ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 3 marzo 2018

Vietato vietare

Quando la faziosità politica veste la talare 



Noi non ci occupiamo di politica, per principio, data l’inaffidabilità intrinseca della politica moderna e il contesto nel quale artualmente ci si occupa della “cosa pubblica”: la cosiddetta “democrazia”, cioè quella strana cosa secondo la quale il governo della “res pubblica” sarebbe apertamente in mano al popolo, mentre invece è nascostamente in mano a delle oligarchie che usano il popolo, non solo per asservirlo, ma per demolirlo.

D’altronde, non potrebbe essere diversamente, visto che è da due secoli che si inneggia alla democrazia per costruire una società totalitaria in cui il popolo deve solo ubbidire e deve lasciarsi trasformare da un insieme di persone ad un amalgama di numeri?
E’ per questo che in questi secoli si è costantemente operato per demolire il senso cristiano del popolo e rimpiazzarlo con una concezione del mondo che esalta tutti i vizi e le perversioni, usando le ormai logore etichette dei “diritti umani”.

Ciò nonostante, a volte siamo come tirati per i capelli e costretti a soffermarci su questioni politiche, e questa volta grazie all’ennesimo prelato cattolico che invece di fare il “pastore” di anime, fa il guardiano e il promotore dei lupi.

In prossimità delle prossime elezioni politiche, Mons. Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, ha voluto dire la sua sull’evento:
«In questi tempi il confronto pare schiacciato su aspetti personalistici e poco sui contenuti. L’avversario politico non è il nemico da abbattere a tutti i costi e con qualsiasi mezzo. … Le elezioni non sono un concorso di bellezza. I cittadini debbono scegliere sui programmi concreti non in base alla faccia più o meno simpatica dei candidati nei mega manifesti elettorali o agli slogan pubblicitari… C’è bisogno di politici autenticamente cristiani … Ci si aspetta che siano esemplari per rigore morale, attenzione alla gente, spirito di servizio, professionalità»
(Agenzia SIR – Servizio di Informazione Religiosa – 2 marzo 2018
https://agensir.it/quotidiano/2018/3/2/elezioni-2018-mons-pennisi-monreale-non-sono-un-concorso-
di-bellezza-i-cittadini-debbono-scegliere-sui-programmi-concreti/
)

Belle parole, politicamente corrette, che però, come ormai solito, non corrispondono alle azioni condotte.
Non molto tempo fa, già in prossimità dell’annunciata campagna elettorale, si è svolta a Terrasini (PA) la “Festa di Avvenire” – quotidiano dei vescovi italiani – organizzata nell’arcidiocesi di Monreale e dall’associazione culturale 'Così, per… passione!' di Terrasini e dall’ufficio diocesano Comunicazioni sociali, con la redazione del quotidiano e il direttore Marco Tarquinio. (Avvenire – 14 settembre 2017
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/terrasini-al-via-la-festa-di-avvenire-sulle-virt )




Boldrini, tra Mons. Pennisi e Tarquinio, parla di Fortezza


Ospite d’onore di questa “festa” è stata Laura Boldrini, nota esponente comunista anticattolica e femminista che oggi fa il Presidente della Camera.
La “festa” è stata condotta lungo le direttrici delle virtù teologali e cardinali, sulle quali sono interventi vescovi, scrittori e politici; la Boldrini è stata chiamata a parlare della virtù della Fortezza, e ci chiediamo esterrefatti di quale Fortezza costei abbia potuto mai parlare.

Morale della favola: mai fidarsi dei moderni prelati che predicano il politicamente corretto, auspicano a parole l’impegno in politica di buoni cattolici e vanno a braccetto con i nemici di Dio e della Chiesa, presentandoli perfino come figure esemplari ad un popolo cattolico ormai abbrutito dalla confusione e dalla sovversione.




Tarquinio, Boldrini ridente, di che parla?


Oggi il cattolico non riesce più a capire per chi votare, ma di certo è meglio che si guardi bene dal seguire i consigli di prelati come Mons. Pennisi e di coloro che, insieme ad Avvenire e al suo direttore Tarquinio, costoro promuovono, direttamente o indirettamente.

 di Belvecchio
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV2394_Belvecchio_Faziosita_politica_e_talare.html

L'ITALIA DELL'ODIO

 L’Italia dell’odio contro se stessa. Da dove viene questa ideologia-spazzatura "dominante" come è possibile che sia stata adottata non solo dai dei poveri sfigati ma anche da molti della nostra classe dirigente e intellettuale? 
di Francesco Lamendola  


Vigliacchi, mi fate schifo, siete delle merde; dovete morire!, gridava a squarciagola, come un’invasata, ostentando tutto il suo disprezzo, la maestra Lavinia Flavia Cassaro, contro poliziotti e carabinieri che a Torino, la sera del 1° marzo, erano intervenuti per impedire che un gruppo di militanti dei centri sociali, durante una manifestazione “antifascista”, raggiungesse il luogo in cui si teneva un comizio elettorale di Forza Nuova.
Ora fanno tutti a gara nel deprecare quelle parole e quei gesti e tutti chiedono la sua testa; forse anche perché mancano solo due giorni all’appuntamento elettorale e tutti vogliono apparire politicamente corretti, da sinistra a destra, passando per il centro. Nei salotti televisivi si sono sprecati i commenti, le interviste, le opinioni dei soliti tuttologi e dei soliti politologi, quelli che hanno la poltrona fissa per sparare le loro saccenti banalità. Esitiamo, quindi, ad unirci al coro dei commenti, delle condanne, delle giaculatorie; oltre tutto, proviamo un senso di’imbarazzo, forse di umana pietà, di fronte a una donna di 38 anni che rischia il posto di lavoro per aver detto e fatto delle cose che in molti fanno e dicono, e anche di assai più gravi, ma non rischiano proprio nulla, per il semplice fatto che sono intoccabili: siedono, infatti, nei banchi del parlamento o ancora più in alto, nelle poltrone del governo.
Ecco, questo è il punto. L’Italia dell’odio, platealmente salita agli onori delle cronache, parte dai piani alti e dai salotti buoni della cultura e delle istituzioni: la maestra Cassaro è figlia o nipote di tutto un mondo che da settant’anni predica l’odio preconcetto verso tutto ciò che è nazionale, che è italiano, che rientra nella tradizione e nella civiltà italiana; ma le responsabilità maggiori stanno in alto, non in basso. In basso stanno solo i poveri fessi, gli utili idioti, le persone facilmente suggestionabili e manipolabili, quelle con un modesto quoziente intellettivo e con tanta voglia di cambiare il mondo, ma senza sapere come e, forse, nemmeno perché; quelli che sono avvezzi a sfogare la loro rabbia personale, la loro insoddisfazione personale, contro un nemico esterno, meglio se simile a sé: mai contro gli stranieri, contro i migranti, contro i profughi, i quali, poveretti, non sono mica invasori, né mai sono delinquenti, ma solo poveracci sfruttati dall’infame capitalismo mondiale. Il che, forse, è anche vero: solo che si tratta di una verità parziale. Perché il fatto di essere manovrati e sfruttati dal turbocapitalismo non fa di loro né dei santi, né delle vittime (infatti il 95% di essi non sta fuggendo da alcuna guerra o emergenza umanitaria), ma solo dei disperati o dei violenti che non hanno nulla da perdere e che si vogliono giocare la vita dando l’assalto alla lotteria Europa, sperando di vincere il biglietto buono, e, nel frattempo, di islamizzare l’odiosa terra dei crociati, prospettiva che, dal loro punti di vista, non guasta mai.  E poco importa se sono doppiamente strumentalizzati, dai miliardari come Soros che vogliono attuare il Pano Kalergi, e dagli sceicchi del petrolio che vogliono conquistare l’Europa senza colpo ferire: ciò non li rende oggettivamente meno pericolosi, né attenua il diritto/dovere, per gli europei, di difendersi dalla loro invasione programmata e pilotata.
Resta da capire e da spiegare perché ci sia questa Italia che odia se stessa, e la cui classe dirigente semina il vento di tempesta dell’autodistruzione. Il fenomeno rappresentato dai centro sociali e dalle loro iniziative politiche è di portata globale, ma il fenomeno italiano è declinato secondo una variabile assolutamente unica nel mondo occidentale. In nessun altro Paese al mondo succede quello che sta accadendo in Italia: una classe dirigente che, in spregio evidente del bene della nazionale e dei suoi interessi vitali, prende partito, senza ”se” e senza “ma”, per delle forze esterne che ne minacciano irreversibilmente la stabilità e la stessa sicurezza dei cittadini. Sotto questo punto di vista, non c’è una differenza sostanziale fra i politici che non vogliono neanche sentir parlare di uscita dall’euro, pur essendo evidente ormai che l’euro è stato e sempre di più sarà il suicidio dell’economia italiana, e, alla lunga, della società italiana, e gli stessi politici, o quasi gli stessi, i quali non vogliono nemmeno sentir parlare di chiusura delle frontiere, di respingimento dei falsi profughi, di rimpatrio dei clandestini, o che, se pure accennano timidamente a questi temi, lo fanno con tali e tante riserve, e con una così evidente volontà di non passare mai dalle parole ai fatti, che potrebbero risparmiarsi la commedia e unirsi al coro, invero surreale, dei loro colleghi secondo i quali va tutto bene così, noi siamo un popolo pieno di umanità, noi non lasciamo nessuno in pericolo sul mare agitato, noi salviamo le donne e i bambini anche senza domandar loro la carta d’identità. Solo che qualcuno dovrebbe regalare a quei signori un bel paio di occhiali nuovi: perché allora vedrebbero, forse (ma non è detto, perché il loro accecamento ideologico difficilmente si arrende davanti ai fatti) che non si tratta, se non in minima parte, di donne e bambini, ma di baldi giovanotti pieni di salute, di muscoli e di ormoni, i quali ai veri profughi non somigliano neanche un poco. E solo che i nostri politici non si limitano al soccorso e alla prima accoglienza verso costoro, ma sembrano trovare cosa perfettamente giusta e naturale che quei sedicenti profughi s’installino qui per sempre, come fosse casa loro: che bella la società multietnica e multiculturale, basta non leggere le pagine di cronaca nera e basta cambiare strada quando si passa per certe strade o certi quartieri; cosa che quei signori possono fare benissimo perché, loro , in quelle vie e in quei quartieri non ci vivono mica, né mai ci vivranno, perché sono le vie e i quartieri degli italiani poveri, o impoveriti dalla crisi. Le vie e i quartieri dove abitano anziani come quella signora di Padova che è svenuta al supermercato, l’hanno soccorsa ed è saltato fuori che era indebolita dalla fame e dal freddo: con la sua pensione minima non ce la fa a pagarsi il riscaldamento e nemmeno a mangiare a sufficienza, ma che volete, è italiana, ha la pelle bianca, e poi è una persona dignitosa che non chiede la carità, non reclama i suoi diritti, non pianta grane e non getta per terra il piatto della Caritas, dunque chi se ne frega, se fosse una finta profuga sarebbe tutta un’altra cosa e sai che titoloni sui giornali e che servizi speciali alla tivù: Povera donna africana sviene per la fame, in mezzo all’indifferenza della nostra società egoista. I preti di strada griderebbero allo scandalo, i vescovi progressisti si straccerebbero i sacri paramenti e il signor Bergoglio, scuotendo la testa, con aria carica di disapprovazione, sibilerebbe soltanto una parola: Vergogna!
Resta da capire perché, nel nostro Paese, ci siano così tante persone come Lavinia Flavia Cassaro, che sfogano così tanta rabbia e frustrazione sui loro connazionali, specialmente se in uniforme (i quali rischiano un sanpietrino in testa per poco più di mille euro al mese ogni volta che ai giovani come lei vien la voglia di manifestare il loro sacrosanto antifascismo) e perché, alle loro spalle, ci siano dei politici, dei giudici, dei professori e dei preti che li hanno fatti diventare così come sono, e plasmati secondo i desideri della loro velleitaria ideologia: buonista, ambientalista, terzomondista, migrazionista, furiosamente antinazionale. Politici come la signora Boldrini, i quali si preoccupano sempre e solo per i diritti dei migranti/invasori, e vorrebbero regalare la cittadinanza italiana a qualsiasi bambino nasca in Italia, con la prospettiva di trasformare la nostra Patria nella sala parto dell’intero continente africano, più una bella fetta di quello asiatico. Giudici che trovano sempre un inghippo per scarcerare i delinquenti stranieri, anche se presi con le mani nel sacco a viaggiare sui mezzi pubblici senza biglietto, a danneggiare la proprietà, a minacciare, insultare, rubare, rapinare, spacciare droga, picchiare, stuprare nel Paese che li ha accolti, ospitati, sfamati. Professori che insegnano a odiare l’Italia, i suoi valori, la sua civiltà, la sua tradizione e, naturalmente, la sua religione, a sentirsi colpevoli di tutto ciò che di male succede nel mondo, non solo al presente, ma anche di quel che è successo nel passato, e a magnificare tutto quel che viene dal Sud della Terra, e specialmente le società e le culture che non hanno niente a che fare con la nostra, ma che ora dovremmo accogliere, includere, integrare, non si sa come, non si sa perché. E preti che non parlano mai di Dio, della grazia e del peccato, del bene e del male, della vita eterna, del premio e del castigo, ma sempre e solo dei migranti, e trasformano le chiese e le basiliche in cucine, sale mensa, dormitori e cessi pubblici per i poveri profughi, tanto il buon Dio è d’accordo, non è stato proprio Gesù Cristo a dire che quel che avremo fatto al nostro prossimo, lo avremo fatto a  lui? E poco importa se le vecchiette italiane svengono per la fame e per il freddo: non vengono mica dall’Africa, loro, e non sanno cosa vogliano dire i “viaggi della speranza”, non hanno sfidato le sabbie roventi del Sahara e le onde del Mediterraneo, insomma non conoscono i veri sacrifici e i veri pericoli.
Resta quindi la domanda: da dove viene questa ideologia-spazzatura, e come è possibile che sia stata adottata non solo dai poveri sfigati che scendono in strada ad abbaiare alla luna, cioè, volevamo dire, a gridare la loro rabbia contro il fascismo, morto e defunto più di settant’anni fa (a meno che proprio loro non lo facciano risorgere, a forza di esasperare anche le persone più miti e ragionevoli, con le loro mattane), ma anche dai signori e dalle signore bene della classe dirigente, della classe di governo, e dalla maggioranza dei cosiddetti intellettuali? Perché, in un Paese normale, è fisiologico che ci siano quattro sfigati che abbaiano alla luna, altrimenti non saprebbero di che vivere e come occupare il loro tempo; ma non lo è affatto che ad abbaiare alla luna, anzi a farne una politica e una linea di governo, siano i signori e le signore che guidano la nazione e che decidono il suo destino. A prima vista, siamo davanti a un mistero quasi indecifrabile; a meno di scomodare la psicanalisi, l’inconscio, gli impulsi sessuali repressi, l’odio mascherato di se stessi, i traumi della primissima infanzia, il complesso di Edipo e quello di Elettra, e così via; oppure, magari – ipotesi già più verosimile, se non anche un po’ più nobile, in confronto all’altra - la magia nera, la stregoneria africana (ma si può dire? o si rischia una denuncia per incitamento all’odio razziale?) e i riti voodoo. Tuttavia, a ben guardare, forse l’arcano non è poi così indecifrabile come appare a prima vista. Il nostro Pese ha conosciuto, nella seconda metà del Novecento, tre peculiarità, che lo differenziano da tutti gli altri Paesi occidentali, o per se stesse, o per il modo in cui sono evolute. Primo: ha avuto il più grosso partito comunista e la più pervasiva cultura marxista dell’Europa, eccezion fatta per i Paesi del blocco sovietico, e che sono entrambi durati per un pezzo, sia pure con un po’ dimaquillage, anche dopo il crollo del muro di Berlino. Secondo: è la sede della Chiesa cattolica, la quale, a sua volta, a partire dal Concilio Vaticano II, ha conosciuto un tenebroso esperimento d’ingegneria genetica: trasformarsi in una cosa sostanzialmente diversa da ciò che è stata per millenovecento anni, ma senza che la quasi totalità dei suoi membri e del suo stesso clero se ne rendessero conto. Terzo: si è trovato proiettato nella realtà della globalizzazione, al di là della dimensione statale, senza essere riuscito ad integrare la società nello Stato, cioè senza aver risolto la questione della formazione del popolo italiano; per cui si è trovato in un mondo post-moderno quando ancora non aveva raggiunto la sia pur precaria stabilizzazione delle società e degli Stati moderni. Crediamo che dalle dinamiche reciproche fra questi tre fattori sia scaturito il fenomeno, assolutamente unico e stupefacente, di una classe dirigente che pratica e diffonde l’odio contro il proprio Paese e la propria civiltà, e che applaude fragorosamente tutti quelli che sono incompatibili con essa, come se fossero dei salvatori e dei liberatori.
Gli ex comunisti, rimasti orfani della loro sacra ideologia, o meglio, della loro religione di salvezza, piuttosto che riconoscere d’aver sbagliato tutto, hanno trovato un espediente geniale, si fa per dire, onde conservare intatti i sogni della loro beata giovinezza: migrare in massa dentro le file della Chiesa cattolica. La quale, a sua volta, era piena di gente che si era stancata del rigore eccessivo di una morale troppo limitante dei “diritti” e delle “libertà” del mondo moderno, e che non aspettava altro se non di poter fare, con la benedizione del clero e in nome del Vangelo, quel che prima non poteva fare, senza timore d’esser buttata fuori; perfetto matrimonio d’interessi, cinico ma efficace, fra due perdenti in cattiva coscienza, gli orfanelli del P.C.I. e i cattolici scontenti. Infine la mancata fusione del popolo italiano in un solo popolo e una sola nazione, la sopravvivenza delle due o tre Italie e dei cento e mille campanili, consorterie, corporazioni, clan, mafie e potentati d’ogni sorta, ha agevolato la campagna di odio dei primi due scontenti: gli ex comunisti e i cattolici di sinistra. Ha offerto loro un nemico più fiacco, più molle: uno Stato debole e incapace di riformarsi. Le persone come Lavinia Flavia Cassaro hanno buon gioco a sputare il loro veleno contro i poliziotti: nel 99% dei casi rischiano ben poco, e in compenso si sentono gli eroici combattenti per una società più giusta, per un Paese migliore. Massimo risultato con il minimo sforzo: e stipendio garantito da quello stesso Stato sul quale riversano tutto il loro livore e il loro sovrano disprezzo. Negli altri Paesi occidentali, simili comportamenti non sono tollerati; da noi, ricevono anche un premio morale e la benedizione del papa. Ma negli altri Paesi neppure una simile classe dirigente sarebbe tollerata... 

L’Italia dell’odio. Contro se stessa

di Francesco Lamendola
IL DESERTO CHE AVANZA


Una sola cosa hanno preso sul serio "vietato vietare" e la conseguenza è la perdita di ogni residua umanità, di fronte a chi impedisce loro qualcosa, come i poliziotti il cui dovere è difendere un minimo di convivenza ordinata 
di Roberto Pecchioli  

 

“Il deserto cresce; guai a chi in sé cela deserti.”, Così inizia Zarathustra il suo dialogo con le figlie del deserto Duda e Suleika, seduto in una piccola oasi ombrosa. A quella frase pensavamo vedendo le immagini dell’insegnante siciliana scatenata davanti ai poliziotti con la birra in mano durante gli incidenti “antifascisti” di Torino. Quell’augurare la morte a voce spiegata gesticolando come una Erinni, quelle parole confermate a mente fredda davanti all’intervistatore ci sono parse oscene. Non troviamo un termine diverso. La categoria dell’oscenità ci sembra l’unica in grado di dare conto dell’odio incontenibile che sgomenta e fa crescere il deserto.
L ’insegnante elementare di sostegno Lavinia Flavia – due bei nomi latini, degni dell’antica città siciliana di Piazza Armerina di cui è originaria, sede della villa romana del Casale - vive in un deserto spirituale che lascia sbigottiti. Non sappiamo se continuerà a educare dei bambini, raramente il verbo ci è sembrato meno appropriato. Speriamo di no, ovviamente, ma è il caso di ragionare intorno all’ondata di odio che si è abbattuta sull’Italia negli ultimi mesi. Non si tratta soltanto della diatriba allucinata su fascismo e antifascismo, la quale, per quanto amplificata dai media e alimentata dalle pessime prestazioni dei rappresentanti istituzionali, riguarda una piccola minoranza. Il fatto è che la campagna elettorale ha scatenato il peggio, spalancando le sentine di una nazione malata.
Mancava il detonatore, ed è stato come se qualcuno avesse aperto i tombini delle fogne e il lezzo avesse invaso all’improvviso le narici dei passanti. Troppi umori cattivi erano stati trattenuti a forza nella menzogna e nell’ipocrisia. I segnali erano molti e convergenti, poi sono capitati i fatti di Macerata, l’orrendo assassinio, con metodologie tribali e spaventose mutilazioni della giovane Pamela da parte di un branco di nigeriani spacciatori clandestini. Il Male Assoluto commesso dall’Altro Assoluto. Subito dopo, il raid di un disturbato mentale avvolto nel tricolore contro chiunque non fosse di pelle bianca per le strade della città marchigiana, ex isola felice della dolce provincia italiana.
In un attimo sono saltati gli equilibri, tutte le contraddizioni della nostra società sono venute a galla. Un vulcano rabbioso sputa umori maligni, avanza e sparge odio, lascia senza fiato come la paura improvvisa per il primitivo rivelato, e la rabbiosa violenza di minoranze impunite e nichiliste rappresentate dallo sguardo torvo, dalle parole impazzite e dalla condotta ripugnante della maestra di Torino. Mezzo secolo fa cominciava tutto. A Valle Giulia, Roma, la violenza di un’altra generazione, adesso giunta all’autunno della vita, dava il segnale d’inizio del 68, della contestazione, del rovesciamento di valori che ha generato il deserto contemporaneo.
All’epoca, lo capì solo Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale dannato che intuì il carattere decadente e profondamente borghese di quei tumulti. Figli ben nutriti in conflitto con padri ipocriti giocavano alla rivoluzione attaccando veri proletari, i ragazzi in divisa mandati dallo Stato a ristabilire un ordine precario, anzi a nascondere sotto il tappeto la polvere di un mondo in declino. Dopo cinquant’anni, il lavoro è compiuto, il deserto si è impadronito del territorio, Attila è passato e non cresce più erba. I nipoti concludono l’opera, ma non hanno in mente nessuna rivoluzione, nessun modello alternativo.  
Gli ultrà che chiamiamo centri sociali non sono altro che un grumo di ostilità invidiosa, illegalità diffusa, disadattamento, viteborderline nutrite di disvalori elevati a vita quotidiana; non hanno in mente un modello politico, non si muovono all’interno di un progetto preciso, neppure si dicono comunisti. In effetti non lo sono, poiché non lavorano per costruire una nuova società, ribaltare le enormi ingiustizie del presente.  Immaginiamoli alle prese con l’undicesima tesi di Karl Marx su Feuerbach: i filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo. Immaginiamo le vertigini, gli sguardi smarriti, l’emicrania severa curata con canne e pasticche proibite.
Trasformare il mondo, già. A distruggerlo ci sono riusciti in gran parte, ma è ironico immaginarli a costruire qualcosa. Non ne hanno la tempra o la forza morale, e nemmeno la rigorosa preparazione ideologica, mossi come sono da un nichilismo di fondo che è sempre e solo “anti”. Anti– fascisti, No- Tav, anti-razzisti, anti-omofobi, anti tutto. Si definiscono esclusivamente in negativo, viandanti di un deserto senza oasi che abita soprattutto dentro di loro.  
Zarathustra vedeva lontano: guai a chi cela deserti entro di sé, poiché potrà soltanto generare altri deserti. Che Guevara, un mito per alcuni di loro, sarebbe inorridito vedendoli all’opera.  Nel famoso La guerra di guerriglie, scritto all’Avana nel fatidico 1959 della vittoria castrista, il Che definisce il guerrigliero come avanguardia della lotta di liberazione, sottolineando quali tratti distintivi la disciplina interiore, contrapposta a quella formale ed esteriore, l’impegno socialrivoluzionario e le radici popolari. Nulla di tutto questo traspare nella condotta di Flavia Lavinia e dei suoi amici. Solo una rabbiosa estraneità a tutto, la spinta a distruggere, a gridare, sguardo febbrile, volto sfigurato dal rancore, vuoto morale, cupa disponibilità ad ogni esperienza. Inferni artificiali sostituiscono i paradisi dell’ennui, la noia metropolitana colta da un Baudelaire, l’estetica del brutto come condivisione mimetica del degrado.
Figli prediletti di pessimi maestri come Toni Negri e Michael Hardt, minuscoli granelli di sabbia di una pretesa Moltitudine intenzionata a ereditare, non a sovvertire l’Impero, mancano anche della tragicità di figure antiche come quelle luddiste. Guidati dal mitico Ned Ludd, distruttore di telai meccanici, i miseri operai inglesi cercavano di contrastare le macchine del primo capitalismo, già violento e predatorio, difendendo il magro salario conquistato tra fatiche immense nelle fabbriche le cui ciminiere William Blake definiva “dark satanic mills”, oscuri mulini diabolici.
I nostri eroi vogliono soltanto sedersi alla mensa del capitalismo terminale senza pagare il conto e, purtroppo, senza capire. Non dissimile è l’attitudine di alcuni nemici loro, fascistelli dell’Illinois con testa rasata, tatuaggi, aria trucida e vuoto pneumatico: sono come tu mi vuoi, cantava Mina e più recentemente Irene Grandi. Loro capetti, ingrigiti “camerati” prigionieri onirici degli anni settanta del secolo scorso. Anche in loro avanza il deserto.  
Ci sono, naturalmente, anche gli imprenditori del deserto: forze politiche, economiche e sociali che campano sulle contrapposizioni indotte, ed esibiscono finto perbenismo al popolo perplesso. Loro sono peggio di noi, suggeriscono dietro sguardi corrivi di riprovazione, scuotendo la testa e fregandosi le mani in segreto per aver vinto la partita dividendo il fronte avversario, mentendo spudoratamente, con l’arbitro venduto. Per loro, disgraziatamente, è sempre domenica, e poco importa se tanti anziani languono in dignitose povertà che diventano inedia, i giovani sono servi della gig economy, l’economia dei lavoretti, e a milioni vivono insicuri nelle proprie case, mentre farabutti dei cinque continenti scorrazzano per le strade da Bolzano a Siracusa.
E’ il risultato di una siccità morale che compie cinquant’anni. Dove esisteva una comunità con pregi e difetti, luci ed ombre, si è insediata una torva periferia esistenziale fatta di pietre sparse, rovi, rovine di edifici abbandonati, rari lacerti di civiltà ricoperti dai calcinacci del progresso impermeabilizzato. Dove sussisteva una forma, si è installato l’informe, il rizoma che tracima incontrollato. Mezzo secolo dopo il mitico Sessantotto, gli anni formidabili di Mario Capanna, Gino Strada, Emma Bonino e i suoi aborti con le pompe di bicicletta, eruditi alfieri del Nulla e pomposi maestri del Nuovo come Umberto Eco ieri e oggi il giovane Saviano, la missione è compiuta.
Il deserto è qui e la maggioranza non se ne accorge neppure. Gonfia della retorica dei “diritti” individuali, ha smarrito il filo di quelli sociali e scambia la civiltà per assenza di giudizio critico. Tollera ogni cosa in quanto non crede in alcun principio. Un viaggio suisocial media, turandosi il naso, fa comprendere più cose di mille trattati di sociologia. In occasione degli assalti “anti” di questi giorni, un commento ci ha colpito più degli altri. Nessun insulto, nessun odio esibito. Un professorino del pensiero debole giustifica la violenza citando Karl Popper: chi è contro la tolleranza, va spazzato via in quanto intollerante e nemico della “società aperta”. Aveva ragione Carl Schmitt: un uomo, un gruppo armato di “valori” è un potenziale assassino. Specialmente quando grande è la confusione sotto il cielo. Quindi la situazione è favorevole, parola di Mao Tse Tung, mito sanguinario della generazione i cui figli e nipoti sono la maggioranza di questo tempo bastardo. Bastardo perché confuso, miraggi nel deserto che tra una birra e un rutto citano Popper, liberale e liberista, ma brandiscono una bandiera rossa nell’indifferenza del popolo.
Una sola cosa hanno preso sul serio, vietato vietare. La conseguenza è la perdita di ogni ritegno, di qualsiasi residua umanità di fronte a chi impedisce loro qualcosa, come i poliziotti il cui dovere è difendere un minimo di convivenza ordinata. Signorini viziati li definì Ortega y Gasset all’alba della ribellione delle masse, gente che considera un affronto ogni limite o proibizione. Il loro nemico è il semaforo rosso che impone lo stop, riconoscono solo il deserto, odiano le oasi e la foresta che cresce silenziosa. Per questo avvelenano i pozzi e segano i rami dell’albero ai piedi del quale vivono, senza avvedersi del guinzaglio del padrone che li aizza.
La rivoluzione, sosteneva Mao, non è un pranzo di gala, ma non ditelo a Lavinia e ai suoi compagni. 

IL DESERTO CHE AVANZA

di Roberto Pecchioli

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