Dalle macerie della "filosofia del Diavolo", bisogna ricostruire un nuovo senso della vita. Nicola Abbagnano chiamava “teologia del diavolo” tutta quella parte del "pensiero moderno", che tende a scacciare "l’idea di Dio"
di Francesco Lamendola
La filosofia moderna e contemporanea, già a partire dal Rinascimento, ma specialmente quella posteriore al 1945, è stata, alla lettera, la filosofia del Diavolo: quella che ha visto culminare il progetto di rifondare il pensiero umano, non solo prescindendo completamente dalla Rivelazione e dalla fede ed escludendo ogni tipo di metafisica, cioè ogni trascendenza, ma proprio negando, combattendo e sforzandosi di estirpare le tracce della presenza del sacro e dei divino e, in particolare, lanciando una violentissima campagna contro il cristianesimo, per mettere al posto del Dio cristiano l’uomo stesso.
Progetto non solo impossibile, ma intrinsecamente contraddittorio, perché condotto in nome delle forze del disordine e del caos: rivalutando la follia, l’abnorme, il paradossale, il deviante, e tentando di assestare il colpo finale al Logos, all’ordine, alla norma, ai valori consolidati in duemila di storia della civiltà occidentale. Contraddittorio è voler liquidare l’ordine razionale del reale e sostituirlo col nichilismo, e nello stesso tempo, voler rifondare qualcosa, un ordine nuovo di qualsiasi tipo: perché dalla negazione radicale dell’ordine nasce solo il disordine, e dal rifiuto della metafisica, cioè dell’essere, nascono solo la provvisorietà, la contingenza, la precarietà.
Ora, se l’affermazione di Dio equivale al riconoscimento di un ordine razionale presente nel mondo (un ordine, peraltro, che noi non siamo in grado di decifrare interamente, perché, se lo potessimo, saremmo dio noi stessi), la negazione di quell’ordine razionale equivale alla affermazione del Diavolo, cioè alla proclamazione del disordine costituito. L’ordine, infatti, da sempre, è sentito dagli uomini come la forma naturale del bene; il disordine, come la forma naturale del male. Se si nega o si rifiuta l’esistenza di un ordine del mondo, come ad esempio fa Leopardi, implicitamente o esplicitamente si riconosce la sua natura malvagia, diabolica: perché gli enti, in un mondo disordinato e assurdo, non possono che soffrire, mentre solo in un universo ordinato possono sperare di trovare il bene e la pace.
Giustamente Nicola Abbagnano chiamava “teologia del diavolo” (anche se lui scriveva “diavolo” con la lettera minuscola, cosa che a noi sembra sbagliata) tutta quella parte del pensiero moderno che tende a scacciare l’idea di Dio e di un ordine razionale del mondo, sostituendole con l’idea che non c’è alcun Dio, né alcun ordine razionale, e tanto meno provvidenziale. E faceva anche i nomi di questi teologi del diavolo: i precursori e i fondatori, secondo lui, erano Marx, Nietzsche, Freud ed Heidegger, i quali avevano distrutto le basi della credenza nell’ordine del mondo; gli epigoni, i filosofi del 1968 e dintorni, quelli della rivolta permanente contro tutte le strutture dell’ordine costituito: i vari Foucault, Deleuze e Guattari, i quali avevano portato alle estreme, ma logiche conseguenze i presupposti dei “fondatori”.
In un articolo intitolato È fallita la teologia del diavolo, pubblicato inizialmente sulla sua rubrica del settimanale Gente, e poi ripubblicato nel volume La saggezza della vita (Milano, Rusconi, 1985, pp. 38-41), Nicola Abbagnano scriveva:
… Il bisogno di Dio è il bisogno di un mondo diverso da quello che appare nei suoi aspetti peggiori: di un mondo che, appunto perché creato e governato da un Essere onnipotente e perfetto, non può rivolgersi alla mortificazione e alla distruzione dell’uomo. Se Dio esiste, il mondo non è quel disordine caotico che appare a prima vista, quella casualità cieca che accumula fortune e disgrazie ugualmente passeggere, quel gioco inconcludente di forze o di stinti senza scopo o quel destino fatale di cui l’uomo possa essere solo una preda. Deve invece avere un ordine universale, un disegno che permetta all’uomo di sopravvivere e perfezionarsi, un significato o un valore di cui l’uomo stesso possa farsi interprete e fautore. In un mondo siffatto, l’uomo può attendersi in ogni circostanza l’aiuto di Dio che gli dia la forza e il coraggio di superare le avversità, e può coltivare la sua fede in una vita migliore che lo attenda al di là della morte.
Ma se queste sono le esigenze del bisogno di Dio (e di ogni autentica fede religiosa), che cosa accade quando si crede che il disordine caotico, l’urto violento delle forze e il gioco insignificante del caso siano la sostanza stessa del mondo? La risposta è ovvia;: al bisogno di Dio si sostituisce il bisogno del diavolo e una divinizzazione del diavolo si sostituisce a una teologia religiosa. In questa teologia il diavolo era semplicemente l’angelo decaduto che può indurre l’uomo al peccato, seducendolo con i suoi allettamenti, ma la cui azione è limitata dall’ordine divino del mondo. Ma se non c’è un ordine, e non c’è l’autore di esso, il diavolo diventa il simbolo o la personificazione del disordine, della violenza e del caso che costituiscono la sostanza del mondo.
Su questa linea di è posto un gruppo di filosofi, psichiatri e letterati francesi che sono stati gi ispiratori della “contestazione globale” del ’68 e che hanno influenzato larghi strati giovanili anche fuori della Francia. […]
Ma il compito specifico, che gli autori di questo indirizzo si sono assunti, è stato quello di combattere tutti i valori e le istituzioni sulle quali la società attuale si fonda. Queste istituzioni, che vogliono imporre al mondo l’ordine, la razionalità e la pace, non avrebbero alcuna giustificazione perché il mondo è un caos di forze violente. La follia e la delinquenza esprimono meglio la natura del mondo. I poteri che le combattono on sono stati e non sono che espedienti inutili e crudeli. Queste sono le tesi che emergono dagli scritti di Michel Foucault, il più importante rappresentante del gruppo in questione. Gilles Deleuze e Felix Guattari (che è uno psichiatra) si sono posti sulla stessa strada, additando addirittura nella schizofrenia, in quanto si sottrae all’ordine delle cose e al codice del linguaggio, la spinta verso una rivoluzione totale destinata a mutare radicalmente, in senso imprecisabile, la natura dell’uomo.
In realtà la distruzione dell’uomo è l’aspirazione finale di questo indirizzo filosofico. L’uomo che vuol cercare la verità con la ragione, che è libero e responsabile delle sue scelte, è soltanto una creazione fittizia in un mondo di forze caotiche. Secondo Foucault, è addirittura un’espressione linguistica sbagliata, una frattura del linguaggio che sarà sanata dalla sua sparizione.
Si può allora domandare a chi questi pensatori si rivolgono nel loro invito alla lotta contro il potere che sorregge istituzioni destinate alla repressione di forze invincibili. Se gli uomini non sono che sbagli di natura, privi di forza autonoma e di volontà seria, non possono neppure recepire un invito del genere. Possono soltanto abbandonarsi senza difesa al gioco imprevedibile del caos diabolico, che è la vera realtà del mondo. Ma dall’altro lato, quei poteri contro i quali, in nome di questo caos, si dichiara la guerra non sono essi stessi (come ogni altra cosa) manifestazioni di esso? E non sono come tali irriducibili e invincibili? E se la verità, ogni verità, è soltanto uno strumento di questi poteri e la teoria che li combatte rinuncia per ciò stesso alla verità, che specie di validità o di significato può rivendicare? Il linguaggio oscuro, metaforico e misticheggiante, di cui questi filosofi amano servirsi, difficilmente riesce a nascondere le contraddizioni puerili delle loro teorie.
Eppure, gli ascoltatori di questi filosofi non sono mancati. Le loro idee sono state la giustificazione ultima di tutti gi aspetti critici o decadenti dell’epoca nostra: del rifiuto di ogni norma morale e civile come repressiva degli istinti; del permissivismo indiscriminato che ne deriva nel campo della condotta quotidiana e del’educazione; dell’indebolimento delle istituzioni giuridiche e politiche che difendono i cittadini; del ricorso, nelle lotte politiche e sociali, alla violenza che ignora o distrugge la vita umana. E il vero figlio legittimo di queste teorie è stato il terrorismo che può assumere, nei vari Paesi, motivazioni apparentemente diverse, ma rimane impegnato alla distruzione del mondo attuale in vista di un mondo futuro “migliore”. Ma migliore per chi? Non per l’uomo, che ne sarebbe distrutto…
Dalle macerie della filosofia del Diavolo bisogna ricostruire un nuovo senso della vita
di Francesco Lamendola
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MODERNISMO COME STORICISMO
Ingredienti dell’eresia modernista: "lo storicismo". I modernisti riconducono tutto, anche "la verità perenne del dogma", alla mutevolezza dei contesti sociali e culturali, che sono per loro natura "continuamente mutevoli"
di Francesco Lamendola
Ingredienti dell’eresia modernista: lo storicismo
Il modernismo, lo diciamo a quei cattolici che, per caso, se ne fossero dimenticati, o, magari non lo sapessero (parliamo di quelli più giovani, ovviamente, e tenuto conto di quanto sia povera e approssimativa l’istruzione storica e dottrinale che essi ricevono nelle sedi a ciò preposte), è un’eresia; anzi, secondo l’espressione di san Pio X, che lo condannò con l’enciclica Pascendi, è la somma di tutte le eresie. Ciò detto, e sperando che tutti i cattolici in buona fede lo tengano sempre a mente e ne ricavino tutte le opportune deduzioni, tanto sul piano teorico che su quello pratico, può risultare utile scomporre questa eresia, cioè questo veleno, nei suoi elementi costitutivi, per saperli riconoscere e per non sottovalutarne l’altissimo potenziale di tossicità. Può accadere, infatti, che questi elementi, singolarmente presi, possano apparire non poi così pericolosi, se non addirittura innocui; può accadere, si capisce ai cattolici impreparati e faciloni, emozionali e superficiali, come ce ne sono tanti (come lo sarebbero tutti, se non si affidassero a Dio per compensare le loro umane debolezze!), non solo non vedano e non afferrino tutta la pericolosità del veleno modernista, ma credano di scorgere, in alcuni degli elementi che lo compongono, perfino dei fattori positivi, o, almeno, potenzialmente tali.
Lungo sarebbe l’elenco di tutti gli elementi che costituiscono il modernismo e che concorrono a farne un veleno così potente, addirittura micidiale, per la fede cattolica e per la sopravvivenza della Chiesa. Al tempo dell’eresia catara, la risposta del mondo cattolico fu estremamente energica, sia sul piano della repressione, sia su quello dell’istruzione: in quest’ultimo campo, sorse addirittura un nuovo ordine religioso, quello dei domenicani, con la speciale missione di formare dei sacerdoti culturalmente e teologicamente preparati, nonché dei predicatori capaci di controbattere gli argomenti degli eretici, punto per punto, dimostrando l’assoluta infondatezza della loro pretesa di rappresentare la “vera” chiesa di Cristo. Anche l’eresia modernista avrebbe richiesto un analogo sforzo e una analoga mobilitazione di tutte le energie spirituali e intellettuali del cattolicesimo, perché, come ai tempi del catarismo, ci troviamo in presenza di una eresia che, insinuandosi un poco alla volta nel corpo sano della Chiesa e nelle comunità dei fedeli, oltre che nelle coscienze individuali, è suscettibile di produrre danni gravissimi, e, forse, irreparabili, se non viene riconosciuta e combattuta per quel che realmente è: un attacco mortale al cuore stesso della Chiesa cattolica e del Vangelo di Gesù.
In cima alla lista delle micidiali componenti del modernismo troviamo, comunque, lo storicismo, il semi-protestantesimo, il semi-pelagianesimo, il razionalismo e (non stupisca la contraddizione, che è spiegabilissima) il sentimentalismo. Lo storicismo, perché i modernisti riconducono tutto, anche la verità perenne del dogma, alla mutevolezza dei contesti sociali e culturali, che sono, invece, per loro natura, continuamente mutevoli. Il semi-protestantismo, perché si riservano una lettura autonoma e indipendente delle Scritture, e inoltre perché tendono a vedere i Sacramenti più come dei simboli che come degli atti efficaci e reali della grazia divina; infine, per la tendenza a sfumare la distinzione fra clero e laicato. Il semi-pelagianesimo, perché non amano parlare del peccato, e tanto meno del Peccato originale: non amano, cioè, ricordare la condizione peccatrice dell’umanità, preferendo una visione più ottimistica della natura umana; ma, così facendo, rischiano di minimizzare il significato e la necessità stessa della Redenzione di Cristo. Il razionalismo, perché essi pretendono di accostarsi alla Parola di Dio esattamente con lo stesso spirito e con i medesimi strumenti scientifici e filologici con i quali ci si accosta a qualsiasi altro fatto e a qualsiasi altro testo: e la Bibbia, perciò, diventa parola essenzialmente umana. Il sentimentalismo, infine, perché (come i pre-romantici, che vissero in piena stagione illuminista) i modernisti finiscono per risolvere la fede in un rapporto sentimentale con Dio - tipico, esempio, la Vita di Gesùdi Ernest Renan – che è la manifestazione di un soggettivismo e di un relativismo estremi.
Partiamo, in questa sede, dal primo e forse più tossico di tali elementi: lo storicismo. Lo storicismo, in generale, è un tipo di filosofia, e specialmente di filosofia della storia, che nega l’esistenza di verità assolute e di valori permanenti, ma riconduce ogni verità (al plurale) e ogni valore alle concrete condizioni storiche, le quali, per loro stessa natura, sono continuamente mutevoli e tendono a evolvere, a trasformarsi, fino al punto di produrre strutture materiali e di pensiero completamente diverse, e perfino opposte, a quelle che esistevano in precedenza, in quel medesimo ambito storico-culturale. In altre parole (e come in tutti gli “ismi”), nello storicismo vi è una assolutizzazione della storia: tutto è storia, e, dunque, niente si dà al di fuori di essa; il mito, il trascendente, il soprannaturale, il divino, sono concetti che, per lo storicista, hanno una sola possibile chiave d’interpretazione: quella della cultura e della mentalità degli uomini che vissero in questa o quella epoca, in questo in quel luogo, senza margini o residui. E, poiché la storia è la storia degli uomini, non esiste null’altro all’infuori degli uomini e della loro storia: né Dio, né vita eterna, né grazia, né peccato, né inferno, né paradiso. Ora, è chiaro che i modernisti cattolici non giungevano, nella maggior parte dei casi, fino a tali estreme conseguenze: si fermavano a mezza strada, più per un residuo di pudore che per deliberata scelta intellettuale: infatti, date le loro premesse, quel fermarsi e arretrare davanti alle logiche conseguenze non può essere chiamato in altro modo che debolezza del pensiero e mancanza di coraggio concettuale. Diceva san Pio X: Nella cultura cattolica è penetrato il paradigma ermeneutico, in cui ogni nostra conoscenza è condizionata dal contesto di partenza; mentre è chiaro che, per il cattolico, vi è una conoscenza, quella della Rivelazione, che non è condizionata dal contesto, poiché viene direttamente da Dio. Sì, ribattono gli storicisti, ma la Bibbia è pur sempre scritta da uomini ed è rivolta ad uomini, i quali, gli uni e gli altri, sono vissuti in un certo tempo storico, e ciò non ha potuto non condizionare la loro conoscenza di Dio. Ed ecco il grande malinteso: perché le circostanze storiche possono aver condizionato le forme della loro conoscenza di Dio, ma non l’essenza di tale conoscenza; proprio come il cielo a tratti nuvoloso può condizionare la visione del sole da parte degli uomini, ma non ciò che quella visione rivela, la sua essenza: cioè la consapevolezza che il Sole, ben al di sopra delle nubi, brilla come sempre su di noi. San Pio X disse anche che i dogmi, secondo i modernisti, evolvono nella storia, mentre è vero il contrario, cioè che i dogmi precedono e illuminano la storia. La precedono, perché i dogmi non sono creazioni umane, ma acquisizioni umane della verità divina preesistente; e la illuminano, perché indicano la direzione in cui gli uomini devono andare, se non vogliono procedere alla cieca e se non vogliono trasformare la storia stessa in un inferno.
Infatti, la storia umana chiusa in se stessa e sottratta alla luce del divino, è l’inferno, e non può produrre che errori, ingiustizie, violenze, sofferenze, blasfemie. In fondo, è molto semplice: chi non crede questo; chi non crede, cioè, che Dio non è solo il signore della storia, ma è anche la luce che la illumina, non è cattolico. Ora, chi attribuisce alla storia un valore assoluto, la pone come un qualcosa di puramente umano, e svaluta o nega, implicitamente o esplicitamente, che essa abbia a che fare con Dio, che trovi in Dio la sua alfa e la sua omega. Ma i modernisti, a ben guardare, credono in questo tipo di storia; non a parole, ché, anzi, sprecano le parole per lodare Dio per la sua azione nella storia; ma la negano nella sostanza, perché poi, di fatto, la considerano e la studiano come se rispondesse a dei fattori puramente umani. Si prenda la Storia del cristianesimo di Ernesto Buonaiuti; si prenda Storia e mito a proposito di Gesù Cristo di Alfred Loisy; si prenda un qualunque testo modernista e vi si troverà, in misura maggiore o minore, questa sopravvalutazione della storia rispetto alla grazia, dell’opera degli uomini rispetto al piano di Dio; vi si troverà, in altre parole, questa dimenticanza, o sottovalutazione, del fatto che la storia non gira mai a vuoto su se stessa, ma, specialmente dopo il fatto storico della Incarnazione del Figlio di Dio (fatto storico, ripetiamo, e non mito, non credenza, non opinione, non ipotesi teologica e via dicendo!), la storia umana diventa storia della salvezza, cioè la storia del sì o del no che gli uomini dicono a Dio, dopo il fiat che Egli ha rivolto loro e a tutto ciò che esiste nel creato.
Sorge, a questo punto, un problema: un grosso problema. Dopo il Concilio Vaticano II, correnti storiciste si sono nuovamente infiltrate nella teologia cattolica e hanno conquistato posizioni su posizioni, anche presso l’episcopato e lo stessi entourage papale, nonché, a quanto è dato capire, lo stesso pontefice Francesco. Il cardinale Walter Kasper, erede della teologia di Karl Rahner, voce (purtroppo) assai autorevole nella Chiesa odierna, e intimo collaboratore del papa (alla cui elezione ha partecipato, pur avendo superato l’età canonica degli 80 anni, oltre la quale si diventa automaticamente cardinali non elettori), con il quale appare in stretta sintonia sul piano teologico e dottrinale, sostiene, fin da quando aveva una trentina d’anni – ad esempio, con lo scritto Per un rinnovamento del metodo teologico, del 1967 – che il dogma è frutto d’interpretazione, sia della Parola di Dio, sia della situazione storica, e che, di conseguenza, è soggetto al cambiamento, come qualsiasi altro fattore della storia umana. Laddove non è chi non veda la forzatura concettuale consistente, da un lato, nel mettere la Parola di Dio e la situazione contingente sullo stesso piano, quanto all’influenza che esse esercitano sulle vicende umane, dall’altro, nel sostenere che il dogma è, in se stesso, il frutto di una “interpretazione” e non già la codificazione di una verità trascendente e assoluta, anteriore alla storia e, comunque, non interamente spiegabile sul piano umano, intellettuale e scientifico. Il grande assente, infatti, nell’orizzonte teologico di Kasper e di tutti quelli come lui, è il Mistero: il Mistero nel senso cristiano della parola, ossia non un qualcosa di fumoso e d’irrazionale, bensì qualcosa che non è del tutto comprensibile all’uomo, non perché si collochi al di sotto della ragione, ma per il motivo diametralmente opposto, ossia perché è una verità divina, e la verità divina, per definizione, è solo parzialmente ed imperfettamente accessibile agli strumenti della ragione umana.
Riassumendo: niente Mistero, niente Verità assoluta; pertanto solo verità relative e contingenti; dunque, solo e unicamente storia, niente trascendenza, niente provvidenza, niente grazia, niente Dio. Non che si arrivi a negare Dio: si arriva a negare un dio che significhi realmente qualcosa nella vita degli uomini e dell’umanità tutta; un dio che operi in maniera efficace. Il dio che rimane, dopo aver operato questa riduzione in senso storicista, è un dio piccolo, limitato, problematico, e anche oscuro; un dio che mostra la strada, ma poi lascia gli uomini nella penombra e nell’incertezza; un dio che promette molto, ma non sempre è in grado di mantenere le sue promesse; un dio di cui si potrebbe anche fare a meno, della cui esistenza si potrebbe anche dubitare, perché, all’atto pratico, poco o niente cambierebbe nella vita del singolo individuo, così come in quella dei popoli e dell’umanità intera. Chiamiamo le cose con il loro nome: un dogma soggetto ai mutamenti della storia non è più un dogma, così come un dio soggetto agli alti e bassi della teologia modernista non è Dio; e una storia abbandonata a se stessa non è la storia della salvezza, annunciata dai Profeti e realizzata nell’Incarnazione del Verbo, nella sua Passione, Morte e Resurrezione. I teologi e i cardinali modernisti e storicisti dovrebbero avere il coraggio di dir le cose come stanno: ossia che, se si pone in dubbio il principio dell’assolutezza del dogma, si pone in dubbio la Verità stessa; e, a quel punto, credere o non credere in Dio diventa una faccenda di gusti e inclinazioni personali, e non una risposta alla chiamata di Dio stesso, fatta in piena libertà, ma assistita, in caso affermativo, dagli strumenti soprannaturali della grazia. In pratica, lo storicismo è una filosofia della storia che vorrebbe eliminare la presenza del soprannaturale, o relegarla lassù, sopra le nuvolette, in un cielo talmente lontano, che non ci riguarda affatto: e quindi, inevitabilmente, ciò corrisponde a una visione della storia di matrice atea, materialista e anticristiana.
È chiaro, a questo punto, quale immenso pericolo sovrasti la Chiesa cattolica. È in atto una eresia mortale, che rischia di snaturare completamente la dottrina cattolica e di trascinare la massa dei fedeli verso l’apostasia generalizzata, non però riconosciuta come tale o non del tutto consapevole, e, perciò stesso, ancora più “facile” e disinvolta; e ciò sta avvenendo con l’incoraggiamento e la benedizione di altissime personalità della Chiesa stessa, come se il verbo modernista, e la sua specifica componente storicista, avessero ormai scalzato la sana teologia cattolica e l’avessero sostituita con una dottrina nuova, “adatta ai tempi”, “proporzionata alla situazione contingente”, e insomma, per l’appunto, più “idonea” ad essere compresa dai cristiani, di quanto non lo fosse quella precedente (o, magari, semplicemente più comoda, perché assai meno esigente?). E già questa, per chi sappia giudicare con mente sana, è un’affermazione eretica: infatti la dottrina della Chiesa non cambia, non può esservi un prima e un poi nella trasmissione della Verità, perché la Parola di Dio è Verità, e niente o nessuno la potrà mai modificare. Non cadrà iota unum, ammonisce Gesù Cristo…di
Francesco Lamendola
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