ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 1 agosto 2017

«Com'è possibile che Dio non si sia ancora stancato di noi?»

PERCHE' DIO CI SOPPORTA


    Un mistero senza risposta cui ci si approccia con tanta umiltà: per rendere il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo ricevuto allorché per la prima volta abbiamo spalancato gli occhi su di esso colmi di trepidante meraviglia 
di Francesco Lamendola  



 «Com'è possibile che Dio non si sia ancora stancato di noi?».
Questo mi domandava un amico, qualche giorno fa, nel corso di una conversazione.
Si parlava del bene e del male, e di come nel mondo si potrebbe vivere infinitamente meglio, se negli esseri umani non insorgessero di continuo gli istinti dell'egoismo, della sopraffazione, della violenza; se così tanti di noi, fin dai loro microcomportamenti quotidiani, non appesantissero l'atmosfera e non angustiassero il prossimo con la loro incoercibile tendenza a prevaricare, a far di tutto per mettersi in mostra, a scaricare sugli altri - nel modo più grossolano - i propri conflitti irrisolti, la propria immaturità e la propria mancanza di autostima, malamente mascherata da narcisismo paranoide.
Lui sosteneva di non sentirsi migliore  di nessuno, di non voler giudicare nessuno, pur ritenendo suo dovere sforzarsi di agire rettamente e opporsi al male, ogni qual volta ciò sia possibile. Mi citava una frase di Gandhi, secondo la quale la nonviolenza non è affatto sinonimo di rassegnazione o, peggio, di acquiescenza davanti al male: se vediamo qualcuno commettere violenza su un bambino, ad esempio, abbiamo il preciso dovere di intervenire; non possiamo trincerarci dietro il pretesto di non voler alimentare la spirale della violenza.
Io gli rispondevo che esistono diversi livelli evolutivi e che chi ha raggiunto il livello minimo della decenza etica, consistente nel sapersi guardare dentro e nell'agire verso gli altri come noi vorremmo che essi facessero con noi, non deve paragonarsi a chi non ha mai neanche tentato di fare altrettanto, limitandosi a rovesciare su tutto e su tutti i propri peggiori istinti e comportandosi come se il mondo avesse il dovere di sopportarlo all'infinito.

L'amico, a questo punto, ha fatto presente che non possiamo entrare nel mistero di un'altra anima per capire come mai un certo individuo non abbia intrapreso il proprio cammino di chiarificazione interiore.
Ho risposto che questo è vero; ma che, mentre non si può pretendere di dire nulla per quel che riguarda il piano dell'Assoluto, noi, che siamo immersi nel relativo, di necessità dobbiamo agire come se fossimo, tutti, interamente responsabili dei nostri atti; anche se, ovviamente, possono esistere mille ragioni per cui alcuni sono, per così dire, più liberi di altri. Infatti, gli ho detto, è la fede nel libero arbitrio dell'uomo che ci dà non solo il diritto, ma perfino il dovere di giudicare: altrimenti, dovremmo concludere che nessuno è responsabile di nulla, e che agire come Jack lo Squartatore o come Madre Teresa di Calcutta è assolutamente indifferente.
Lui ha detto di non condividere la fede nel libero arbitrio, pur ammettendo la distinzione tra il piano dell'Assoluto e quello del relativo.
Poi, facendosi pensoso, ha aggiunto: «E Dio, del resto, come pensi che faccia a sopportarci? Eppure ci sopporta. Sopporta l'ingiustizia, la violenza, la cattiveria degli uomini: non si ribella, là dove noi saremmo portati a ribellarci. Non è un grande mistero, questo?»
Ne ho convenuto.
Lui ha ripreso: «Io credo che Dio soffra, che soffra atrocemente» - e qui mi sono venuti alla mente alcuni versi di un poeta come Davide Maria Turoldo: «e tu, Dio, infelice più di noi» -; «che si sia pentito, forse, di averci creati, di averci affidato un ruolo così importante nelle vicende di questo mondo. Ma adesso che le cose stanno a questo punto; adesso che la nostra iniquità grida vendetta al cielo, ebbene, lui ci sopporta in silenzio; lui non ci annienta con un battito di ciglia.»
Certo, questo è un profondissimo mistero; ancora più grande del mistero del male.
Come è possibile che Dio non si muova a sdegno della nostra ingiustizia e continui a tollerare lo spettacolo atroce di tutto il male che continuiamo a commettere,  pervicacemente, trasformando il mondo - che, teoricamente, potrebbe assomigliare molto a un Paradiso -  nel doloroso teatro della nostra malvagità quotidiana?
Secondo il mio amico, Egli continua a sopportarci perché è straziato dai sensi di colpa e dai rimorsi; dal rimorso di averci creati, di averci affidato una responsabilità più grande di noi: quella della scelta tra il bene e il male.
Nel momento stesso in cui ha deciso di creare il mondo, Egli ha assunto su di sé l’imperfezione. È  uscito dalla propria assoluta, beata autosufficienza, e si è reso fragile, vulnerabile, fallibile: come sempre avviene quando ci si apre all’amore dell’altro.
Alcuni hanno pensato, in passato, che la spiegazione consista nel fatto che non Dio ci ha creati, ma un Demiurgo pasticcione e, forse, malvagio: tanto sembrava loro inconcepibile che il Dio della vita e dell'amore avesse creato un mondo così imperfetto.
Sia come sia, noi siamo qui: continuiamo a prevaricare, vestendoci d'ipocrisia; a tramare il male del prossimo, nascondendo la mano che scaglia la pietra; a calunniare tutto ciò che è vero, buono e bello, animati da un perverso spirito di malvagità. E nessun fulmine divino ci annienta, nessun diluvio universale ci sommerge.
Appare più probabile che saremo noi stessi, alla fine, ad autodistruggerci, quando non ce la faremo più a sopportarci gli uni gli altri; che saremo noi stessi a troncare, nel modo più drastico, la radice della nostra cattiveria, liberando il creato dalla nostra terribile presenza.
Ma Dio, nel frattempo, continua a far spuntare il Sole e a far cadere la pioggia sul giusto e sull'ingiusto, con incomprensibile, quasi irritante imparzialità.
Si direbbe proprio che Dio taccia; che non possa o non voglia dire niente davanti allo spettacolo atroce di tutto il male, piccolo e grande, che ogni giorno commettiamo impunemente: con le azioni che compiamo e con quelle che ci asteniamo dal compiere, con le parole che pronunciamo e con quelle che seppelliamo in fondo al cuore.

Ma è proprio vero? È proprio vero che Dio se ne sta in silenzio perché non ha niente da dirci, perché non vuole dirci niente?
Oppure siamo noi che non sappiamo interpretare il suo silenzio; che non sappiamo - o non vogliamo - ascoltare quello che esso ci sta dicendo?
Il fatto è che non sappiamo più ascoltare il silenzio: siamo troppo frastornati da mille rumori inutili, a cominciare da quello del nostro falso ego.
Forse, se reimparassimo a fare silenzio dentro di noi, potremmo riscoprire quella semplice verità che i nostri antenati sapevano così bene, prima che le luci abbaglianti della modernità la offuscassero sino a farcela smarrire: che il silenzio delle cose è pieno di parole (come ben sanno i poeti ed i mistici); e che le parole di Dio, l'Essere che pervade ogni cosa - compreso il nostro stesso silenzio - non hanno bisogno di articolarsi in un discorso per raggiungerci: ad esse è sufficiente l'assenza di ogni discorso, l'apparente vacuità del Silenzio.
E quali sono le parole del Suo discorso, dunque?
Sono quelle parole che possiamo udire quando imponiamo di tacere ai mille rumori inutili con i quali siamo soliti stordirci, per combattere il vuoto e la noia della nostra esistenza quotidiana.
È la parola della foglia che esce lentamente dalla gemma, quando il tepore primaverile si posa sugli alberi e ne carezza il tronco e i rami, dopo il gelo dell'inverno.
È la parola dei raggi di Sole che, dopo giorni e settimane di cielo grigio  e livido, si aprono a viva forza una strada fra i banchi di nubi ed erompono con forza irresistibile, accendendo ogni cosa con l'incanto della loro luce.
È la parola del passero che si posa cinguettando sul davanzale della finestra e poi, reso coraggioso dalla bella stagione che ritorna, salta sul terrazzino e zampetta fino alla porta, becchettando qualche briciola di pane e riempiendo l'aria dei suoi lieti richiami.
È la parola del ghiaccio che, d'inverno, avvolge le pendici dei monti, ricopre gli abeti e serra nella sua morsa la superficie del lago, disegnando fantastici arabeschi sui vetri del balcone e dipingendo di bianco e di azzurro i tetti delle case.
È la parola dei bambini che, nelle sere quiete di maggio, riempiono la strada con le loro vocine allegre, con i loro passi in corsa, con i loro scoppi di risa: felici perché, nei loro vestitini leggeri, pregustano le vacanze ormai vicine e lo splendore della libertà di giochi senza fine.
È la parola di un amico che si accorge di quando soffriamo o di quando siamo preoccupati, e ci fa sentire il calore della sua presenza.
È la parola che possiamo leggere nello sguardo interrogativo di chi ha bisogno di noi, della nostra protezione, del nostro aiuto, del nostro sostegno: del bambino che sta imparando a muovere i suoi primi, incerti passettini, e dell’anziano che mette avanti le gambe con fatica.
Ed è la parola che possiamo udire, se ascoltiamo il Silenzio, quando il dolore bussa alla nostra porta e ci fruga dentro il cuore con la sua morsa inesorabile, svuotandoci di ogni coraggio e di ogni speranza.

Qualcuno potrebbe dire che l’esistenza di tante cose buone e belle non bilancia tutto il male e tutta l’ingiustizia che regnano nel mondo, non asciuga tutte le lacrime e non conforta tutti gli animi spezzati e brancolanti nel buio.
No, forse no.
E tuttavia, se esistono tante cose buone e belle, ciò significa che non tutto è perduto; che il nostro mondo non è votato al Male, che la nostra vita non è votata al Nulla; che esiste una possibilità di riscatto, di ripresa, di rinascita. 

Com'è possibile che Dio non si sia ancora stancato di noi?

di Francesco Lamendola
Articolo d’Archivio
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