Lui stesso, che si è incarnato per amore dell’umanità, e che ha preso un corpo mortale per realizzare il mistero della Redenzione. Se si toglie questo, se lo si mette fra parentesi, se lo si sminuisce, si toglie il cristianesimo.
Il grande assente, nel libro Non fatevi rubare la speranza, è la dimensione del soprannaturale, del divino; è la Redenzione, come mistero e come realtà che si attua nella storia, nonostante le insufficienze degli uomini, mediante l’Amore di Dio. Invano si cercano i semplici, ma essenziali concetti della sana teologia di sempre: invano il lettore cerca qualche cosa che lo aiuti a superare i dubbi della fede, le angosce della vita. Si rimane immersi in un’atmosfera d’immanenza, di perplessità, di dubbio. Di essere pieno di dubbi, del resto, il papa l’ha detto davanti a tutti, più di una volta: dubbi di fede, che, se pure ci sono, dovrebbe tenere per sé, come il comandante di una nave, se pure avesse dei dubbi circa la possibilità di salvare il bastimento in mezzo alla burrasca, dovrebbe guardarsi bene dal lasciar trasparire le sue preoccupazioni: tutti guardano a lui, e lui deve mostrarsi assolutamente sicuro. Altrimenti, non doveva accettare il ruolo di comandante. Pessima pedagogia, quella del comandane dubbioso; tanto più se si accompagna ad un eccesso di sicurezza là dove non ce ne sarebbe bisogno. Bergoglio è fin troppo sicuro di sé quando demolisce le certezze altrui, quando ignora le perplessità di alcuni pastori, quando tira dritto con la sua “riforma” senza minimamente ascoltare le voci di dissenso; però, sulla questione centrale della fede, ama dichiararsi un uomo dubbioso, e non si preoccupa minimamente dello scandalo che ciò può provocare. Per il semplice credente, che, magari, vive un momento di difficoltà, le parole e gli atteggiamento di papa Francesco non sono affatto di aiuto; al contrario. Sono, sovente, parole che insinuano dubbi gravissimi in materia di fede, o che possono accentuare dubbi già esistenti. Se ne rende conto, il papa “francescano” e misericordioso, il papa campione di umiltà e di modestia, oppure no? Questo è il grande interrogativo al quale dovranno cercare di rispondere i futuri storici del suo pontificato…
E se a rubare la Speranza cristiana fosse proprio il papa?
di Francesco Lamendola
No direi proprio di no...il numero CARDINALE si usa quando si è almeno in due...è perfettamente corretto chiamarlo Francesco e basta.
RispondiEliminaE invece ha proprio ragione il prof. Lamendola. Sono andato a controllare - lo faccia pure Lei - sulla pagina Facebook del Papa - Le consiglio di vederla e può anche scrivergli direttamente, se vuole - dove lui stesso si firma Francesco I e non Francesco.
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