Non ha capito niente della vita e… della religione
L’Osservatore Romano del 14 ottobre 2017, a pagina 6 (Un’occasione provvidenziale), ha pubblicato la prolusione che il Card. Jean-Louis Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, ha pronunciato all’inaugurazione dell’Anno Accademico 2017-2018 dell’Istituto teologico di Assisi, il 9 ottobre 2017, nella Basilica di San Francesco.
All’inaugurazione era stato posto il tema: La teologia in Umbria a servizio del dialogo tra le religioni; e il cardinale ha parlato de: Il dialogo interreligioso: un rischio o una opportunità? -
Per completezza, riproduciamo il testo in calce.
Senza voler stravolgere il pensiero del cardinale, ci sembra sia possibile considerare, per prima cosa, che l’intervento è stato caratterizzato da questa dichiarazione:
«È perché confessiamo che Dio ha scelto, per rivelarsi, la via del dialogo con l’umanità, che la missione della Chiesa consiste appunto nel prendere l’iniziativa del dialogo con l’umanità.»
Sulla base del semplice buon senso, la cosa ci sembra risibile, ma ancor più, in termini documentari, forniti dalla Sacra Scrittura, la cosa è falsa.
Chissà dove avrà letto il cardinale che Dio ha creato l’uomo sulla base di un dialogo con l’uomo che non aveva ancora creato.
Ammettiamo che noi è da anni che ci arrovelliamo per cercare di comprendere le anguilliformi disquisizioni del Vaticano II, senza grande successo, ma ci sembra che né il Vecchio Testamento né il Nuovo Testamento siano, anche solo in qualche modo, dei resoconti dei dialoghi che Dio avrebbe intrattenuto col mondo e con l’uomo.
D’altronde, senza voler calcare la mano, com’è possibile sostenere l’assunto del cardinale, secondo cui Dio si sarebbe “rivelato” col “dialogo con l’umanità”?
Lo stesso termine «rivelazione» dovrebbe bastare ad impedire, perfino d’istinto, che si possa confondere “rivelazione”, appunto, con “dialogo”. Senza contare che questo termine indica ordinariamente il complesso di verità che Dio ha trasmesso, “rivelato” appunto, all’uomo; anche se dal punto di vista letterale sembrerebbe indicare una “ulteriore velazione”, una “nuova velazione”, una “ri-velazione” di Dio stesso; cioè il fatto che Dio, nel mostrare all’uomo le verità a cui questi deve credere, mentre in qualche modo mostra Se stesso, contemporaneamente vela Se stesso dietro queste verità, si “ri-vela”, tale che per comprendere Dio e coglierLo in qualche modo è necessario acquisire prima le verità che egli ha “ri-velato” e quindi praticarle e viverle… e per far questo è necessaria la guida, la via giusta: è quello che insegna Nostro Signore Gesù Cristo: Io sono la via, la verità, la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me (Gv 14, 6).
Ebbene, dov’è il “dialogo” che costituirebbe il mezzo col quale Dio si sarebbe rivelato? Da dove ha tirato fuori il cardinale Tauran anche solo un briciolo di “dialogo” dall’insegnamento e dai comandamenti che Dio ha dato agli uomini nella Sacra Scittura, perché apprendessero il primo e ubbidissero ai secondi?
Evidentemente si tratta di una bugia, una bugia che non è neanche pietosa o caritatevole, perché è solo malevola, fuorviante e cerca maldestramente di strumentalizzare la rivelazione di Dio a beneficio delle false aspirazioni moderne di una religione universale.
Il cardinale parte in quarta con una contraddizione:
«Contrariamente a quanto si dice spesso, il dialogo interreligioso non favorisce il relativismo, ma lo combatte, dato che la prima cosa che si fa non è altro che proclamare la propria fede. Devo confessare che per me Gesù Cristo è il Signore. Devo dire come ha cambiato la mia vita. E il mio partner nel dialogo dovrà fare lo stesso. Non si può imbastire un dialogo sull’ambiguità.»
Quindi, secondo l’illogica logica del cardinale, il “dialogo” combatterebbe il relativismo, perché esso consisterebbe nel “proclamare la propria fede”. Ma questa proclamazione, non consiste proprio nell’affermazione della verità di Dio? E questa affermazione della verità, non esclude a priori un qualsiasi dialogo, dato che è solo l’offerta all’altro di ciò che non può essere né discusso né dialogato?
Per di più, se anche l’altro dovrà fare la stessa cosa – proclamare la propria fede -, non si ritroverà anche lui nell’impossibilità di “dialogare”, per il semplice fatto che anche la sua proclamazione è l’offerta di ciò che non può essere né discusso né dialogato?
Giusto, come dice il cardinale: “non si può imbastire un dialogo nell’ambiguità”, ma è proprio per queste esigenza di scartare l’ambiguità che è impossibile far dialogare la fede dell’uno con la fede dell’altro, perché incontestabilmente ognuna di queste fedi, per essere tale, può essere solo esclusiva.
Se la fede che ognuno proclama è veramente tale, lo è, per l’interessato, in forza del fatto che egli sa di proclamare la verità, ma se due interlocutori proclamano entrambi la propria fede, per ciò stesso proclamano entrambi la verità, tale che o si tratta della stessa unica verità – e allora non c’è necessariamente alcun dialogo – o si tratta di due verità, e allora non c’è ancora alcun dialogo per il semplice fatto che, essendo la verità una sola possibile, una delle due sarà vera e l’altra sarà falsa.
Se ne conclude che il cardinale sostiene una impossibilità: il dialogo tra due verità, cosa che è palesemente assurda.
Di fatto, l’unica cosa possibile è proprio quella che il cardinale pretende subito di confutare: il dialogo interreligioso favorisce il relativismo; e questo per il semplice motivo che la stessa accezione di “dialogo” implica necessariamente che i dialoganti scartino a priori il convincimento di “proclamare la propria fede” – e cioè di proclamare la verità – e si accomodino sul convincimento che la “propria fede” non coincida con la verità, ma sia una verità valida di per sé al pari di quella espressa dalla “propria fede” dell’altro; che si tratti quindi, per entrambi, non della verità, ma di una verità, la quale per definizione stessa può essere solo relativa, relativa sia all’uno sia all’altro.
E come si deve chiamare questa proclamazione del dialogo tra “due” verità relative, se non relativismo?
Ci spieghi il cardinale come il dialogo interreligioso combatterebbe il relativismo proclamando delle verità relative. E quando riuscirà a spiegarci che promuovere il relativismo significa combattere il relativismo, allora, e solo allora, potremmo prendere in considerazione la possibilità di instaurare un “dialogo” con i miscredenti o anche con lui stesso.
Ovviamente, per dare un minimo di credibilità alle sue dichiarazioni, il cardinale, da cattolico, ricorre alla citazione di San Paolo (Ebrei, 1, 1): «Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi ha parlato ai Padri», per poggiarvi sopra, senza alcuna vergogna, un altro dei suoi assunti: “Dio stesso è dialogo”.
Ora, per ragioni di chiarezza, riportiamo per intero il testo di San Paolo (Ebrei 1, 1-2): «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo.»
Ebbene, questo testo di San Paolo, che richiama evidentemente tutto l’Antico Testamento, che come abbiamo già detto non parla di “dialogo”, dice chiaramente che Dio “ha parlato” ed ora parla “a noi per mezzo del Figlio”, riferendosi al Nuovo Testamento.
San Paolo, quindi non parla di “dialogo”, ma della “parola” di Dio, ultimamente espressa con la stessa “parola” incarnata, il Logos di Dio fattosi uomo per istruire le genti ed offrire loro quella possibilità di salvezza che, come abbiamo ricordato prima, è Cristo stesso senza il Quale non si va al Padre.
Il fatto che il cardinale cerca di far passare per “dialogo” la stessa realtà di Dio, è indice della grande confusione mentale e di spirito che alberga in lui come in tutti i moderni uomini di Chiesa, figli del Vaticano II e succubi del mondo.
E se ci si volesse obiettare che le menti e i cuori di questi moderni uomini di Chiesa non sarebbero afflitti dalla confusione, saremmo costretti a concludere che allora sono mentitori.
Come è mentitore il cardinale quando afferma che
«Cristo è l’unico Salvatore, e ogni uomo è stato redento da lui, anche se non ne è consapevole.»
Ma, se ogni uomo è stato redento, anche se non ne è consapevole, non si capisce bene perché ci si dovrebbe tanto arrabattare col “dialogo”, tenuto conto che, a questo punto, neanche la Chiesa avrebbe alcuna ragione di esistere… e quindi neanche lo stesso cardinale Tauran.
Il fatto è che quanto afferma il cardinale è falso, perché Cristo è, sì, l’unico Salvatore, ma in quanto è «L’Agnello di Dio che si è fatto carico dei peccati del mondo», e non Colui che ha rimesso tutti i peccati del mondo a tutti gli uomini. E la cosa è così palesemente assurda che se fosse vero che “ogni uomo è stato redento”, nel mondo non ci sarebbe più il peccato, cosa palesemente non vera!
Vero è che questa falsità della “redenzione di ogni uomo” che sarebbe avvenuta automaticamente con la crocifissione di Cristo, è da cinquant’anni che circola indisturbata tra i moderni uomini di Chiesa, ma ci dimentica spesso che “sbagliare è umano, perseverare è diabolico”.
E il cardinale persevera quando afferma:
«Dio è presente in ogni uomo sin dall’inizio della sua esistenza, quindi molto prima di appartenere a una religione. Questo Dio è il Dio-Trinità, che invita ognuno di noi a condividere la sua vita.»
Ora, mentre è vero che Dio è Dio-Trinità ed è presente in ogni uomo, è falso che da questo si possa dedurre che «Siamo quindi invitati a entrare nel dialogo fondamentale iniziato da Dio stesso.»
Quale “dialogo”? Se si è detto che Dio è “presente in ogni uomo”?
La presenza di Dio non è affatto un “dialogo” di Dio. Semmai si potrà parlare, da parte dell’uomo, del riconoscimento di tale presenza; ma, data la natura manchevole dell’uomo decaduto, questo riconoscimento non avviene se non con l’intervento della Rivelazione di Dio e con la Sua grazia conseguente e sempre a condizione che l’uomo creda nella Rivelazione e, ubbidendo alle leggi di Dio, si renda degno di ricevere la Sua grazia.
Il che significa che il “dialogo” non ha alcun senso nell’economia della grazia e non ha alcun senso l’affermazione del cardinale: «Quindi siamo invitati a scoprire la presenza di Dio in ogni cultura, in ogni persona, in ogni uomo. Sono i famosi semina verbi.»
Perché saremmo invitati a questa scoperta?
E’ un mistero che resta chiuso nella mente del cardinale, perché egli non dà la minima spiegazione né dell’invito né della scoperta. Si limita a rafforzare il concetto dicendo: «Siamo quindi invitati a entrare nel dialogo fondamentale iniziato da Dio stesso».
E ancora ribadiamo che questo supposto “dialogo” di Dio è solo una gratuita interpolazione del cardinale, che non poggia su alcun insegnamento: una sorta di postulato indimostrato che viene dato per scontato e serve solo a giustificare la strana idea che “saremmo inviati al dialogo”; strana idea che non tiene conto del comandamento di Dio col quale Egli non comanda di ”dialogare”, ma di “ammaestrare” e di “battezzare” (cfr. Mt. 28, 18), cose che sia in italiano, per noi, sia in francese, per il cardinale, non hanno alcunché a che vedere col “dialogo”; anzi, posto che il “dialogo” presuppone lo scambio di opinioni tra due o più persone, l’“ammaestrare” e il “battezzare” impongono il doppio dovere: per il credente cattolico di «predicare» e per il non credente di credere, perché «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato.» (Mc. 16, 16)
Questo è che quello che ha insegnato Nostro Signore e che la Chiesa ha ripetuto per duemila anni, e questo è tanto lontano dal “dialogo” del cardinale, quanto il cardinale stesso si rivela essere lontano dall’insegnamento di Nostro Signore, al punto da dar prova di non essere veramente cattolico.
Colto lo è, però, perché ci spiega che il “dialogo”, in latino si dice “colloquium”, e, sulla scorta di Paolo VI (enciclica Ecclesiam suam), egli parla di “colloquium salutis” «cioè il dialogo della salvezza di cui Dio prende l’iniziativa» in quanto «Dio si è rivelato lui stesso al mondo tramite un processo di dialogo.»
Abbiamo già detto della inconsistenza di questo assunto, quindi possiamo solo aggiungere che da una premessa sbagliata può solo nascere una conclusione sbagliata:
« la dimensione dialogale della rivelazione fonda il carattere dialogale della missione. … È perché confessiamo che Dio ha scelto, per rivelarsi, la via del dialogo con l’umanità, che la missione della Chiesa consiste appunto nel prendere l’iniziativa del dialogo con l’umanità.»
Qui è tutto sbagliato e non si può pensare che si tratti di un errore non voluto, perché la ripetizione del concetto conferma la precisa volontà di affermare cose false offrendole come fossero vere.
E’ sbagliata la confusione tra “colloquio” e “dialogo”; è sbagliato il “carattere dialogale” della Rivelazione; è sbagliato il “carattere dialogale” della missione della Chiesa; è sbagliato, e anche tecnicamente impossibile, il “dialogo con l’umanità”.
Se si sente il bisogno di “dialogare” e non il dovere di “ammaestrare” e di “battezzare”, è perché si dubita della propria fede, e la fede dubitata è una fede già morta, che lascia spazio solo alla conversione alla rovescia: i cattolici che si convertono al paganesimo o all’anticattolicesimo, i credenti in Cristo che si convertono in credenti dell’Anticristo, … sarà questo il caso del cardinale Tauran?
Non possiamo entrare nelle intenzioni del cardinale, né effettivamente ci preoccupano: ad esse penserà al momento stabilito lo stesso Nostro Signore: unicuique suum. Ma possiamo leggere ciò che scrive e questo ci sembra preoccupante:
«Per noi cristiani il centro di gravità della dimensione religiosa non è da ricercare in un libro sacro, in riti o minuziosi precetti, ma si trova nella persona umana»…
Cioè?
Cioè, per il cardinale, la religione cristiana, e ovviamente la religione cattolica, non è incentrata sugli insegnamenti di Cristo – il libro sacro – e sulla liturgia e i precetti della Chiesa – riti o minuziosi precetti -, ma è incentrata sulla persona umana, vale a dire che non è incentrata su Dio, ma sull’uomo. E questo, chiaramente, non è né cristiano né cattolico; e, a ben vedere, non è neanche rispondente al semplice buon senso, poiché è assurdo parlare di religione – o di “dimensione religiosa” – il cui “centro di gravità” sarebbe l’uomo: se la religione - religio - è tale perché ribadisce il legame – re-ligare – tra l’uomo e Dio, è semplicemente assurdo parlare di religione che, essendo incentrata sull’uomo, ribadirebbe il legame tra l’uomo e l’uomo, tra l’uomo e se stesso.Cioè?
L’unica cosa possibile che possa significare questo concetto espresso dal cardinale è che, secondo lui, la religione cattolica non è la religione di Dio, ma la religione dell’uomo. Cosa peraltro non nuova, perché già insegnata dai papi del post-concilio, a partire da Paolo VI col suo famoso: «anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo» (Discorso di chiusura del Concilio, 7 dicembre 1965).
Ed è da qui che deriva un’altra concezione modernista e anticattolica espressa dal cardinale sulla scorta della Lumen gentium del Vaticano II:
«La Chiesa ha la missione di testimoniare che tutte le differenze sono ordinate all’unico popolo di Dio. Essa diventa sacramento «ossia segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium 1).
Da cui si ricava che la Chiesa non avrebbe più la missione di “ammaestrare” e “battezzare” tutte le genti, bensì quella di testimoniare che il popolo di Dio sarebbe tutta l’umanità e che tutte le differenze religiose che si riscontrano nell’umanità sarebbero ordinate all’unico popolo di Dio e cioè all’umanità stessa.
Chiaro riferimento al fatto che tutte le religioni del mondo avrebbero la funzione di servire l’umanità, risolvendo le rispettive differenze nella nuova religione dell’uomo che le sostituirebbe tutte con l’unica religione del mondo dell’unico popolo di Dio.
Così il cerchio si chiude e si ribadisce quanto affermato da Lumen gentium: che la Chiesa non sarebbe la Sposa Immacolata di Cristo voluta dal Signore per permettere agli uomini di raggiungere il Cielo e la salvezza eterna, ma il “sacramento” – segno e strumento – dell’unità di tutto il genere umano.
Come dire che il Figlio di Dio si sarebbe Incarnato, avrebbe sofferto la Passione e si sarebbe Sacrificato sulla Croce, non per riscattare i peccati degli uomini, ma per permettere l’unità di tutto il genere umano.Dopo la miscredenza, siamo alla blasfemia, e non a caso proferita dalla bocca del Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, a riprova che tale dialogo ha il preciso scopo di unire tutte le religioni per servire tutto il genere umano… dopo di che l’Anticristo potrà fare il suo effimero ingresso trionfale e tutti i cardinali Tauran lo serviranno… fino a quando Dio non chiederà loro la resa dei conti.
E chiudiamo con una sorta di autodafé del cardinale, che egli forse fa a nome di tutti i suoi confratelli: dopo aver ricordato che le società moderne hanno relegato le religioni nel privato – dimenticandosi di ricordare che lo hanno fatto col concorso delle nuove gerarchie della nuova Chiesa conciliare – egli constata:
«Il grande paradosso è, che se Dio ha fatto ritorno sul palcoscenico delle società occidentali (in verità non era mai uscito di scena), è grazie ai musulmani. Sono i musulmani che hanno chiesto spazio per edificare le loro moschee, rispetto per i loro riti, spazio per Dio nella società.»
Affermazione che, in bocca ad un cardinale di Roma, suona come una confessione: di chi ammette di non aver mai chiesto alla società il rispetto dei riti cattolici e lo spazio che spetta a Dio nella società. Cosa che oggi, dice il cardinale, è stata fatta ed ottenuta dai musulmani, a riprova che a difesa di Dio sarebbero rimasti solo gli infedeli, dopo il tradimento dei chierici consumatosi col Vaticano II.
Che dire? Se non che giorno dopo giorno sembra proprio che i tempi si facciano sempre più stretti e annuncino l’approssimarsi dell’intervento di Dio che ben difficilmente sarà diverso da un immane terribile castigo.
Abbi pietà, Signore. Kyrie, eleison.
Contrariamente a quanto si dice spesso, il dialogo interreligioso non favorisce il relativismo, ma lo combatte, dato che la prima cosa che si fa non è altro che proclamare la propria fede. Devo confessare che per me Gesù Cristo è il Signore. Devo dire come ha cambiato la mia vita. E il mio partner nel dialogo dovrà fare lo stesso. Non si può imbastire un dialogo sull’ambiguità.
Dialoghiamo perché Dio stesso è dialogo e non ha mai abbandonato l’umanità. «Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi ha parlato ai Padri» (Ebrei 1, 1). Cristo è l’unico Salvatore, e ogni uomo è stato redento da lui, anche se non ne è consapevole. Ma «lo Spirito soffia dove vuole» (Giovanni, 3, 8) ed è all’opera in ogni persona umana.
Quindi siamo invitati a scoprire la presenza di Dio in ogni cultura, in ogni persona, in ogni uomo. Sono i famosi semina verbi.
Secondo la nostra fede, Dio è presente in ogni uomo sin dall’inizio della sua esistenza, quindi molto prima di appartenere a una religione. Questo Dio è il Dio-Trinità, che invita ognuno di noi a condividere la sua vita. Siamo quindi invitati a entrare nel dialogo fondamentale iniziato da Dio stesso.
La parola “dialogo”, in latino colloquium, appare per la prima volta in un documento del magistero nell’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI. In realtà, il Papa parla del colloquium salutis, cioè il dialogo della salvezza di cui Dio prende l’iniziativa, e suggerisce così che se la Chiesa dialoga con l’umanità, lo fa perché confessa che Dio si è rivelato lui stesso al mondo tramite un processo di dialogo. Quindi, per Paolo VI, la dimensione dialogale della rivelazione fonda il carattere dialogale della missione. Da rilevare che l’enciclica parla del colloquium salutis per «tutta l’umanità», e non soltanto con le religioni dell’umanità. È perché confessiamo che Dio ha scelto, per rivelarsi, la via del dialogo con l’umanità, che la missione della Chiesa consiste appunto nel prendere l’iniziativa del dialogo con l’umanità.
Per noi cristiani il centro di gravità della dimensione religiosa non è da ricercare in un libro sacro, in riti o minuziosi precetti, ma si trova nella persona umana, così come la pienezza della rivelazione non è il libro delle Scritture, ma la persona di Cristo Figlio di Dio «mediatore e pienezza della rivelazione» (Dei Verbum, 2). Ciò comporta delle conseguenze sul modo di concepire il dialogo interreligioso. Per esempio, se noi c’interessiamo al Corano, non è per il Corano stesso, ma a causa del rispetto che i musulmani hanno verso questo libro, dove trovano le risposte alle loro domande.
Se ci riferiamo all'insegnamento di Giovanni Paolo II, a partire dall’anno 1986, dopo la prima riunione di Assisi del 27 ottobre, abbiamo una chiara visione dei fondamenti
teologici dell’impegno della Chiesa nel dialogo interreligioso. Mi riferisco soprattutto al discorso del 22 dicembre 1986 alla Curia romana.
Il Papa sviluppa la sua riflessione in tre punti. L’unità della famiglia umana: tutti gli uomini sono stati creati a immagine e somiglianza di Dio, e quindi ogni uomo è un fratello, ogni donna, una sorella, per cui Cristo è morto (1 Corinzi 8, 11).
Quindi c’è un unico disegno divino per ogni essere umano, un principio e una fine unici, quali che siano il colore della pelle, l’orizzonte geografico e storico, la cultura in cui sono vissuti.
Dopo aver evocato l’unità della famiglia umana, Giovanni Paolo II sottolinea le differenze: alcune, dovute alla storia, devono essere superate; altre sono un’occasione per conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, ed essere pronti a rispettare quei semi del Verbo che vi si trovano nascosti. Detto ciò, il concilio parla anche nel decreto Ad gentes dei non cristiani che possono apprendere da noi quali ricchezze Dio, nella sua munificenza, ha dato ai popoli e insieme, alla luce del Vangelo, di liberarle e di ricondurle sotto l’autorità di Dio Salvatore.
Così si capisce meglio quale sia la vocazione della Chiesa in seno all’umanità. La Chiesa ha la missione di testimoniare che tutte le differenze sono ordinate all’unico
popolo di Dio. Essa diventa sacramento «ossia segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium 1).
Il dialogo interreligioso diventa un’occasione di apprendimento e di testimonianza della propria fede. Ecco perché mi sembra che i credenti sono oggi di fronte a tre sfide, come ha ricordato Papa Francesco ai musulmani ad Al-Azhar, al Cairo il 28 aprile 2017. La sfida dell’identità: chi è il mio Dio? La mia vita è coerente con le mie convinzioni religiose? La sfida dell’alterità: chi pratica una religione diversa dalla mia non è necessariamente un nemico, ma un pellegrino verso la verità. La sfida della sincerità: Dio è all’opera in ogni persona, e quindi, attraverso vie che lui solo conosce, può condurre gli uomini che senza loro colpa ignorano il vangelo, a quella fede «senza la quale è impossibile piacergli» (Ebrei 11, 6). Vedete: non si tratta di mettere tra parentesi la nostra fede, di tacere di fronte alle discriminazioni, alle persecuzioni, di cui nel mondo cadono vittime tanti nostri fratelli nella fede.
La Rivoluzione francese del 1789 ha cercato di organizzare una società senza Dio. Le grandi ideologie del secolo scorso, il marxismo e il nazismo, avevano lo scopo di organizzare la società contro Dio e, negli anni settanta, quando le religioni erano ancora una realtà maggioritaria, si cercò di privatizzarle. Si poteva essere credenti, ma non si doveva vedere. Il grande paradosso è, che se Dio ha fatto ritorno sul palcoscenico delle società occidentali (in verità non era mai uscito di scena), è grazie ai musulmani. Sono i musulmani che hanno chiesto spazio per edificare le loro moschee, rispetto per i loro riti, spazio per Dio nella società.
Purtroppo il fondamentalismo e il terrorismo sono stati o sono ancora identificati erroneamente con la religione islamica. Non si tratta, ovviamente, del vero islam, praticato dalla stragrande maggioranza dei seguaci di questa religione. Le religioni
sono capaci del peggio o del meglio, possono mettersi al servizio di un progetto di santità o di alienazione, possono predicare la pace o la guerra. Quindi pongo la domanda: il dialogo interreligioso è un rischio o un’opportunità?
Sicuramente, col dialogo mi assumo un rischio: non rinuncio alla mia fede, ma accetto di farmi interpellare dalle convinzioni altrui, di prendere in considerazione argomenti diversi dai miei. Ogni religione ha la sua identità, ma accetto di considerare che Dio è anche all’opera in tutti, nell’anima di chi lo cerca con sincerità. Non si tratta di voler creare a tavolino una religione universale, o di cercare il “minimo comune denominatore religioso”. La prima condizione perché il dialogo interreligioso
sia fecondo è la chiarezza.
Ogni credente dev’essere consapevole della propria identità spirituale. Quindi, secondo me, quando si fa questo, il rischio del relativismo non esiste. Invece, il dialogo interreligioso è un’opportunità provvidenziale per approfondire la propria fede con
una catechesi appropriata, nonché per conoscere le religioni degli altri.
Il dialogo, dunque, non nasce da tattica o tattica, ma è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell’uomo ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole. Il dialogo interreligioso mobilita dunque tutti coloro che sono in cammino verso Dio o verso l’Assoluto. Noi crediamo che la ricerca a tentoni di Dio risponde ai disegni della Provvidenza e, per eliminare ogni sospetto di relativismo, non diciamo che tutte le religioni insegnano la stessa cosa, ma che tutti i credenti e cercatori di Dio hanno la stessa dignità. Pensando, in particolare, alle difficoltà che incontra il dialogo coi musulmani, molto spesso, i problemi sono dovuti all’ignoranza da entrambe le parti,
e l’ignoranza genera la paura. Per vivere insieme, si deve guardare chi è diverso da noi con benevola curiosità, stima e desiderio di camminare insieme. La massiccia presenza dei musulmani nelle nostre società può essere provvidenziale perché ci spinge a essere più trasparenti, a non aver paura di mostrarci cristiani e di testimoniare la nostra fede.
di Belvecchio
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