ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 16 settembre 2017

Come i panda (in via d'estinzione),mentre i ratti pullulano^


IL SACERDOTE                                 
Il sacerdote è innanzitutto uomo di preghiera. La figura perfetta di sacerdote: Jean-Marie Vianney santo curato d’Ars. Una semplice verità che i sacerdoti hanno sempre saputo e cercato di trasmettere che molti hanno dimenticato 
di Francesco Lamendola  
 

La figura perfetta di sacerdote è quella di Jean-Marie Vianney, il santo curato d’Ars (1786-1859), che fu per quarant’anni il parroco di questo piccolissimo paese di collina, situato 35 km. a nord di Lione, che contava appena 240 abitanti (oggi sono 1.350), il quale, grazie alla sua presenza e alla sua altissima spiritualità, divenne un vero e proprio centro di pellegrinaggio, che attirava numerosissimi visitatori, desiderosi d’essere da lui confessati e di assistere alla sua celebrazione della santa Messa (oggi il “volume” degli afflussi devozionali viaggia sulle 450.000 presenze all’anno). Il bello è che Vianney, da ragazzo, dovette superare enormi difficoltà prima di poter realizzare la sua vocazione sacerdotale: dovette vincere la caparbia resistenza di suo padre, poi quelle frapposte dai superiori, in seminario, i quali non lo reputavamo adatto, sotto il profilo intellettuale, soprattutto per la sua estrema difficoltà ad imparare il latino; e dovette far fronte ad una estrema povertà, tanto che, per un periodo, quando era ancora vicario parrocchiale, visse praticamente della carità dei suoi parrocchiani, peraltro privandosi anche del poco che aveva, mangiando pochissimo e donando quasi tutto il “superfluo” ai poveri, sempre sorretto da una fede semplice, luminosa, a tutta prova, che veniva da una assoluta confidenza in Dio e da una febbre di contemplazione e adorazione pari solo alla sua sollecitudine per la salute delle anime. Passava ore e ore seduto nel confessionale, fin dalle primissime ore del mattino, molto prima dell’alba; e, come san Pio da Pietrelcina, ebbe anche a vedersela con gli assalti del demonio, infuriato dall’apostolato che svolgeva e dalla trasformazione spirituale che avveniva in quanti si avvicinavano a lui, a quel piccolo prete non molto dotto (che poi si dedicò, nei minimi ritagli di tempo, a una fervida lettura di opere religiose), ma dal sorriso angelico e dalla tempra d’acciaio. Non aveva altro amore che Gesù, la Madonna e le anime; né altri interessi e preoccupazioni che annunciare il regno di Dio.

Pochi uomini, pur sani e robusti, avrebbero retto a lungo il suo stile di vita: poche ore di sonno, poco cibo, consumato in fretta e, sovente, stando in piedi; poi preghiera, confessione, ancora preghiera e ancora confessione, e assistenza ai malati, e celebrazione dell’Ufficio divino. Poco fidenti in lui, i suoi superiori gli avevamo affidato la cura di quel villaggio insignificante pensando che lì, almeno, non avrebbe potuto fare troppo danno; non sapevano che la vita religiosa del popolo francese, che aveva toccato il punto più basso negli anni della scristianizzazione rivoluzionaria, avrebbe ricevuto una potente rigenerazione proprio da quel piccolo prete che sapeva male il latino, senza distinzione, senza nessuna di quelle doti apparenti, e appariscenti, che sembrano il corredo necessario e quasi la garanzia del prestigio e del successo. Arrivando in paese, si era fato indicare la via da un contadinello, al quale aveva poi detto:Tu mi hai mostrato la strada per salire ad Ars; io ti mostrerò la strada per salire al Cielo. Aveva trovato un villaggio neghittoso, con la gente che trascorreva tutto il tempo libero bevendo e giocando all’osteria: e non aveva perso tempo a far vedere, innanzitutto con l’esempio, che la via del Cielo esige preghiera, penitenza, sacrificio, e che è incompatibile con l’ozio e con le cattive abitudini, come quella del bere. Non si deve credere, però, ch’egli fosse un sacerdote tetro, un uomo triste: al contrario, viene descritto, fin da bambino, come una persona naturalmente allegra e serena, portata al buon umore. È il mistero dei santi: sono capaci delle privazioni più austere, della vita più sobria e faticosa, senza mostrare quella pesantezza, quell’affaticamento, anche spirituale, che coglierebbe, al loro posto, chiunque altro: la loro capacità di “ricaricarsi” di energia, di trovare la forza per fare ciò che fanno, e di farlo col sorriso sulle labbra, non è di origine umana, non viene da una tecnica di meditazione puramente umana: è di origine soprannaturale, divina. Avendo offerto ogni cosa, sino al fondo dell’anima, a Dio e al prossimo, hanno ricevuto, in compenso, un “filo diretto” con il Cielo. In loro si realizza la promessa di Gesù: Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualcosa nel mio nome, io la farò (Giovanni, 14, 13-14).
Ecco come don Marcello Cruciani, sacerdote della diocesi di Orvieto-Todi, ha schizzato la figura e la giornata-tipo del santo curato d’Ars nel volumetto Sacerdote, amore del cuore di Gesù. Vita di S. Giovanni Maria Vianney, parroco di Ars, Todi, Tau Editrice, 2010, pp. 21-27):

Secondo le testimonianze ha “quel dono meraviglioso di sembrare agli occhi di tutti l’immagine di Gesù Cristo”. Il suo modo di parlare e il suo sguardo affascina. Pur dormendo e mangiando poco, dimostra un’estrema robustezza che contrasta con la sua corporatura modesta. Possiede una buna dose di giovialità e il suo sguardo brilla di bonarietà contadina.
Ricco per dare agli altri, ma povero per sé, vive in un totale distacco dai beni di questo mondo e il suo cuore veramente libero si apre lungamente a tutte le miserie materiali e spirituali che affluiscono a lui. “Il mio segreto – egli dice – è semplicissimo: dare tutto senza conservare niente”.
Uomo di penitenza, don Giovanni Maria Vianney ha compreso che il sacerdote deve essere prima di tutto uomo di preghiera. Passa infatti lunghe notti in adorazione. Il tabernacolo della sua chiesa è la sorgente della sua incessante preghiera. Vi passa lunghe ore, anche quando è assillato da tanta gente che vuole confessarsi parlare con lui. Ripete spesso: “La preghiera, ecco la felicità dell’uomo sulla terra”. I suoi parrocchiani capiscono che egli manifesta loro qualcosa del segreto della sua vita interiore, frequentemente dice ai suoi fedeli: “Essere amati da Dio, essere uniti a Dio, vivere alla presenza di Dio, vivere per Dio, oh! Che bella vita e che bella morte!”. Vive con fedeltà il celibato: “la castità brillava ne suo sguardo, anche se conosce, per le lunghe ore passate in confessionale, le tristi realtà dei peccati della carne.
Per se stesso non vuole assolutamente nessun lusso o agio ma per il Signore, per la Liturgia non bada a spese; celebra sempre con grande attenzione e partecipazione. Tutto il centro della sua vita è la celebrazione dell’Eucarestia. Si prepara scrupolosamente alla predica; i primi anni trova molta difficoltà (non dimentichiamo che le omelie, a quei tempi, non durano meno di tre quarti d’ora), in seguito, quando riesce a sciogliersi, diventa un predicatore formidabile, e si fa ressa per ascoltarlo. La sera, dopo che  riuscito a chiudersi in casa, a lume di candela legge e medita: possiede una biblioteca di quattrocento volumi e siamo nel secolo XIX! […]
Ars è invasa da tanti pellegrini. Essendo piccola non ha la capacità di accogliere tutta quella gente, così molte persone vengono ad abitarci e aprono degli esercizi commerciali per accogliere e sfamare i numerosi pellegrini. Alcune cose fanno soffrire il Santo curato, feriscono la sua profonda umiltà. Definisce la vendita dei suoi ritratti nei negozi di Ars come “pagliacciate”, Una tale affluenza di pellegrini non permette al parroco di dedicarsi con totalità ai suoi parrocchiani. La diocesi gli affida prima un coadiutore, che lo fa anche molto soffrire per il suo carattere autoritario. Infine gli sono affiancati dei missionari diocesani che fanno tanto del bene alla parrocchia e ai pellegrini.
All’una del mattino il curato scende in chiesa ma non può più passare delle ore in preghiera di adorazione, perché già lo attendono dei penitenti per confessarsi. Dall’una e mezza, fino alle sei, ascolta le penitenti, poi si alza e celebra la Messa. Si prepara per venti minuti e dopo la celebrazione fa il ringraziamento per mezz’ora. Dopo, si reca alla ‘Provvidenza’ [l’orfanotrofio] e beve una tazza di latte. Poi torna in sagrestia per confessare gli uomini. Verso le dieci, interrompe le confessioni, si reca nel coro e, sempre in ginocchio, recita il breviario. Poi, dopo venti minuti, riprende le confessioni. Alle undici, va alla ‘Provvidenza’ per insegnare il catechismo; in seguito all’aumentato afflusso dei pellegrini la catechesi si svolge in chiesa. Verso mezzogiorno, dopo aver inghiottito, senza nemmeno sedersi, il suo leggero pasto, rientra nel presbiterio per spazzare la sua stanza, radersi, dormire e vistare i malati. Tornando in chiesa, ricomincia a confessare le donne fino alle cinque. Poi passa in sagrestia per confessare gli uomini, fino verso le sette o le otto. Recita il rosario e le preghiere della sera con chi si trova in chiesa, infine rientra nel presbiterio. Riceve qualcuno e, verso le nove o le dieci, si chiude in camera sua. Termina la recita del breviario: poi prega, legge e va a stendersi sul pagliericcio per circa tre ore. Il curati ascolta ogni giorno, in confessione, dalle cinquanta alle cento persone, tranne la domenica, giorno in cui il suo tempo è preso dalla Messa solenne e, nel pomeriggio, dai vespri seguiti dalla benedizione eucaristica.

Questa è stata, dal 1818 al 1859, la vita di Jean-Marie Vianney: una perfetta (umanamente parlando, cioè imperfettamente parlando) imitazione di Cristo. Monotona, stressante, impossibile? Dormire tre ore per notte! Cominciare le confessioni all’una del mattino! Ascoltare, per ore e ore, ogni giorno, tutte le brutture, tutte le tristezze, tutte le perversioni dell’anima umana, e perdonarle in nome di Gesù! Mai una distrazione, mai un piccolo lusso, una pausa di riposo: per leggere, la sera tardi, rubare le ore al sonno, già così scarse. E sempre il breviario, la preghiera, l’adorazione eucaristica. No: né monotona, né stressante, né impossibile: possibilissima, anzi, così come sono possibili le azioni di chi confida interamente nel Signore. La forza che lo sosteneva, veniva dall’alto: lui si limitava ad accoglierla e far trovare pulite e in ordine le stanze dell’anima, vivendo nella grazia di Dio. Era di esempio senza sforzo, senza ostentazione; era un modello perché si teneva nascosto. Esattamente il contrario di quel che fa chi vive secondo la mentalità del mondo, che, a forza di mostrarsi, di apparire, spera di ritagliarsi uno spazio di visibilità, magari di celebrità. Chi vive così, desidera essere apprezzato dal mondo; chi vive come il curato d’Ars, o come san Leopoldo Mandic, o come padre Pio da Pietrelcina – altri due grandi mistici, confessori e conoscitori d’anime, ma dall’animo semplice come fanciulli – non vuol piacere che a Dio. Di quel che pensano gi uomini, non gl’importa; desidera solo ricondurne a Dio quanti più possibile, anche prendendosi sopra le spalle i peccati altrui. È questo il vero spirito sacerdotale: il sacerdote non è un alter Christus perché possiede qualcosa in più dei comuni mortali, ma perché ha detto integralmente “sì” a Dio, si è arreso a Lui, si è fatto suo strumento di misericordia, suo volto.
Da queste considerazioni risalta quanto lontani siano dal vero quei sacerdoti moderni, o piuttosto modernisti, i quali considerano la preghiera e l’adorazione quasi un lusso, da concedersi quando le loro svariate cure pastorali lasciano loro un po’ di tempo, perché non pensano secondo Dio, ma secondo gli uomini.  

Il sacerdote è innanzitutto uomo di preghiera

di Francesco Lamendola Del 15 Settembre 2017
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VESCOVI ORMAI "NON CATTOLICI"

Vescovi modernisti, il cattolicesimo è un’altra cosa. La naturalezza con cui si parla della volontà di cambiare la Chiesa e compiacendosi della sua rapidità: le eresie di monsignor D’Ercole. Sarete responsabili di uno scisma? di Francesco Lamendola  

 

Di monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno, il quale tiene, con molta disinvoltura, una rubrica fissa, Gente di fede, dedicata a rispondere alle domande dei lettori, sulla rivista di gossip Il settimanale nuovo, tra un servizio illustrato sulle curve generose del lato A dell’attrice Tal dei Tali, e un altro sulle curve, ancor più generose, del lato B della show-girl Talaltra (le altre rubriche, per farsi un’idea del giornale: I nostri soldiParole d’amoreWeekendModaBellezzaSaluteOroscopoAddominali (sì, c’è una rubrica fissa solo per gli addominali), GiochiCinema, eccetera), ci eravamo già occupati in un precedente articolo, discutendo ciò rispondeva, in maniera banale e buonista, al quesito di un lettore circa la suora cattiva che non si ferma per fare la carità ad un mendicante professionista. Ci è impossibile non tornare a parlare di lui, essendoci capitato fra le mani il numero del 17 agosto 2017 di quella rivista, nel quale egli tratta, con la consueta leggerezza, un tema assai ampio, l’azione riformatrice di papa Francesco; e lo tratta da par suo, cioè da modernista e non da vescovo o da sacerdote cattolico. Ma siccome non ne possiamo più di questo clero modernista che si spaccia per cattolico, che fa credere ai fedeli di essere cattolico, e che smercia loro moneta falsa facendola passare per buona, cioè prendendoli in giro su una questione terribilmente seria – la vera fede e, quindi, la salute delle anime –sentiamo l’obbligo morale di dire forte e chiaro che costoro non sono cattolici, che non insegnano la dottrina cattolica, che sono in realtà dei modernisti, cioè dei pericolosi eretici che si travestono da cattolici, ai quali san Pio X aveva comminato la scomunica sin dal 1907, con l’enciclica Pascendi.
A dire il vero, dall’articolo di monsignor D’Ercole non traspare nemmeno un modernismo vero e proprio, ma un atteggiamento di tipo modernista: ossia un atteggiamento di quasi incredibile nonchalance nel trattare questioni serie e delicate, una approssimazione pastorale inverosimile, e una conoscenza teologica che, un tempo, sarebbe valsa una sonora bocciatura a qualunque seminarista alle prese con l’ABC della dottrina cattolica.  Ciò che intendiamo dire è che i veri modernisti, sia quelli della prima ondata – i Loisy, i Tyrrell, i Buonaiuti -, sia quelli dell’ondata di mezzo – i Teilhard de Chardin – sia, infine, quelli dell’ondata conciliare e postconciliare – i Rahner, i Kasper, i Schillebeeckx, eccetera – possedevano un notevole spessore culturale: infatti era proprio la superbia intellettuale la ragione prima dei loro errori. Non è che non conoscessero la teologia cattolica; la conoscevano, e anche bene: è che pretendevano di sostituirla con le loro idee, moderniste e antropocentriche, gettando via la Tradizione e adattando le Scritture alle loro idee moderniste, protestantizzando il cattolicesimo e introducendo il principio della libera interpretazione, nonché riducendo a “simboli” o “miti” praticamente tutte le cose che riguardano la dimensione soprannaturale, e quindi lasciando, della dottrina, solo una vaga impalcatura morale, che ciascuno intende a modo suo, secondo il proprio “sentimento” religioso. Ma i Paglia, i Galantino, i Sosa Abascal, i Martin, i D’Ercole, mostrano una straordinaria ignoranza teologica e una ancor più stupefacente disinvoltura nel sostenere punti di vista balordi e peregrini, fondati su argomentazioni da autobus o da bar:Non sappiamo cosa disse veramente Gesù perché a quel tempo non c’erano i registratori, dice, per esempio, padre Sosa, che non è un Pinco Pallino qualsiasi, ma il nuovo generale dei gesuiti. E che dire dell’affermazione, fatta da papa Francesco in persona (il 19 aprile 20017, nel corso di un’udienza generale ), che la morte di Gesù sulla croce è un fatto storico, mentre la Resurrezione è “solo” un atto di fede? Un mese prima, il 17 marzo, sempre in un’udienza al Palazzo Apostolico, il papa, per spiegare l’unità e la differenza nella Santissima Trinità, aveva detto che è come se le Tre Persone divine stessero sempre a litigare a porte chiuse, mentre, al di fuori, danno un’immagine di unità.
Ed ecco cosa scrive monsignor D’Ercole a una lettrice che chiede il suo parere sulla nomina del cardinale Gualtiero Bassetti a presidente della C.E.I.; lettrice che, peraltro, non sembra aver bisogno di pareri altrui, visto che ha già le idee ben chiare, affermando che quella nomina contribuisce a creare “una Chiesa diversa, più aperta e più vicina al messaggio di Cristo”: una affermazione talmente in sintonia con la linea di Bergoglio e dello stesso D’Ercole, che sembra più un’imbeccata che una vera domanda (ma costoro ci prendono proprio per scemi? A noi, che conoscevamo la Rivista della RDT, queste domande e risposte concertate hanno un suono familiare, di cosa già vista e  molto triste, in perfetto stile sovietico):
 Carissima signora Amalia, papa Francesco sta cambiando la Chiesa in moltissimi modi: anche con i gesti, per esempio, ma soprattutto con innovazioni che attecchiranno sempre di più nel terreno sociale  e nel cuore della gente col trascorrere del tempo. È difficile e prevedere come sarà la Chiesa fra vent'anni, perché la Chiesa delle periferie – come ama dire spesso il Pontefice – ci riserverà ancora tantissime sorprese. La nomina del cardinale Gualtiero Bassetti si inserisce in modo stupendo in questa tendenza. Il porporato, infatti, da sempre si è distinto per l’annuncio appassionato del Vangelo e per il servizio ai poveri, che rimangono nel cuore della sua e della nostra vocazione. Per questo, papa Francesco ha già invertito un paradigma: la giustizia non è il fine ultimo dell’evangelizzazione, ma ne è il presupposto. Se non c’è giustizia sociale, se la relazione fra le persone viene interrotta dalla povertà, l’azione del Vangelo non trova spazio.
 In verità, è quasi umiliante doversi confrontare con delle tesi di una tale povertà intellettuale e spirituale e di una tale piaggeria (si noti quell’aggettivo, stupendo, del tutto sproporzionato e quasi ridicolo nel conteso in cui viene adoperato). Queste righe sembrano scritte da un analfabeta della teologia, oppure da una persona seriamente intenzionata a sovvertire e demolire la Rivelazione cristiana, così come noi l’abbiamo sempre conosciuta e come la Chiesa cattolica l’ha trasmessa fedelmente per quasi duemila anni.
Due sono le cose che maggiormente colpiscono, entrambe in senso estremamente negativo. La prima è la naturalezza con cui si parla della volontà di cambiare la Chiesa e ci si compiace della rapidità di tale cambiamento, al punto che, volendo fare una previsione, perfino colui che scrive non osa immaginare come sarà la Chiesa, non fra 200 anni, ma fra 20 anni. Il fatto che per due millenni essa sia rimasta salda su dei fondamenti della Tradizione e della Scrittura, gli è del tutto indifferente: facendo suo lo spirito del mondo, spirito di frenesia, febbre di novità, smania del cambiamento – trova che tutto ciò sia buono e giusto e non lo sfiora neppure l’idea che nessuno, tanto meno il papa, ha alcun diritto di far ciò: cambiare la Chiesa. La Chiesa non viene affidata al papa e ai vescovi perché la cambino, ma perché custodiscano e tramandino fedelmente il Deposito della fede e si preoccupino costantemente della salvezza delle anime; non della giustizia sociale. Questa è la prima cosa che balza all’occhio: ed è di una tale enormità, di una portata così devastante, da lasciar senza parole. Chi pensa, parla e scrive così, o non sa cosa sia la Chiesa, oppure la detesta e vuol fare al suo posto un’altra cosa. Come fece Lutero, del resto tanto ammirato da papa Francesco e dai suoi entusiastici sostenitori. C’è il piccolo particolare che Lutero è un eretico ed è stato solennemente scomunicato dalla Chiesa cattolica, per mano di papa Leone X (3 gennaio 1521). Ma niente paura: si parla già di una prossima remissione, anche formale, della scomunica: dopo le celebrazioni di Lund, in Svezia, la cosa sarebbe fin troppo naturale. Naturale, ma inammissibile; logica, ma intollerabile per i cattolici. Se davvero papa Francesco oserà fare un gesto del genere, siamo noi che non osiamo immaginare quali potrebbero essere le conseguenze per la Chiesa. Senza dubbio, una parte dei cattolici non lo potrebbe accettare: se lo facessero, dimostrerebbero di non esser più tali  e di non credere più alla vera Chiesa di Gesù Cristo, ma a un’altra chiesa, quella di Bergoglio e dei suoi fan, che non ha niente a che vedere con essa. A quel punto, il clero della neochiesa bergogliana dovrebbe assumersi l’immensa responsabilità di aver provocato uno scisma. A forza di tirare la corda, non c’è dubbio che finirà per spezzarsi. Si tratta solo di vedere quando, e in quale occasione verrà gettata la maschera.
Ma il secondo punto che emerge dalle parole di monsignor D’Ercole è ancora, se possibile, più sconcertante del primo. Laddove afferma che papa Francesco ha già invertito un paradigma: la giustizia non è il fine ultimo dell’evangelizzazione, ma ne è il presupposto. Se non c’è giustizia sociale, se la relazione fra le persone viene interrotta dalla povertà, l’azione del Vangelo non trova spazioegli riesce a dire ben tre eresie nell’ambito di un solo concetto.
La prima è che la giustizia, secondo lui, era il fine ultimo dell’evangelizzazione, evidentemente prima della “svolta” di Bergoglio; la seconda, che ora le teste d’uovo della neochiesa hanno compreso che non la giustizia è il fine, ma il presupposto; la terza, che il Vangelo non trova spazio se vi è la povertà, e quindi, prima di annunciare il Vangelo, bisogna eliminare la povertà. La prima eresia: la giustizia di cui egli parla è la giustizia degli uomini, tanto è vero che la scrive con la lettera  minuscola; ma la giustizia umana non è parte del messaggio evangelico. Il Vangelo di Gesù Cristo è l’annuncio del Regno di Dio, non del dovere di lottare per la giustizia umana. Non si dice, con questo, che essa non sia, o non possa essere, un nobile fine; si dice che non c’entra con il Vangelo, che non è parte del Vangelo, che non appartiene a ciò che Gesù ha insegnato agli uomini. Semmai, ha insegnato la carità; ma la sola giustizia di cui parla Gesù, è la Giustizia di Dio; in quella degli uomini, non mostra di avere la minima fiducia, per la ragione che gli uomini, da soli, senza Dio, e quindi senza la sua Giustizia, non possono fare niente (cfr. la similitudine della vite e dei tralci).
La seconda eresia è che la giustizia sia diventata, adesso, il presupposto del’evangelizzazione: vale a dire, prima di annunciare il Vangelo i preti e i fedeli devono rimboccarsi le maniche e farsi politici, sindacalisti, sociologi, amministratori, economisti, legislatori, in modo da fornire al Vangelo la sua necessaria base di giustizia (terrena ed umana: non quella divina). Davvero non si capisce se chi esprime una idea simile si renda conto, oppure no, di stare snaturando completamente la religione cristiana e la fede cattolica da ciò che sono, sono sempre state e devono continuare ad essere. Dire che prima deve venire la giustizia, poi il Vangelo, equivale a ridurre il vangelo (con la minuscola) a una delle tante ideologie di questo mondo, senza nulla di soprannaturale; per giunta, a un’ideologia di seconda scelta, perché, prima di poter essere annunciata, bisogna che sia realizzata un’altra condizione, la giustizia appunto. Ciò significa togliere al cristianesimo il suo carattere di Rivelazione divina, e anche la sua cosa più specifica: l’Incarnazione del Verbo, che si fa uomo, muore e risorge per amore dell’umanità. Dov’è, in tutto questo, Gesù Cristo? Dov’è l’amore del Padre? E dov’è l’azione dello Spirito Santo?  
Vescovi modernisti, il cattolicesimo è un’altra cosa

diFrancesco Lamendola Del 16 Settembre 2017
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