ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 9 aprile 2018

Gesù è venuto per combattere

CRISTO E IL MONDO


«Vince il mondo chi crede in Gesù, Figlio di Dio». Tutto il nodo della questione è qui: "nel rapporto fra Cristo e il mondo": mondo che rifiuta di riconoscere di essere sua creazione e rifiuta di rendere omaggio al suo Creatore 
di Francesco Lamendola   

0 COROXX

Tutto il nodo della questione è qui: nel rapporto fra Cristo e il mondo. Cristo non è venuto per condannare il mondo, ma per salvarlo; il mondo, però, la ha rifiutato, ha preferito le tenebre alla luce. Si è ripetuta la rivolta del Paradiso terrestre: Adamo ed Eva, per invidia e per orgoglio, vollero essere come Dio e si ribellarono alla sua legge; quando Gesù è venuto nel mondo, gli uomini non l’hanno voluto accogliere, ma lo hanno messo in croce. E Gesù era il Figlio di Dio, era la seconda Persona della Santissima Trinità. Fra Gesù e il mondo non vi è alcun compromesso possibile: non perché il mondo sia male in se stesso, ma perché il mondo rifiuta di riconoscere di essere creato, rifiuta di rendere omaggio al suo Creatore e rifiuta anche l’invito struggente del suo amore, spinto fino al dono della vita da parte del Figlio: come Gesù aveva profetizzato nella parabola dei vignaioli omicidi, ben sapendo quel che i sacerdoti, gli scribi e i farisei stavano preparando contro di Lui. Il mondo, perciò, è quella parte della creazione che rifiuta l’amore di Colui che ha creato ogni cosa con la sua Parola creatrice: Fiat.

Non tutto il mondo, però, ha rifiutato l’amore divino: alcuni hanno accolto Gesù e hanno creduto in Lui. Tutta la storia umana, negli ultimi duemila anni, è la storia degli ultimi tempi: i tempi in cui Dio ha rivolto agli uomini la sua Parola definitiva, Parola di amore, e insieme di giustizia, facendosi uomo Lui stesso e donando la sua vita, come uomo, per amor loro; e in cui la luce e la tenebra hanno poi continuato a lottare, perché alcuni hanno creduto e hanno accolto quella offerta d’amore, ma altri non hanno voluto credere, né accogliere l’amore di Dio, e sempre per le stesse meschine ragioni di Adamo ed Eva: invidia e orgoglio. Perché per accogliere l’amore di Gesù Cristo bisogna farsi piccoli e umili: talmente piccoli da permettere a Lui, che è Dio, di lavare i piedi a noi, che siamo solamente uomini. Pietro, alla lavanda dei piedi, ebbe l’impulso di ribellarsi: non voleva che Gesù, il Maestro e il Signore, gli lavasse i piedi, come se fosse stato un servo. Ma quando Gesù gli rispose che, se non si fosse lasciato lavare i piedi, non avrebbe avuto parte con Lui, cambiò subito idea e, preso dall’entusiasmo, chiese che gli lavasse anche il capo e le mani. Gesù aveva voluto compiere con i suoi discepoli il gesto della massima umiltà; ma anche lasciarselo fare, da parte loro, richiese una grandissima umiltà. Ci vuole più umiltà nel lasciarsi amare, benché indegni, da chi è tanto migliore di noi, che non a lasciarsi amare da chi è al nostro stesso livello. Ma l’uomo, ontologicamente, si trova ad un livello incommensurabilmente inferiore rispetto al suo Creatore: non è sostanza, non ha in sé il proprio essere, ma lo riceve, dunque è accidente: eppure, Dio ha voluto farsi uomo anche Lui, per mostrargli la via dell’amore.  Solo tenendo conto di ciò si comprendono le parole di san Giovanni (1 Gv, 5, 1-5):
Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti, perché in questo consiste l'amore di Dio, nell'osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?

Gesù Cristo è colui che ha sconfitto il mondo; del resto, sono queste le sue precise parole, nel grande discorso di commiato dell’Ultima Cena  (Gv., 16, 28-33):
Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre». Gli dicono i suoi discepoli: «Ecco, adesso parli chiaramente e non fai più uso di similitudini. Ora conosciamo che sai tutto e non hai bisogno che alcuno t'interroghi. Per questo crediamo che sei uscito da Dio». Rispose loro Gesù: «Adesso credete? Ecco, verrà l'ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me.  Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!».

Ora, se Gesù ha sconfitto il mondo, vuol dire che Gesù è venuto per combattere: il cristiano, quindi, è un combattente. Il cristiano è chiamato a fare quel che ha fatto Gesù, il suo unico maestro: e Gesù non è venuto a blandire il mondo, non è venuto a corteggiarlo, né è a cercar dei compromessi con il mondo. Niente affatto: è venuto a vincerlo. Ciò non significa che il mondo sia, in se stesso, cosa cattiva; significa che è cosa cattiva il mondo che rifiuta Dio, che rifiuta di lasciarsi amare dal suo Creatore. Il cristiano è un uomo nuovo, nato da Dio e non più dal mondo; e chi è nato da Dio vince il mondo, mentre chi viene dal mondo cerca solo di sistemarsi con le maggiori comodità possibili: non è un combattente, ma un edonista e un narcisista; non ama altri che se stesso e il proprio piacere. Di conseguenza, nel suo io ipertrofico non c’è posto per il “tu”; e quindi non c’è posto nemmeno per il Tu divino. L’uomo egoico, l’uomo vecchio, chiuso alla luce di Cristo, è l’uomo che non sa riconoscere l’altro, non sa porlo, né valorizzarlo, né amarlo; è l’uomo che non sa ringraziare e lodare nulla e nessuno, tranne se stesso; che non sa celebrare se non  le proprie impresa, le proprie gesta; che mai si abbasserebbe a ringraziare Dio per il dono della vita e per tutti gli altri doni ricevuti con essa: salute, intelligenza, volontà, senso morale. Tutto ciò che realizza, è merito suo e ne mena gran vanto, come un bambino viziato; ma se qualcosa gli fallisce tra le mani, allora maledice la sfortuna, il destino, la natura matrigna, e chissà che altro; senza mai dimenticarsi della supposta invidia degli altri (la quale esiste, beninteso, eccome se esiste: ma, generalmente, è d’intralcio a quelli che sono realmente meritevoli, non agl’individui vanitosi ma comuni, perché la folla raramente è invidiosa di chi è simile a lei, mentre detesta chi le è superiore). E siccome la civiltà moderna è la civiltà delle masse, è anche quella in cui si dispiega, metodicamente, una selezione alla rovescia: i peggiori avanzano, sostenuti dalle condizioni sociali favorevoli; i migliori devono quasi nascondersi, perché mal tollerati da tutti gli altri.
Ma che cosa vogliamo arrivare a dire, infine: che il cristiano dovrebbe odiare il mondo? Che egli dovrebbe desiderare non la vita, ma la morte, per evadere dal carcere in cui è recluso? Niente affatto. Innanzitutto, bisogna mettersi d’accordo sul concetto di “mondo”. Nel linguaggio evangelico, il “mondo” non è tutto il mondo: è il mondo che si oppone alla Redenzione; inoltre, è il mondo ferito dalle conseguenze del Peccato originale; infine, è il mondo nel senso della opacità, della resistenza e dell’indifferenza all’amore salvifico di Gesù Cristo. In tutti questi significati, che s’intrecciano indissolubilmente, il mondo è il male: è il mondo di tenebre di cui parla san Paolo (cfr. Efesini, 6, 11-20), una realtà negativa, paurosa, dominata dalle potenze infernali. Anche noi, di norma, adoperiamo la parola “mondo” in questa accezione, sull’esempio di san Giovanni e di san Paolo, specialmente all’interno di un discorso di tipo teologico e morale. Se, invece, per “mondo” intendiamo la creazione così come essa è stata pensata dalla mente di Dio, così come essa è uscita dalla sua mano creatrice;  prima che la stravolgesse il Peccato originale; e, soprattutto, come dovrebbe essere se le creature intelligenti tornassero a Dio, accogliendo l’offerta d’amore culminata nell’Incarnazione di Cristo e nella sua Passione, Morte e Resurrezione, allora il mondo non è, di per sé, una realtà negativa: è il luogo della nostra dimora terrena, ed è, quindi, anche il luogo dei nostri affetti, delle nostre legittime aspirazioni. Non c’è nulla di male nel fatto di amarlo, nel fatto di amare la vita; al contrario: sarebbe un cristianesimo malato quello che odiasse il mondo perché odiatore della vita. Il pericolo, tuttavia, è che l’amore per le cose terrene, anche le più belle, le più legittime, può facilmente trasformarsi in attaccamento, in egoismo, in separazione e allontanamento da Dio, nonché da noi stessi e dagli altri, e pertanto in una forma di alienazione. Ciò avviene a causa della concupiscenza, triste eredità della caduta di Adamo. A causa della concupiscenza, anche i nobili sentimenti che l’uomo è suscettibile di provare, anche le sue aspirazioni più disinteressate, possono trasformarsi in una prigione, in  una feroce volontà di affermazione di sé a scapito della giustizia: in breve, in altrettante passioni disordinate. È disordinata una passione la quale eccede il suo giusto limite e diventa imperiosa, tirannica, ossessiva. Si dirà, magari sulla scia della cultura romantica, che ci ha tutti un po’ contagiati, che le passioni sono la cosa migliore che la vita ci può dare. Non è vero, se con ciò s’intende che noi dovremmo lasciarci tiranneggiare da esse, fino al punto di diventare dipendenti dalla gratificazione che possono procurarci, un po’ come il drogato finisce per divenire dipendente dalla sua dose di eroina. Se noi sapessimo vedere le cose del mondo con uno sguardo limpido, se sapessimo apprezzarle in maniera ordinata, e se sapessimo amarle senza farcene schiavi, non vi sarebbe assolutamente nulla di male nel fatto di amare intensamente la vita e tutte le cose che in essa si trovano. Purtroppo, ciò non avviene: perché, al contrario, in misura maggiore o minore, noi le vediamo, le apprezziamo e le amiamo (oppure le odiamo, il che è una forma aberrante di amarle) lasciandoci trasportare dal nostro io inferiore. Il male, quindi, non è nelle cose, ma nel nostro modo sbagliato di accostarle; e ciò dipende dal fatto che il nostro io è malato di egoismo, di amore narcisista di sé. In effetti, il, cristiano è, in misura anche maggiore dell’uomo in generale, un essere dalla doppia cittadinanza: si muove contemporaneamente nella sfera del finito e in quella dell’assoluto. Come cittadino dell’una, è portato ad amare il mondo, e le cose che in esso si trovano, come se fossero dei fini; in quanto cittadino dell’altra, comprende, o intuisce, che esse meritano di essere amate non in solo in se stesse, ma soprattutto in quanto mezzi per giungere alla meta: che è nell’eternità, fuori della vita terrena. Il cristiano che ha trovato un vero equilibrio con se stesso, ama, pertanto, le cose belle e buone del mondo, ma non fino al punto di assolutizzarle, e perciò senza lasciarsene dominare; e ama, ancor più, l’assoluto, nel quale sa essere la sua meta, il suo scopo, il significato della sua esistenza terrena.

«Vince il mondo chi crede in Gesù, Figlio di Dio»

di Francesco Lamendola
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