ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 26 aprile 2018

Solo dall’ordine può venire la pace

VERO ORDINE "TORNARE A DIO"


La pace è la tranquillità dell’ordine:"bisogna tornare alle sorgenti dell’Essere a Dio". Se il disordine è la radice del male cos’è l’ordine? la conquista della consapevolezza è una fatica che deve essere fatta in prima persona 
di Francesco Lamendola  


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La definizione è di sant’Agostino: la pace è la tranquillità dell’ordine; più esattamente, il grande santo e filosofo latino della Numidia sostiene che la pace consiste nella tranquillità, nella concordia e nell’unione. E si noti che non dice: la tranquillità nell’ordine, bensì: la tranquillità dell’ordine, per cui il soggetto è l’ordine, non la tranquillità. Il vero ordine è tranquillo, e in ciò consiste la pace: non è dalla tranquillità che discende l’ordine, ma dall’ordine discende la tranquillità. Pertanto la tranquillità non è il fine, ma il mezzo: non si giunge alla pace perseguendo la tranquillità, ma cercando di realizzare e di preservare l’ordine. L’ordine è la chiave di tutto,è l’alfa e l’omega della ricerca interiore, è la leva di Archimede che sorregge l’universo. Se l’universo non fosse ordinato, non esisterebbe: tutto ciò che è disordinato corre verso la distruzione. Le passioni disordinate conducono l’anima alla rovina, e nemmeno il corpo se la passa molto bene, quando a comandare sono la superbia, la lussuria e l’avarizia; anch’esso finisce per avvertire i dannosi effetti di un regime di vita disordinato. Ma se il disordine è la radice del male, che cos’è l’ordine? Come lo si può definire? E in che modo sant’Agostino giunge ad affermare che solo dall’ordine può venire la pace?

Evidentemente l’ordine non è un mezzo, perché, come abbiamo visto, il mezzo è la tranquillità che da esso deriva. Ma si può trarne la deduzione che esso è un fine? A noi sembra che non sia un fine, ma che sia la normale condizione di esistenza delle cose. Le cose esistono, in quanto possiedono un ordine; se il loro ordine viene messo in crisi, incominciano a distruggersi, a scivolare verso il non essere. Se le cose sono ordinate, sono anche tranquille, e se sono tranquille sono anche in pace; se invece sono agitate, vi è uno stato di disordine. Non c’è pace senza ordine, e non c’è ordine che non sia, di per sé, pacifico; anche se non è affatto escluso, anzi, è la condizione normale, che esso, per conservarsi, sia costretto a lottare. L’ordine che vige nelle cose di quaggiù è un ordine dinamico, non statico: l’unica cosa assolutamente e pienamente statica, quaggiù, è l’assenza di vita. In un’isola ghiacciata e senza vita, per esempio, regna il massimo ordine possibile; ma in un’isola dal clima temperato, popolata di piante ed animali, l’ordine che si crea fra le creature che l’abitano sarà necessariamente un ordine dinamico: è sufficiente che il vento trasporti i semi di una nuova specie di fiore, o di albero, ed ecco che l’ordine biologico di quell’isola dovrà sostenere una fase di assestamento per accogliere la sfida rappresentata dal nuovo venuto. L’ordine perfetto è quello della immobilità, ma l’immobilità è sinonimo di non vita.

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La conquista di un ordine superiore implica una lotta e un conflitto personale, non delegabile o acquistabile con moneta sonante: chi vuole evitare tutto ciò, che se ne resti nella sua beata inconsapevolezza e lasci stare "le cose da adulti", rimmarrà solo un grosso bambino viziato.

Tuttavia, se l’ordine è, di per sé, pacifico, non ne consegue l’affermazione contraria, ossia che la pace esista solo nell’ordine. Per poter dire questo, dovrebbe darsi il caso che tutti i conflitti siano di per sé sinonimo di guerra, il che non è vero. Esistono differenti tipi di conflitto: non tutti i conflitti sono causati dal disordine; anzi, vi sono dei conflitti utili e necessari, perché scaturiscono dalla ricerca dell’ordine. Il conflitto non deve essere demonizzato: è maligno quando è distruttivo in se stesso, cioè non reca altro che un disordine sempre maggiore, o, addirittura, l’ordine della falsa pace, che è la non vita; mentre è benigno il conflitto che nasce dal bisogno di ricostituire una struttura più ordinata dell’esistenza, e quindi rappresenta una fase necessaria di crescita, di sviluppo. Tali sono, nella maggior parte dei casi, i conflitti familiari causati dall’ingresso del bambino nell’età adolescenziale: sono fasi necessarie verso la maturità, cioè verso l’ordine della stabilità.  Viceversa, una esistenza che non conosce il conflitto, perché si rifiuta di farne l’esperienza, anche quando essa è necessaria, è un’esistenza incompleta, disarmonica, mortificata; è un’esistenza a metà, che reca delle cose buone a metà, ma che non permetterà mai di fare un’esperienza matura e globale del fenomeno “vita”. Così, un’esistenza che miri semplicemente alla tranquillità, è un’esistenza mancata, edonista e voluttuosa: la tranquillità non può essere un fine e, soprattutto, non può essere raggiunta se non passando per la fase della conquista di un ordine superiore, il che implica la lotta e il conflitto. Lo ripetiamo: l’ordine delle cose di quaggiù è un ordine dinamico, e questo significa che la vita è lotta: è tensione e conflitto fra l’ordine di tipo inferiore, provvisorio e immaturo, che deve essere superato, e l’ordine superiore e maturo, che deve esser raggiunto.
C’è poi un’altra funesta illusione che deve esse dissipata, oltre a quella che si possa pervenire all’ordine, e conservarlo, in assenza di conflitto: l’illusione di chi pensa che esistano delle scorciatoie, delle tecniche particolari, ovvero delle formule preconfezionate, che consentano di passare dall’ordine inferiore della inconsapevolezza, all’ordine superiore della consapevolezza. Quante volte ci è accaduto di vedere delle persone accostarsi a degli scritti, o a delle conferenze, o a delle lezioni, con lo sguardo avido e la smania d’impadronirsi del segreto per giungere, di colpo, quasi miracolosamente, alla consapevolezza, vale a dire all’ordine superire cui la natura umana di per se stessa aspira. In quegli sguardi, in quei gesti, in quelle domande, abbiamo sempre colto lo stesso atteggiamento di fondo: la pretesa, totalmente illusoria, che qualcun altro possa fare per noi quel che dobbiamo fare da soli; l’irrealistico e semplicistico desiderio di strappare all’altro la formula per trasformare il disordine in ordine, l’agitazione in tranquillità, il confitto in pace: ma senza avere la pazienza, né l’umiltà, di fare la strada necessaria per capire cosa sia l’ordine, cosa sia la tranquillità e cosa sia la vera pace. Tali persone non si rendono conto che nessuno può fare al posto loro il cammino che ciascuno è chiamato a fare in prima persona; nessuno po’ sostituirsi a lui, portare sulle spalle il suo fardello, vivere al suo posto le necessarie tappe di crescita, compresa la delusione, la sofferenza, l’impotenza. Ma la verità è proprio questa: per quanto si possa essere impazienti, e per quanto si possa essere abituati ad acquistare in denaro sonante tutto ciò che si desidera, c’è una cosa che richiede il suo tempo e che non può essere acquistata neppure a peso d’oro: il proprio cammino esistenziale verso la maturità, la consapevolezza e l’ordine. Chi opina diversamente, non ha capito la cosa essenziale. Per quanto possa aver capito molte cose secondarie, è e rimane simile a un bambino di fronte alla cosa più importante di tutte: che la conquista della consapevolezza è una fatica che deve essere fatta in prima persona, vissuta sulla propria pelle, pagata di tasca propria, ma non in termini di cose materiali, bensì in termini di attesa, sacrificio, rinuncia, difficoltà, angustia, sofferenza, e, qualche volta, perfino angoscia di morte e disperazione. Chi vuole evitarsi tutto ciò, che se ne resti nella sua beata inconsapevolezza e lasci stare le cose da adulti: è solamente un grosso bambino viziato, e non capirà mai nulla di ciò che è importante, né saprà mai attribuire alle cose il loro giusto valore.

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Una cosa dobbiamo avere ben chiara: nulla è perduto, a partire da quando i nostri piedi smettono di portarci lontano da Dio

A questo proposito, vi è una pagina della Bibbia che si presta alle più profonde riflessioni; una pagina che non è tra le più note e che quasi mai viene citata a proposito della crescita spirituale: la Prima lettera di Pietro, dalla quale riportiamo alcuni passaggi chiave (1, 6-23; 5, 6-10):
Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo: voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime.
Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti che profetizzarono sulla grazia a voi destinata, cercando di indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle. E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo; cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo.
Perciò, dopo aver preparato la vostra mente all'azione, siate vigilanti, fissate ogni speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si rivelerà. Come figli obbedienti, non conformatevi ai desideri d'un tempo, quando eravate nell'ignoranza, ma ad immagine del Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta; poiché sta scritto: Voi sarete santi, perché io sono santo. E se pregando chiamate Padre colui che senza riguardi personali giudica ciascuno secondo le sue opere, comportatevi con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio. Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi per voi. E voi per opera sua credete in Dio, che l'ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria e così la vostra fede e la vostra speranza sono fisse in Dio.
Dopo aver santificato le vostre anime con l'obbedienza alla verità, per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri, essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna. (…)
Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, 7gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi. Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi.
E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi. 


La pace è la tranquillità dell’ordine: tornare a Dio

di Francesco Lamendola

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GLI SGUARDI NOSTRI E IL NOSTRO CUORE SIANO VERSO DIO!


SUL SENSO DELLA CELEBRAZIONE “CORAM DEO” O RIVOLTI A DIO

di Dñ Julianus della Rovere


Nella mentalità popolare siamo abituati a sentire che prima della riforma di Concilio Vaticano II il sacerdote celebrava la Santa Messa rivolgendo le “spalle al popolo”. Questo modo di celebrare, con altri elementi come la balaustra o il fatto che l’aria del presbiterio era riservata al solo clero, sono stati visti come un elemento di distanza tra clero e gente, una assenza di partecipazione e comprensione del mistero liturgico da parte della gente. Con queste righe ci proponiamo di proporre alla riflessione di chi vorrà continuare la lettura alcuni spunti su come questo pensiero sia profondamente erroneo e non corrispondente al vero. L’oggetto di riflessione è questa posizione del sacerdote “spalle al popolo”, che inizieremo a chiamare “coram Deo“.
In contrario a questa posizione del celebrante potremmo iniziare con l’affermare che Cristo stesso non ha dato le “spalle agli apostoli” nell’ultima cena, pertanto anche il sacerdote non deve o dovrebbe dare le “spalle al popolo” durante la Santa Messa. Inoltre si potrebbe dire che non ha senso affermare che il sacerdote, agendo in persona Christi, dia le “spalle al popolo”. Il popolo, infatti, è “assemblea adunata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (cfr. Ordinamento Generale del Messale Romano, I, 16; II, 27) e popolo santo di Dio (cfr. LG). In risposta a questa osservazione possiamo affermare che la posizione del sacerdote “spalle al popolo” o “coram Deo” durante la celebrazione della Messa non vuol essere un atto di scortesia nei confronti della gente adunata, ma vuole indicare il senso della preghiera che si sta vivendo e svolgendo: rivolgersi a Dio e rendere uno spazio sacro l’animo dei fedeli convenuti e anche il mondo e lo spazio. Infatti, la preghiera orientata, ovvero quella preghiera che vedeva tutti i convenuti rivolti verso oriente (o verso la Mecca per i musulmani), era già prassi comune nell’antichità e usata anche dal Giudaismo e all’Islam. Le costituzioni apostoliche già impongono che le chiese siano costruite con il catino absidale rivolto ad oriente per via del fatto che, nella preghiera, era prassi comune rivolgersi verso il punto in cui sorge il sole. Altri Padri come Agostino, Origene e Tertulliano sottolineano come la preghiera cristiana abbia una direzione geografica precisa: l’oriente. Infatti, Cristo è il “sole che sorge” (cfr. Lc 2; Mt 24,27) e che viene a portare la salvezza di Dio. Nel testo del profeta Ezechiele la stessa gloria di Dio entra nel tempio dalla porta orientale (Ez 43,1; 44,1-3; 7,1; Zc 3,8). Con ciò si viene a legare l’oriente alla presenza di Dio nel tempio manifestando che solo Dio nel suo Cristo porta la luce vera all’uomo schiavo del peccato e delle tenebre (il cui simbolismo è l’occidente luogo ove il sole tramonta e vi è l’oscurità). Mediate questa simbologia del “coram Deo” viene posto l’accento non solo sul tempo presente che la liturgia ci invita a vivere come presenza viva ed attuale del mistero della Passione e morte di Nostro Signore che, mediante la sua croce, vivifica ed illumina il mondo, ma anche sul contesto escatologico: il Cristo viene dall’oriente per salvarci e per condurci alla vera luce del Padre, egli è la vera luce che guida i passi dell’umanità verso il paradiso perduto a causa del peccato dei progenitori. Circa l’orientamento della preghiera “coram Deo” scrive san Tommaso d’Aquino:
«È preferibile che noi adoriamo con il viso rivolto ad Oriente: primariamente, per mostrare la maestà di Dio che ci viene manifestata attraverso il movimento del cielo che inizia ad Oriente; secondariamente, perché il Paradiso terrestre si trovava ad Oriente e noi cerchiamo di tornarvi; in terzo luogo, perché Cristo, che è la luce del mondo, è chiamato Oriente dal profeta Zaccaria e perché, secondo Daniele, “è salito al cielo, all’Oriente”; infine, perché è da Oriente che Egli tornerà, come dicono le parole del Vangelo di San Matteo: “Come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo”».
Tutto ciò può andare a sostegno di quanto detto sinora, nella celebrazione “coram Deo” non vi è una mancanza di rispetto verso la gente convenuta alla preghiera, ma un profondo senso simbolico che vuol rendere la presenza di Dio, la sua azione nella storia e l’attesa del Padre celeste nel suo giudizio ultimo alla fine dei tempi. Oltre a ciò vi è sotteso anche il senso mistagogico, tanto voluto dai Padri dell’assise del Concilio Vaticano II stesso. Teologi e liturgisti del movimento liturgico, fedeli al grido “ad fontes” sono andati a recuperare forme e modi antichi di celebrazione (non sempre erano antichi, ma creati ex novo): il famoso “archeologismo liturgico” di vecchie prassi ormai in disuso da secoli condannato dalla Chiesa mediante la condanna del Sinodo di Pistoia, ed in seguito condannato da Pio XI nella lettera enciclica “Mediator Dei“. Questo recupero ha un po’ tralasciato quello che è stato lo sviluppo che ha avuto il linguaggio liturgico nel tempo pensando che la riscoperta dell’antico avrebbe creato un clima di maggiore comprensione della celebrazione liturgica, ma purtroppo non è stato così e Pio XII ha avuto, nella sua enciclica, lo sguardo lungimirante di chi prevedeva ciò che sarebbe accaduto nel tempo a lui successivo. Tornando al senso mistagogico è possibile creare il collegamento tra lo stile celebrativo “coram Deo” e la spazialità della chiesa che, nel suo modo di essere costruita ripropone in senso figurato il cammino della vita di ogni fedele. Ogni uomo che abbraccia la via della fede mediante il battesimo compie la sa rinuncia alle tenebre del peccato (che abbiamo ricordato essere figurato nella posizione del fonte ad occidente, all’esterno della chiesa o vicino alla porta di ingresso), in questo modo, fatto nuova creatura l’uomo può accedere dal portale che è Cristo (cfr. Gv 10,7-9) e rivolgere la sua vita a Cristo – Dio che ha la sua presenza simbolica nella luce dell’occidente e in seguito, quando i tabernacoli presero il posto centrale sull’altare nel presbiterio, anche nella presenza reale dell’Eucaristia. Attraverso questo linguaggio mistagogico si viene ad illuminare il senso del popolo che cammina attraverso quella che è la sua vita terrena verso il Regno di Dio, verso il paradiso. La mistagogia del cammino fatto da ogni cristiano mediante il battesimo ed il suo ministero e grado nella chiesa diventa raffigurazione terrena di quella chiesa militante, popolo in cammino che, abbattendo il peccato nella sua esistenza umana si rivolge a Cristo che viene come luce di salvezza dall’oriente.
Riassumendo il senso dell’altare rivolto ad oriente e della celebrazione “coram Deo” vuol essere:
1. cosmico sacrale: cioè la liturgia non è solo qualcosa di limitato ai convenuti al Sacrificio dell’Altare, ma essa racchiude non solo i partecipanti, ma all’umanità tutta che apre il cuore a Dio e, non rifiutandolo, si lascia condurre al cielo; ingloba anche quello che è il mondo naturale che attende la venuta di Cristo che rivelerà in modo definitivo la salvezza che ha operato mediante il sacrificio della croce (cfr. Rm 8, 22-27).
2. escatologico: la celebrazione “coram Deo” esprime al meglio, così come abbiamo potuto leggere anche nel pensiero dell’Aquinate, il senso di attesa che ogni cristiano deve possedere in cuor suo sapendo che Cristo viene come sole che sorge per portarci con Lui nel paradiso.
3. mistagogico: ci fa fare memoria, ogniqualvolta entriamo in chiesa, di quello che è il cammino della nostra salvezza che, attraverso il battesimo, rinunzia al peccato per mettersi alla luce di Dio mediante la figura del popolo in cammino verso il Regno che è anticipato dal banchetto al Corpo e Sangue di Cristo (riti di comunione della Messa) a noi donati dopo il Sacrificio della Croce avvenuto sull’altare (parte sacrificale della Messa).
Alle due obiezioni iniziali si può provare a rispondere, in modo non esaustivo, affermando che l’altare verso il popolo come “innovazione” è tratta dal pensiero di Lutero così come viene spiegato anche nel Cerimoniale di Wüttemberg. L’eretico di Sassonia aveva in odio il pensare la messa come sacrificio e desiderava renderla più conforme alla cena in modo da eliminare il senso di Messa come memoriale vivo ed attuale del sacrificio di Cristo sulla croce. Studi come quelli di Klaus Gamber o Mons. Laise o altri studiosi dimostrano come ai tempi di Cristo non vi era l’uso di cenare intorno alla tavola come lo conosciamo noi oggi, ma era invalso l’uso di essere tutti sullo stesso lato del tavolo lasciando il lato libero da commensali per il servizio del personale di sala o dei servi. Attraverso un ricorso maggiore a quello che è il motivo conviviale dell’Eucaristia e nel caso del protestantesimo, si ha la caduta del senso del sacrificio, o meglio del convito sacrificale ove senza la morte dell’Agnello Pasquale che è il Signore Gesù, non vi può essere nessun banchetto. La Messa non è commemorazione dell’ultima cena, ma è il Calvario ove con la morte di Cristo ci viene donato il suo Corpo e Sangue come nutrimento di immortalità; Cristo stesso nel giovedì santo, all’ultima cena, anticipa in senso mistico il suo venerdì santo e comanda di continuare a fare in questo modo. In questa concezione non c’è bisogno dello scambio di sguardi tra celebrante e popolo, ma vi deve essere un unico punto di convergenza della mente, del cuore e degli occhi: la croce e questa ancora viva e presente sull’altare, così la celebrazione “coram Deo” centrerebbe meglio l’attenzione ed eviterebbe che l’attenzione cada sul celebrante o sul popolo.
Alla seconda obiezione si può rispondere affermando che il senso dell’oriente liturgico manifesta in modo eminente il senso del popolo in cammino tanto desiderato dal Concilio Vaticano II. Infatti, il popolo con il sacerdote sono rivolti verso un unico punto che è Dio, essi camminano verso il Regno promesso nelle loro esistenza temporali ed attendono il compimento definitivo di ogni tempo nel quale Cristo verrà come giudice dei vivi e dei morti. Proprio in questo camminare verso Dio si manifesta il “doppio sacerdozio”: battesimale e ministeriale-gerarchico che differiscono per grado ed essenza mettendo in piena luce il senso del sacerdozio ministeriale cattolico romano apostolico. Il sacerdote agisce in persona di Cristo e, come mediatore, offre a Dio la vittima pura, santa ed immacolata che è lo stesso Cristo, egli così rinnova il sacrificio di Cristo in modo incruento ogni giorno ad ogni Messa, ma sale all’altare per portare le preghiere del popolo a Dio, per offrire il frutto del sacerdozio battesimale che è l’offerta di una vita santa a Dio Padre (cfr. Rm 12,1-2). Appare evidente quella che è l’unità tra il popolo ed il sacerdote: egli è uno del popolo costituito per offrire a Dio la vittima perfetta mediante la partecipazione all’unico vero sacerdozio di Cristo, ma anche per portare al popolo i doni di Dio ed il prezioso Corpo e Sangue di Cristo che sarà nutrimento di salvezza e farmaco di immortalità. Inoltre si palesa anche l’unità del popolo di Dio al sacerdote perché che attraverso i differenti ministeri, questi può presentare la sua lode a Dio onnipotente e offrire la sua esistenza vissuta in coerenza alle leggi divine. Nel sacerdote coesistono queste due tipologie di sacerdozio, egli è ministro ordinato di Dio e partecipa dell’unica vera mediazione di Cristo sacerdote (cfr. 1Tm 2,5), ed al contempo è rappresentante agli occhi del Padre divino di tutto il popolo mediante il suo essere battezzato.
La celebrazione “coram Deo” manifesta non una distanza tra il sacerdote ed il popolo, ma mette in evidenza il fatto che egli è colui che agisce come ministro ed ambasciatore di Dio perché costituito sacerdote mediante il sacramento dell’Ordine Sacro, colui che è datore delle cose sacre. Ancora, per il fatto che egli è in testa al popolo di Dio, ne diviene portavoce ed guida verso il Regno riassumendo mediante la figura celebrativa il senso della mediazione sacerdotale cristiana che per secoli ha fatto fiorire tante vocazioni e messo in chiaro che il sacerdote non è “l’operatore sociale” o l'”animatore” della comunità cristiana. In conclusione non possiamo fare altro che auspicare che ci sia una riscoperta del linguaggio simbolico e mistagogico delle forme liturgiche che la Chiesa ci ha tramandato come monumento di fede e storia e che si sono condensate nel rito Gregoriano della Messa e non tanto una proposta di un linguaggio nuovo che inventa segni e linguaggi liturgici magari ripescandoli dalla storia antica ma che nel tempo sono decaduti perché già all’epoca poco fruttuosi spiritualmente o con il pericolo potessero creare delle deviazioni nella fede pregata e creduta dagli uomini. 


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