Da alcuni anni, chi appartiene ad una "minoranza protetta", etnica, sessuale ecc. ha partita vinta: "a parità di ragioni", nei confronti di qualsiasi controparte, che abbia il torto di appartenere alla maggioranza dei “normali”
di Francesco Lamendola
Se siamo caduti così in basso, è stato in sostanza per nostra colpa o negligenza. Certo, possiamo invocare cento attenuanti, e trovare chi sa quanti responsabili, sui quali scaricare ogni responsabilità: dalla élite finanziaria globale fino ai politici nostrani, arrivisti e cialtroni; ma la nuda e impietosa verità è che non saremmo scesi ai livelli attuali se non avessimo abdicato a tutte le nostre responsabilità, se non avessimo disertato i nostri doveri, se non avessimo disatteso tutti i nostri impegni.Anche sul piano morale; anzi, soprattutto sul piano morale. Il bello è che siamo disposti a prenderci sulla groppa anche delle colpe che non sono tali, e soprattutto che non sono nostre: il debito pubblico dell’Italia, per esempio, che è sostanzialmente un trucco e una invenzione della Banca Centrale Europea per farci pagare, attraverso il meccanismo perverso degli interessi sui prestiti, la nostra vera e unica colpa: quella di essere, o di essere stati, nonostante tutte le storture del sistema Italia, giudiziarie, fiscali, politiche, strutturali, largamente concorrenziali all’industria tedesca. Invece non siamo capaci di prenderci quelle che veramente ci spettano: la nostra latitanza come padri e come madri, come contribuenti, come dipendenti pubblici, come insegnanti e come sacerdoti, insomma come formatori delle nuove generazioni, alle quali non siamo stati in grado di trasmettere neppure un decimo di quel patrimonio di esperienza, di saggezza e di moralità che avevamo ricevuto, a nostra volta, dai nostri genitori e dai nostri nonni.
Per colpa nostra, la cinghia di trasmissione fra le generazioni si è bloccata e il normale ricambio generazione si è interrotto: come appare evidente dalla intramontabile e oppressiva presenza degli ottuagenari nella politica, nell’impresa, nella finanza, nella cultura, dappertutto, senza alcuna ragionevole speranza che si verifichino un ricambio ed un rinnovamento. L’Italia tenuta in ostaggio e paralizzata, dopo le elezioni del 4 marzo 2018, dall’ottantaduenne di Arcore, già responsabile di un ventennale disastro che per lui, però, si è risolto in un impressionante accrescimento del suo capitale privato esemplifica in maniera impietosa questa triste verità.
Ma abbiamo fatto anche di peggio. Con la nostra passività – la nostra, cioè quella della generazione che oggi è matura – abbiamo lasciato i giovani senza una guida, praticamente allo sbando, nelle mani del conformismo di massa, che li ha manipolati come ha voluto, piegandoli a tutte le mode del momento e spezzando in loro quel che restava delle capacità di giudizio personale. Infatti, di fronte all’aggressività sempre più forte delle minoranze in cerca di rivalsa, abbiamo calato le braghe e alzato bandiera bianca, piegandoci al ricatto del politically correct. Pertanto, da alcuni anni a questa parte, chi appartiene a una minoranza protetta – etnica, sessuale o di qualunque altro genere – ha partita vinta, a parità di ragioni, nei confronti di qualsiasi controparte che abbia il torto di appartenere alla maggioranza dei “normali”. Un gay militante, per esempio, avrà sempre buon gioco nel querelare uno che non lo è, per poco che si senta trattato in maniera irrispettosa; un immigrato avrà tutti dalla sua, dai giudici alla stampa, se punterà il dito contro un italiano, accusandolo di razzismo per non avergli ceduto il passo davanti a un pronto soccorso, o semplicemente sulla porta della pizzeria. Un ebreo sarà sicuro di vincere la causa se sporgerà denuncia contro un giornalista che abbia trattato l’argomento Olocausto in maniera, a suo parere, irrispettosa, cioè “antisemita”, perché su di noi pesa ancora la maledizione di aver perduto l’ultima guerra, settanta anni fa, cosa che ci obbliga, come popolo (e non noi soltanto) a un atteggiamento di umiltà e sottomissione, per non dire di servilismo, verso i veri vincitori di quell’evento: Israele e tutti i suoi aderenti e simpatizzanti, con le loro succursali anglosassoni. Siamo perfettamente consapevoli del fatto che, in questo momento, stiamo un po’ semplificando i termini della questione: ma, se li stiamo semplificando, non li stiamo, però, alterando, e tanto meno falsificando. Nove volte su dieci, le cose stanno come abbiamo detto: chi appartiene alle minoranze protette ha tutti dalla sua, magistratura, informazione, cultura, e quindi l’opinione pubblica; meglio non trovar nulla da dire con esse. Torniamo in questo momento da una convocazione presso la polizia di Stato: un giovane sacerdote, professore di teologia, ha ritenuto cosa buona e giusta sporgere querela contro di noi, sentendosi diffamato da un nostro articolo, nel quale non vi sono né insulti, né, tanto meno, calunnie, ma un giudizio di merito su quel che lui va dicendo e scrivendo a proposito di questioni decisive della fede cattolica: ma lui può querelare chi vuole, gli altri devono subire; lui può sentirsi offeso, gli altri no; lui può mostrare indignazione e reagire, anche con le vie legali, per quel che pensano gli altri, mentre gli altri devono accettare le sue sconcertanti asserzioni sulla liturgia sacramentale.
Ormai le cose funzionano così: chiunque vuol farsi valere, intenta causa contro chi gli pare e piace; tanto, non gli costa nulla: non esiste, in Italia, il reato di azione temeraria, presente nel codice americano. Ciò significa che a far querela non si rischia nulla; e se risulta che si è impegnata la giustizia per cose insussistenti, non c’è bisogno neanche di domandare scusa. Da questairresponsabilità legale del querelante discende un ulteriore incentivo a una strategia sempre più marcata da parte degli esponenti della cultura dominante: quella di zittire qualunque opposizione a colpi di sentenze di tribunale e di multe milionarie. Il buon esempio è stato dato dalla signora Boldrini, che allora ricopriva la terza carica dello Stato, allorché sporse querela contro il giornale La Gazzetta di Lucca, chiedendo un risarcimento di 250.000 euro per un articolo, a suo dire, diffamatorio nei suoi confronti. Chiedere a un giornale di provincia di pagare 250.000 euro per diffamazione significa voler costringerlo alla chiusura. Ed è a questo che puntano gli uomini e le donne della cultura dominante: progressista, femminista, migrazionista, omosessualista: ridurre al silenzio tutti gli altri, schiacciare ogni possibilità di esprimere opinioni dissenzienti. E la neochiesa del (falso) papa Bergoglio si distingue, in questa misera crociata, per l’aggressività e l’intolleranza di molti suoi esponenti: i quali, pur avendo sempre in bocca la misericordia, di fatto agiscono in maniera assai poco misericordiosa. Questo, almeno, se il “nemico” da essi individuato è un cattolico; ma se è un ebreo, o un musulmano, o un massone, o un radicale, allora no, allora è tutta un’altra musica: è tutto un cinguettio, un abbracciarsi, uno strusciarsi, uno scambiarsi complimenti e convenevoli perfino stucchevoli. Avete presente l’apologia del defunto Marco Pannella da parte di monsignor Paglia? Se il suddetto monsignore fosse stato invitato a commemorare san Giovani Bosco, o san Massimiliano Kolbe, ben difficilmente avrebbe potuto adoperare parole più elogiative, espressioni più zuccherose, formule più entusiastiche ed iperboliche di quelle che ha usato per magnificare e glorificare il campione indiscusso e indiscutibile del divorzio, dell’aborto, dell’eutanasia, delle unioni civili, dei cosiddetti matrimoni gay, dell’utero in affitto (pardon, volevamo dire: della maternità per altri, come dicono loro), della libertà di drogarsi. E tutto questo, diciamo la verità – sinceramente, spassionatamente – può essere considerato come normale? È normale che un vescovo cattolico tessa l’elogio di Pannella, e che il papa elogi pubblicamente la signora Bonino, chiamandola una grande italiana? E che entrambi tacciano sull’aborto? E che il papa neghi l’esistenza dell’inferno, e il generale dei gesuiti neghi quella del diavolo? Lo chiediamo, accorati, ai cattolici che si considerano progressisti, purché vi sia in essi un barlume di buon senso e un briciolo di buona fede: vi sembra normale, tutto questo? Avete l’impressione che il Vangelo sia rettamente inteso e custodito, che la Chiesa si trovi in buone mani? Non vi par di sentire, al contrario, un certo qual puzzo dell’inferno?
Qualcuno penserà che ora stiamo esagerando, e che non è giusto addebitarci anche l’arroganza delle minorane bramose d’imporci la loro dittatura. Eppure è così: siamo noi che avremmo dovuto reagire a tono, al principio, quando ancora sarebbe stato possibile farlo. Quella arroganza ha delle radici culturali e sociologiche ben precise: al tempo dei nostri padri, non sarebbe stata neppure immaginabile, e ciò per l’ottima ragione che i nostri padri, a differenza di noi, erano capaci di dire anche qualche no davanti alle pretese irragionevoli, ai caprici e alle manie, fossero pure dei pretesi soggetti “deboli”. Non subivamo ricatti morali, loro; noi invece sì. Non si sentivano in colpa, personalmente, se nel Medioevo i sodomiti venivano perseguitati, né se alcune donne proclamavano che il loro sesso è stato vittima di uno sfruttamento perpetuo, e neppure se i nazisti avevano costruito Auschwitz. Si prendevamo le loro responsabilità e le loro colpe, non quelle degli altri, né quelle di secoli di storia. Le maestre non prendevano immediatamente le parti di un bambino zingaro, se questo si diceva maltrattato dai compagni, come invece quelle di oggi fanno con un bambino africano che si dichiari vittima di discriminazioni a sfondo razziale. I nostri padri avevano un fiuto infallibile per le vittime di professione, per i fannulloni travestiti da discriminati, per i furbi che puntavano a impietosire il prossimo. Se centinaia di migliaia di falsi profughi fossero sbarcati sulle coste dell’Italia dicendosi perseguitati a morte, i nostri padri, cinquant’anni fa, li avrebbero immediatamente riconosciuti per ciò che realmente sono: degli invasori che sfruttano il buon cuore, l’ingenuità e la dabbenaggine del popolo italiano. E li avrebbero trattati di conseguenza. Allora – e parliamo di neppur due generazioni fa – un magistrato non avrebbe osato dar ragione a una nave straniera che scarica in Italia l’ennesima infornata di falsi profughi, disobbedendo agli ordini della capitaneria di porto, con la motivazione che consegnarli ai libici avrebbe significato abbandonarli a tremende violazioni dei diritti umani. E non avrebbe potuto sostenere che chi sbarca in Italia ha comunque il diritto di restarci, perché, altrimenti, finirebbe in chi sa quali situazioni di pericolo. E ciò perché cinquant’anni fa la politica estera dell’Italia non la facevano i magistrati, e tanto meno gli equipaggi delle organizzazioni non governative “umanitarie”. Allora, gli interessi vitali della nazione erano ancora in mano ai politici, in nome e per conto del popolo italiano: bene o male. Più male che bene, se si vuole; ma non venivano decisi da soggetti privati, magari di nazionalità non italiana. Questo, almeno, non accadeva, perché il ricatto buonista e filantropico non avrebbe attaccato. I nostri genitori e i nostri nonni erano buoni – ne abbiamo cento e cento ricordi: di bontà vera, concreta, non parolaia – però non buonisti. Un falso povero, una vittima di professione, li riconoscevano all’istante. E non avevano alcuna difficoltà a svergognarli e a cacciarli a pedate nel sedere. Buoni sì, ma fessi no.
È tempo di rialzarsi
di Francesco Lamendola
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