ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 2 gennaio 2018

Basta scegliere!

Anno nuovo… musica vecchia

                           


Inizia un nuovo anno, il sole riprende il suo giro intorno alla terra e porterà ancora luce e calore a questo povero pianeta freddo e senza sole.
Non sembri un errore astronomico vecchio di diversi secoli, il nostro, perché è la verità più vera e più rispondente al fatto che Dio ha voluto l’uomo al centro dell’Universo, quale riflesso terreno del vero centro: Nostro Signore Gesù Cristo, Dio stesso.
E’ per questo che l’uomo non ha alcun’altra possibilità, per essere se stesso, che rimanere vincolato e dipendente da Nostro Signore, senza di che egli rimane un semplice flatus vocis.

In questa ottica, sarebbe bello iniziare il nuovo anno con qualche novità “umana” che ricordasse questa vera essenza dell’uomo: l’adorazione del suo Creatore e la sottomissione a Lui, che è ViaVerità e Vita.
Quanti di noi avranno cantato il Te Deum di ringraziamento al nostro Dio: Sanctus, Sanctus, 
Sanctus 
Dóminus Deus Sábaoth! Ma non basta, è necessario rinnovare la volontà perché in questo nuovo anno ognuno di noi cerchi di vivere concretamente: Per síngulos dies benedícimus Te; 
et laudámus nomen tuum in sæculum, 
et in sæculum sæculi.
Eppure l’uomo non smette di dare credito ai suoi limiti e alle sue deficienze, e anche gli uomini Chiesa si rivelano essere più “uomini” che “di Chiesa”.
L’ultimo documento pubblicato da tre vescovi del Kazakistan ne è la conferma.

Mons. Peta, Mons. Schneider e Mons. Lenga, tuttti e tre di un angolo periferico dell’ecumene cristiano, hanno voluto ribadire la loro fedeltà all’insegnamento millenario della Chiesa, e hanno fatto bene a farlo, e a loro non può andare che il plauso e l’incoraggiamento di ogni vero cattolico.
Ma ogni vero cattolico sente anche il dovere di ricordare alcune cose, in questo inizio anno, relative proprio alla fedeltà all’insegnamento della Chiesa, che è l’insegnamento degli Apostoli e quindi di Cristo stesso.

Nessuno si faccia saltare al naso la mosca dello zelo eccessivo, non di questo si tratta, ma di ricordare che nove non sarà mai la somma di sette e sette, nonostante oggi vada tanto di moda il soggettivismo anche in aritmetica.
I tre vescovi dicono bene, ma il loro documento è pieno zeppo di richiami al Vaticano II e ai papi conciliari, cioè ai papi che hanno difeso il Vaticano II e ne hanno promosso gli elogi e l’applicazione.

Un giorno, parlando con un teologo, questi ci faceva notare che difendere la vera dottrina richiamandosi al Vaticano II è cosa molto efficace, tatticamente, poiché mette in difficoltà i novatori che hanno voluto e vogliono una Chiesa “nuova”, “aggiornata”, “rinnovata”.
Consiglio opportuno e strumentalmente di un certo effetto, ma che contiene un grosso difetto d’origine: conferisce al Vaticano II un’autorità che non ha e fa di esso il contrario di ciò che è: causa prima e ufficiale della sovversione “novatrice“ nella Chiesa.
Non si può difendere la vera dottrina appellandosi alla non dottrina del Vaticano II, né appellandosi ai papi che hanno applicato questa non dottrina spacciandola per dottrina della Chiesa.
E’ pur vero che, qua e là, Vaticano II e papi hanno ripetuto il vero insegnamento della Chiesa, ma questo è stato fatto nonostante essi stessi, e soprattutto è stato fatto per mischiare insieme, più o meno coscientemente, il vero col falso; così che il risultato può solo essere ed è un nuovo errore.

Il documento che abbiamo ricordato respinge gli insegnamenti di Papa Francesco sul matrimonio, eppure anche Papa Francesco si appella al Vaticano II, com’è possibile dunque che i vescovi firmatari siano nel vero, mentre Papa Francesco è nell’errore?
E’ possibile perché il Vaticano II non è fonte di dottrina, ma è fonte di confusione e di errore. Ma questo i vescovi non lo dicono, anzi affermano il contrario. Ne deriva che il loro documento, corretto per molti versi, finisce con l’essere pericoloso e fuorviante, come è accaduto per tutti i documenti critici che sono sorti in questi ultimi due anni sulle affermazioni di Amoris laetita.
E’ vano denunciare a questo modo gli errori, e perfino le eresie, di certi documenti papali, poiché la denuncia verte sugli effetti e non sulle cause: se non si denuncia la causa prima degli errori e delle eresie, il Vaticano II, ogni denuncia collaterale, sia pure corretta, risulta vana e finisce per confermare la madre di tutti gli errori, come fosse ortodossa.

Sono passati più di cinquant’anni dal Vaticano II e ancora non si riesce a comprendere, da parte di molti uomini di Chiesa, che se non ci si decide a chiamare questo Concilio col suo vero nome: madre degli errori, non solo non si potranno combattere gli errori stessi, ma si continuerà ad alimentare un equivoco che ne produrrà dei nuovi.
Il dilemma irrisolto è costituito dalla mancanza di volontà della necessaria denuncia del Vaticano II.
Ci rendiamo conto che è difficile chiedere a dei vescovi di buttare a mare, per così dire, un concilio della Chiesa, ma la manchevolezza non è nostra, che lo chiederemmo, la manchevolezza è di chi non si vuole arrendere all’evidenza che, dopo più di cinquant’anni, o si butta a mare il Vaticano II o si finisce con l’accettare la mutazione della dottrina della Chiesa; il che sarebbe come dire: buttare a mare duemila anni di insegnamento ortodosso.

Bisogna scegliere, e scegliere in base alla verità oggettiva, perché ogni distinguo teologico e ogni accorgimento più o meno correttivo, determinano l’effetto di confermare l’equivoco dottrinale voluto dai vescovi conciliari.
Chi si illudesse di poter distinguere nel Vaticano II gli errori dalle verità, si infilerebbe in un vicolo cieco, senza sbocco nella verità oggettiva e stracolmo dei fumi accecanti dell’errore… non sono gli errori che sono presenti nel Vaticano II, ma è il Vaticano II che è nato dall’errore, ha prodotto gli errori e continua e continuerà a generare sempre nuovi errori.
Prendere atto di questa evidenza è presupposto indispensabile per procedere alla denuncia degli errori attuali.

Ora, la detta reticenza di molti prelati, non solo deve fare i conti con gli errori prodotti sulla base del Vaticano II e del suo “spirito”, come lo si chiama, ma deve affrontare lo sbocco ultimo di tali errori.
Papa Francesco ha fatto pubblicare sugli Acta apostolicae sedis, come documento del “Magistero autentico”, l’interpretazione eterodossa dei vescovi argentini sul cap. 8 di Amorislaetitia, facendo così diventare tale interpretazione, se possibile, ortodossa.
E’ stata una mossa “astuta”? E’ stato un tentativo di porre i fedeli di fronte al fatto compiuto? E’ stato un atto deliberato che intende sostituire la nuova dottrina eretica sul matrimonio alla vecchia dottrina ortodossa?
E’ stato…? E’ stato…? Comunque sia: … è; ed essendo un punto fermo non c’è dubbio che il dilemma è drastico: o si accetta come ortodossa l’eresia, e si respinge con sdegno il gesto e il Papa che l’ha fatto. Non ci sono alternative.

Ma il Papa può sbagliare? Non solo può sbagliare, ma sbaglia… e non è il primo. E quando il Papa sbaglia chi può correggerlo? Nessuno! Eppure c’è qualcosa che permette la correzione del Papa che sbaglia, e questo qualcosa è il senso della Fede e il senso della Chiesa che sono presenti in ogni fedele e che sono alimentati dalla Tradizione e basati sull’intelligenza di cui Dio ha dotato ognuno di noi per capire.
Ora, se il senso della Fede e della Chiesa dicono al fedele che il Papa lì sbaglia, essi dicono anche al fedele che non si deve seguire un papa che sbaglia, né tanto meno il suo errore.
Ma così non si scade nel giudizio soggettivo? E’ possibile. Ma se il fedele è posto di fronte al dilemma di seguire l’errore oggettivo o respingerlo soggettivamente, noi crediamo che ci sia poco da scegliere: occorre respingere l’errore e assumersi l’onere del giudizio.L’alternativa sarebbe sospendere il giudizio ed abbracciare l’errore. E siccome noi poveri fedeli non siamo in questa Chiesa per abbracciare l’errore, ma per combatterlo, non solo dobbiamo respingere l’insegnamento errato del Papa, ma dobbiamo denunciarlo, perché i nostri fratelli siano avvertiti e si tengano lontani dall’errore e dall’errante.

Questa situazione per tanti versi scomposta, è un esempio tipico del fatto che viviamo in tempi di confusione e di crescente oscurità: e in tempi come questi non valgono più le norme e le direttive buone per i tempi normali.

Abbiamo letto ultimamente che “dobbiamo evitare ogni inutile polemica, insulto o mancanza di rispetto nei confronti dell’autorità”, appello che ha una sua giustificazione, ma si presenta come un bel pensiero in un mare di cattive azioni. Oggi non si tratta di essere rispettosi o di evitare gli insulti, si tratta di chiamare pane il pane e vino il vino, e di fronte all’errore, peraltro reiterato e ammantato di autorità, l’indignazione e perfino il furore non sono eccessi o mancanze di rispetto, ma sono reazioni sacrosante e doverose, e se esse hanno per oggetto l’agire e il parlare dei vescovi o dei papi, sono doppiamente doverose e massimamente sacrosante. Non solo, ma dato che il primo rispetto va alla verità, l’indignazione e il furore “sacrosanti”, devono essere espressi a voce alta, a testa alta e a cuore aperto, perché tutti sentano, vedano e si salvaguardino.
Se, di fronte all’errore, un fedele cattolico ha timore di apparire polemico o insultante, allora sì che, mancando di rispetto alla verità, mancherà di rispetto all’autorità e alla Chiesa tutta.

Basta scegliere!

di Belvecchio

SANNO QUEL CHE FANNO


Sanno quel che fanno perciò sono "inescusabili". Ci sono 2 modi di sbagliare e anche 2 modi di peccare: in piena consapevolezza oppure senza rendersi conto della reale portata e di tutte le logiche conseguenze del proprio agire 
di Francesco Lamendola  


Abbiamo già parlato di quel sacerdote di Milwaukee che professa la sua omosessualità in chiesa, all’assemblea dei fedeli, e di quell’altro, di Torino, che sostituisce una leziosa canzoncina “francescana” alla recita del Credo, affermando testualmente che lui, a quella formula, che poi è il compendio della fede cattolica, non ci crede: il tutto nel bel mezzo della santa Messa, la notte di Natale (cfr. l’articolo Due preti, una maestra e buon Natale, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/12/2017). Vorremmo ritornare su quei due episodi, da un punto di vista psicologico e morale, perché sono perfettamente rappresentativi della particolare perversione che sta stravolgendo, di questi tempi, il modo di sentire, di pensare e di agire di molti, troppi sacerdoti, ormai talmente impregnati di spirito modernista, laicista e progressista, da non aver più neanche la percezione, non diciamo del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del vero e del falso, ma neppure di ciò che è opportuno dire e fare, sulla base del semplice buon senso e di una normale sensibilità umana, quando si trovano in presenza delle anime che sono state affidate alle loro cure e si aspettano da loro ben altre parole ed altri gesti.

Ci sono due modi di sbagliare, quindi anche due modi di peccare: in piena consapevolezza, oppure senza rendersi conto della reale portata e di tutte le logiche conseguenze del proprio agire. Non si può dire: in buona e in male fede, perché nessuno sbaglia, e tanto meno pecca, del tutto in buona fede: esiste sempre un barlume di ragione, magari anche solo di ragione naturale, che fa suonare dentro di noi un campanello d’allarme, allorché ci accingiamo a fare una cosa sbagliata, e sia pure, ammettiamolo, per delle ragioni fondamentalmente giuste, o che a noi, in quel particolare momento e in quelle speciali circostanze, sembrano giuste. In buona fede, dunque, nessuno sbaglia e nessuno pecca: perché se c’è davvero la buona fede, allora non vi sono né errore, né peccato. Prendiamo il caso di una sentinella, la quale ha la consegna di non lasciare avvicinare alcuno alla polveriera cui sta facendo la guardia, ma di esigere da chiunque una parola di riconoscimento, senza la quale ha l’ordine di sparare. Ora, un tenente, nel suo giro d’ispezione notturno, gli si avvicina, nel buio, senza farsi riconoscere: la sentinella non l’ha mai visto, gli intima di fermarsi, ma quello non si ferma, forse per incoscienza, forse perché è inebriato del proprio potere. A quel punto la sentinella imbraccia il fucile e gli spara. Ha commesso un errore? No: ha eseguito fedelmente gli ordini. Ha commesso un peccato? Neppure, perché la legge di Dio non vieta di obbedire alle leggi umane, laddove esse siamo, di per sé, fondamentalmente etiche. E non vi è nulla d’immorale nel fatto che una sentinella riceva la consegna di non lasciar avvicinare alcuno, a nessun costo, a un deposito di munizioni; diversamente, con la sua trascuratezza, metterebbe in pericolo molte altre persone. Dunque, quella sentinella può, anzi deve, rammaricarsi di aver dovuto sparare, ma non di aver eseguito gli ordini precisi che aveva ricevuto: non deve scusarsi davanti agli uomini e non deve chiedere perdono a Dio, perché nulla, nella sua azione, si configura come una mancanza di rispetto della vita umana; non più di un incidente involontario, nel quale si investe una persona che ha attraversato la strada in maniera incauta, beninteso se si era perfettamente lucidi al volante, e non si aveva fatto uso né di alcolici, né di stupefacenti.
Limitiamoci, perciò, a considerare l’azione erronea e peccaminosa. È un errore ciò che si è fatto, ma non si doveva fare, in base alla logica delle cose; ed è un peccato ciò che si è fatto venendo meno al rispetto dovuto a Dio. La mancanza di timor di Dio implica la mancanza di amore per il prossimo e anche verso se stessi: l’omicidio e il suicidio, per esempio, sono azioni malvagie verso il prossimo e verso se stessi, perché sono un’offesa fatta a Dio. In casi estremi di forza maggiore, uccidere il prossimo (legittima difesa verso un pericolo grave e immediato) o andare volontariamente incontro alla morte (martirio cristiano davanti alla richiesta violenta di apostasia) non sono azioni malvagie, quindi non sono peccaminose. E non sempre ciò che è buono davanti a Dio lo è anche davanti agli uomini: rifiutarsi di collaborare alla pratica dell’aborto o a quella dell’eutanasia può essere considerato illegittimo dalle leggi umane, ma è legittimo davanti alla legge divina. Inoltre, non sempre ciò che appare umanamente come un errore, è anche un peccato: lo è solo se implica l’offesa a Dio; ma se, per restare fedeli a Dio, si agisce in maniera da andare contro il proprio interesse, ciò non è un errore, anzi, spiritualmente parlando è una cosa buona e giusta. A questo punto, le strade dell’errore e del peccato si divaricano: seguono due percorsi diversi e due logiche diverse. Non seguiremo il percorso dell’errore: ci limitiamo a prendere nota che la neochiesa odierna tende sempre più a sostituire il concetto laico di errore a quello religioso di peccato; il che è un gravissimo tradimento nei confronti della Verità e della fede cattolica. E adesso concentriamoci sul peccato, che sia fatto in piena coscienza oppure no, stante che nessun peccato viene fatto in buona fede, perché, se così fosse, l’uomo o sarebbe privo del libero arbitrio e allora avrebbe ragione Lutero (e con lui avrebbe ragione Bergoglio), quindi, coerentemente, non dovremmo pensare esistenti né l’inferno, né, a rigore, il paradiso, e neppure ammettere la necessità del Giudizio. Come potrebbe Dio giudicare le anime, o come potrebbero giudicarsi le anime da se stesse (ma sempre ispirate dalla divina Giustizia), se esistesse la possibilità di fare il male – e, a questo punto, anche il bene - senza saperlo e senza realmente volerlo? Ma in tal caso, gli uomini sarebbero sprovvisti anche della semplice legge morale naturale, data a tutti anteriormente alla morale divina; il che vediamo essere contraddetto dai fatti, perché gli uomini mostrano di avere la coscienza di quando agiscono bene, e così pure di quando agiscono male.
Prendiamo il caso del prete di Milwaukee, quello che ha trasformato l’assemblea dei fedeli in un pubblico involontario delle sue esternazioni relative alla propria sessualità. Se lo ha fatto durante la sanata Messa, come pare, ha commesso un sacrilegio in piena regola, perché ha scandalizzato i fedeli che erano venuti nella casa del Signore per partecipare al Sacrificio eucaristico. Ma anche se lo ha fatto subito prima o subito dopo, ha commesso ugualmente un’azione sconsiderata, perversa e peccaminosa: lo scandalo è appena meno grave, ma è sempre uno scandalo gravissimo e un pessimo segnale lanciato a quelle povere anime. Perché parliamo di un’azione sconsiderata, perversa peccaminosa? In primo luogo perché si è rivolto a tutti, bambini compresi, nel luogo sbagliato e nel momento sbagliato, per dichiarare la propria omosessualità, cosa che era perfettamente inutile se si tratta di una semplice inclinazione omosessuale, e perfettamente sbagliata se si tratta d’indulgere alla pratica omosessuale. Se padre Gregory Greiten, cinquantadue anni, ha un’inclinazione omosessuale, non vi era alcun motivo di dichiararlo a tutti i fedeli, dall’alto dell’altare. La dottrina cattolica non condanna alcuna inclinazione innata, semmai, come in questo caso, ricorda che essa è intrinsecamente disordinata, perché contraddice alle leggi della natura e a quelle di Dio. Egli aveva diverse altre strade davanti a sé: poteva rivolgersi a uno psicanalista, come fa Bergoglio (cosa che sconsigliamo di tutto cuore), il quale, sicuramente, non gli avrebbe prospettato l’intrinseco disordine della sua inclinazione, ma lo avrebbe guidato ad accettarsi così com’è; avrebbe potuto sottoporsi a una terapia, per esempio alla terapia ripartiva del professor Joseph Nicolosi, per individuare il passaggio negativo della sua vita psichica che lo ha portato “fuori centro”, cioè a provare un’attrazione innaturale per le persone del proprio sesso; avrebbe potuto, meglio di tutto, affidarsi a un buon direttore spirituale, farsi guidare da un sacerdote esperto (sperando, di questi tempi, di trovarne uno di quelli veri e non fasulli) e soprattutto pregare, pregare, pregare. Avrebbe potuto e dovuto chiede aiuto e consiglio a Dio; e avrebbe dovuto interrogare la propria coscienza per verificare se si sentiva in grado di continuare a fare il sacerdote, senza venir meno ai voti, compreso quello di castità. Il cristiano è colui che confida in Gesù Cristo; rivolgersi a Lui nelle angustie e nei passaggi difficili della vita è ciò che lo distingue da chi cristiano non è. Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi, e io vi darò riposo: sono le parole di Gesù. Perché non ha seguito questa strada, padre Greiten, la più logica, la più naturale, la più giusta? Se l’avesse seguita, è impossibile che sarebbe giunto alla decisione di fare coming out davanti ai suoi parrocchiani, riuniti in chiesa per ben altre ragioni che ascoltare controvoglia la sua impudica “confessione”. Che una confessione, poi, non era, perché le mancava la cosa essenziale, oltre al ministro appropriato per concedere l’assoluzione: il sincero pentimento e il proposito di non più peccare, ossia la metanoia, la conversione a Dio. Non quello che voglio io, Padre, ma quello che vuoi Tu: sono ancora le parole di Gesù Cristo, solo, di notte, nell’orto degli olivi, pochi istanti prima di essere arrestato come un malfattore; e se le ha pronunciate Gesù Cristo, le possono ben pronunciare, anzi, le devono pronunciare, i semplici uomini, i fedeli cristiani. Essere cristiani è fare la volontà del Padre. E qual è la volontà del Padre? Che noi viviamo nel disordine e negli appetiti dell’io, che li anteponiamo alla serenità e alla pace del prossimo, che noi li adoperiamo come un’arma per scandalizzare, turbare, confondere le anime del nostro prossimo? Davvero il Padre celeste, se quel sacerdote si fosse rivolto a Lui, gli avrebbe suggerito di agire come ha agito: di andare in chiesa e di abusare della sua veste di prete, della sua autorità di prete e del pulpito della santa Messa, per dichiarare ai quattro venti la sua omosessualità? 

Sanno quel che fanno, perciò sono inescusabili

di Francesco Lamendola
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