ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 21 luglio 2018

”Accogliamoli tutti”?

MIGRANTI. LA NOTA DELLA CEI, LA LETTERA DEL VESCOVO DI VENTIMIGLIA. LA POLITICA E LA REALTÀ.

Marco Tosatti

 Cari amici e nemici di Stilum Curiae, ieri sono usciti due documenti importanti in tema di migrazioni. Il primo è una nota della Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, il secondo una lettera del vescovo di Ventimiglia-Sanremo, Antonio Suetta. Ci sembra importante pubblicarli entrambi, nel loro testo integrale, sia pure con diverse ore di ritardo. In modo che ciascuno possa formarsi una sua opinione.
Per prima pubblichiamo la nota della Cei. È un documento che gioca, sin dall’inizio sull’emotività, esattamente come fanno, hanno fatto, tutti coloro che in questi anni hanno assecondato, promosso e favorito le migrazioni illegali verso l’Europa e in particolare attraverso il nostro Paese; e che non disdegna il ricorso alla demagogia. L’aspetto affaristico di questo fenomeno è stato, ed è quotidianamente portato alla luce. Temiamo che neanche la Chiesa – secondo quanto da più parti viene affermato – ne sia esente. E questo certamente priva di autorevolezza la nota della CEI. In particolare perché a tutta l’attenzione dedicata a questa categoria di persone non ha fatto riscontro un impegno eguale in altri campi, che mietono, e con responsabilità diretta dei cittadini di questo Paese, decine di migliaia di vittime ogni anno, come ricorda bene Riccardo Cascioli in questo editoriale
E manca, ancora una volta, in questa nota che sembra semplicemente diretta a ostacolare il lavoro di un governo che sta semplicemente cercando di fare quello che un governo serio dovrebbe fare: tagliare i canali di criminalità che alimentano la tratta. Quello che avrebbero dovuto fare i governi verso cui la CEI e il Vaticano hanno mostrato comprensione e simpatia negli ultimi anni. E che invece non hanno fatto, per ragioni tutt’altro che limpide. E sulle quali i vescovi non hanno avuto niente da dire. Troviamo poi straordinario che si parli di “imbarbarimento” a fronte della ricerca di un ritorno alla legalità e la lotta alle mafie dei trafficanti di esseri umani. 
Troviamo invece che sia molto bella, e completa – una vera parola da Pastore, non da politicante – la lettera del vescovo di Ventimiglia-Sanremo. Che, fra l’altro, dà la parola a quelli che ben di rado vengono fatti parlare, (o non vengono tenuti in conto) a livello ecclesiale in Italia, cioè i presuli africani. Che dicono cose ben lontane dall’”accogliamoli tutti” di certi prelati. E ricorda – cosa molto importante – che non è lecito per nessuno appropriarsi del Vangelo usandolo come un lubrificante per far passare qualunque operazione; in particolare in campi in cui è legittimo ai cattolici avere opinioni e dare risposte diverse in termini di bene della società.
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali
 Nota della Presidenza della Cei
Migranti, dalla paura all’accoglienza
 Gli occhi sbarrati e lo sguardo vitreo di chi si vede sottratto in extremis all’abisso che ha inghiottito altre vite umane sono solo l’ultima immagine di una tragedia alla quale non ci è dato di assuefarci.
Ci sentiamo responsabili di questo esercito di poveri, vittime di guerre e fame, di deserti e torture. È la storia sofferta di uomini e donne e bambini che – mentre impedisce di chiudere frontiere e alzare barriere – ci chiede di osare la solidarietà, la giustizia e la pace.
Come Pastori della Chiesa non pretendiamo di offrire soluzioni a buon mercato. Rispetto a quanto accade non intendiamo, però, né volgere lo sguardo altrove, né far nostre parole sprezzanti e atteggiamenti aggressivi. Non possiamo lasciare che inquietudini e paure condizionino le nostre scelte, determino le nostre risposte, alimentino un clima di diffidenza e disprezzo, di rabbia e rifiuto.
Animati dal Vangelo di Gesù Cristo continuiamo a prestare la nostra voce a chi ne è privo. Camminiamo con le nostre comunità cristiane, coinvolgendoci in un’accoglienza diffusa e capace di autentica fraternità. Guardiamo con gratitudine a quanti – accanto e insieme a noi – con la loro disponibilità sono segno di compassione, lungimiranza e coraggio, costruttori di una cultura inclusiva, capace di proteggere, promuovere e integrare.
Avvertiamo in maniera inequivocabile che la via per salvare la nostra stessa umanità dalla volgarità e dall’imbarbarimento passa dall’impegno a custodire la vita. Ogni vita. A partire da quella più esposta, umiliata e calpestata.
 La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana
Roma, 19 luglio 2018

Il Vescovo di Ventimiglia risponde alla lettera sull’immigrazione

Carissimi,
leggendo con attenzione la Vostra lettera, ho ritenuto di dover rispondere alle Vostre riflessioni innanzitutto a partire dall’esperienza della Chiesa di Ventimiglia San Remo, da qualche anno fortemente coinvolta dal fenomeno dell’immigrazione, passando da qui una delle principali rotte dei migranti prevalentemente africani e provenienti dal Sud Italia. Spesso purtroppo siamo stati testimoni di drammi consumati alla frontiera italo-francese, dove molti migranti giungono nel desiderio di oltrepassare il confine presidiato dalla gendarmeria, alcuni scappando da situazioni pericolose, altri per ricongiungersi a familiari, altri alla ricerca di un lavoro, altri ancora per trovare fortuna e migliori condizioni di vita. Su questo confine si sono consumate grandi tragedie umane, per la morte violenta di uomini e donne (anche incinte) rimaste vittime di incidenti nel tentativo di oltrepassare lo sbarramento francese, percorrendo di notte i binari della ferrovia, la galleria dell’autostrada o il “sentiero della morte” sui monti. A questo si aggiunga la proliferazione di situazioni di criminalità e di business, ad opera dei cosiddetti “passeurs”.
Questa esperienza, unita all’ascolto dei tanti immigrati che ho potuto incontrare nelle varie strutture che la nostra Chiesa mette a disposizione, con il coinvolgimento di tanti volontari e la generosità di tanti fedeli, mi consente di fare alcune riflessioni in merito alla Vostra lettera.
Rifiutare, maltrattare, sfruttare quanti si trovano in queste condizioni è intollerabile, come anche il negare l’assistenza e le cure necessarie per la sopravvivenza è contrario all’insegnamento del Vangelo e al rispetto di ogni diritto umano fondamentale.
Mi sono chiesto più volte: quale può essere il ruolo profetico della Chiesa in questa situazione? Certamente, abbiamo dato, e continuiamo a farlo, pasti caldi, riparo e supporti vari (mediazione, orientamento, soprattutto umanità) a chi versa in condizioni di difficoltà e ha bisogno del necessario per vivere. Ma può bastare questo per risolvere un problema di proporzioni sempre più gravi?
La Chiesa guarda al bene integrale dell’uomo e di tutti gli uomini, tenendo conto che la sua azione propria è di natura religiosa e morale, altrimenti non ci sarebbe nessuna differenza con una qualsiasi delle ONG che si attivano per il trasporto dei migranti nel Mediterraneo. La Chiesa è nata per perpetuare la presenza e l’azione di Gesù Cristo Salvatore, essa parla alle coscienze e al cuore di ogni uomo, traducendo e incarnando il suo annuncio in azioni concrete. Rispetto ai problemi contingenti, come ricordava San Giovanni Paolo II, intervenendo in un Simposio sulla Dottrina Sociale della Chiesa nel 1982: «la Chiesa non ha competenze dirette per proporre soluzioni tecniche di natura economico-politica; tuttavia, essa invita a una revisione costante di qualsiasi sistema, secondo il criterio della dignità della persona umana». La Chiesa, cioè, quanto al suo magistero, agisce non in nome di una competenza tecnica, ma attraverso una seria riflessione cristiana che illumina i temi della realtà sociale.
Di fronte a situazioni complesse di carattere politico e sociale, spesso i fedeli, individualmente o in gruppi particolari, possono assumere legittime e diversificate iniziative, trovando sempre però nel Vangelo e nell’insegnamento sociale della Chiesa i principi ispiratori delle loro azioni e delle loro scelte politiche. Le scelte e i progetti dei singoli o dei gruppi di ispirazione cristiana possono divergere, pur agendo da cristiani, senza per questo pretendere di agire a nome della Chiesa o di imporre un’interpretazione esclusiva e autentica del Vangelo. La Gaudium et spes, al n. 43, ha espresso questo principio in modo inequivoco: «Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, ciò che succede abbastanza spesso legittimamente. Ché se le soluzioni proposte da un lato o dall’altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che a nessuno è lecito rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa».
In un contesto complesso e pluralista, compito della Chiesa è indicare principi morali perché le comunità cristiane possano svolgere il loro ruolo di mediatrici nella ricerca di soluzioni concrete adeguate alle realtà locali. Lo ha mirabilmente espresso il Beato Paolo VI al n. 4 di Octogesima adveniens: «Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra missione. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell’insegnamento sociale della Chiesa, quale è stato elaborato nel corso della storia, e particolarmente in questa era industriale».
Tali precisazioni sono importanti per giungere al cuore della mia riflessione, che ruota attorno alla seguente affermazione: l’esperienza dell’emigrazione è dolorosa per ogni uomo; soffre chi è costretto a lasciare la famiglia, la casa, la terra, abbandonando affetti, costumi, lingua, cultura e tradizioni che compongono la propria identità; soffre la famiglia privata di un suo componente e smembrata; soffre la terra depauperata spesso delle sue risorse migliori. A ciò si affiancano le difficoltà dei popoli occidentali nel realizzare una difficile integrazione, spesso preoccupati – non sempre senza ragione – di preservare la loro sicurezza e la loro identità culturale e religiosa.
Le lacrime dei tanti giovani immigrati che ho incontrato in questi anni danno ragione della complessità della vicenda.
Comprendo in questo senso le parole di San Giovanni Paolo II, tratte dal Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni del 1998: “il diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione”. Un principio di giustizia sociale ribadito anche da Benedetto XVI che, nel Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 2013, ha affermato il “diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra”. Interpretando l’esperienza e la coscienza di tanti profughi, spesso vittime di sogni e illusioni, ha commentato: “Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare diventa allora un «calvario» per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda migratoria”.
Per questa ragione, oggi, mentre affermiamo con Papa Francesco il dovere dell’accoglienza di chi bussa alla nostra porta in condizioni di grave emergenza, occorre anche impegnarsi, forse più di quanto non sia stato fatto, per garantire ai popoli la possibilità di “non emigrare”, di vivere nella propria terra e di offrire là dove si è nati il proprio contributo al miglioramento sociale. La separazione e lo smembramento delle famiglie dovuto all’emigrazione rappresenta un grave problema per il tessuto sociale, morale e umano dei Paesi d’origine. L’emigrazione dei giovani rappresenta un grande depauperamento per l’Africa. Spesso, inoltre, a emigrare sono i giovani istruiti, nell’illusorio sogno del benessere europeo a portata di mano. Nell’impegno per l’accoglienza, si finisce spesso per trascurare quanti restano in quei Paesi, che spesso sono veramente i più poveri, anche culturalmente.
Fermo restando il diritto per ogni uomo di cercare fortuna fuori dalla propria terra di origine, come anche il dovere di accoglienza per i Paesi più ricchi del mondo, occorre tuttavia tener conto del fatto che gli uomini, le donne e i bambini oggi coinvolti nel fenomeno delle migrazioni sono – a mio parere – tre volte vittime.
Innanzitutto sono vittime di ingiustizie, di miserie, e spesso anche di guerra, che li costringono a partire dai loro Paesi d’origine. Come possiamo tacere che tali situazioni, direttamente o indirettamente, sono frutto di politiche coloniali antiche e nuove? Il primo dovere di carità umana allora ci impone di aiutare questi popoli laddove vivono, richiamando l’attenzione e l’impegno di tutti sulla rimozione di queste ingiustizie e quindi anche delle cause che li spingono all’emigrazione.
Desidero richiamare in proposito l’appello che le Chiese africane hanno rivolto in più occasioni ai loro figli più giovani: “Non fatevi ingannare dall’illusione di lasciare i vostri paesi alla ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America” ha detto Mons. Nicolas Djomo, Presidente della Conferenza Episcopale del Congo, all’incontro panafricano dei giovani cattolici del 2015, invitandoli a guardarsi dagli “inganni delle nuove forme di distruzione della cultura di vita, dei valori morali e spirituali”, perché non si può pensare che gli uomini siano come merci che si possono sradicare e trapiantare ovunque, se non perseguendo un’idea nichilista che vorrebbe appiattire le culture e le identità dei popoli. “Voi siete il tesoro dell’Africa; – ha aggiunto Djomo – la Chiesa conta su di voi, il vostro continente ha bisogno di voi”.
Ancora più recentemente, dal Senegal alla Nigeria, i Vescovi hanno avuto reazioni indignate di fronte ad alcuni filmati che mostrano come vengono trattati alcuni migranti prima di essere venduti in Libia come schiavi, per poi finire a fare i profughi in mare aperto. “Non abbiamo il diritto di lasciare che esistano canali di emigrazione illegale quando sappiamo benissimo come funzionano, tutto questo deve finire” dice dal Senegal Monsignor Benjamin Ndiaye, Arcivescovo di Dakar, che argomenta per assurdo: “meglio restare poveri nel proprio Paese piuttosto che finire torturati nel tentare l’avventura dell’emigrazione”. A lui hanno fatto eco più recentemente in Nigeria Mons. Joseph Bagobiri della Diocesi di Kafachan e Mons. Jilius Adelakan, Vescovo di Oyo. I Pastori riconoscono che la Nigeria è un Paese ricco di tante risorse, ma le associazioni malavitose, che hanno contatti anche nei vari Paesi europei, e anche in Italia, incoraggiano di fatto la tratta di esseri umani, alimentando illusioni e false speranze, per un loro tornaconto.
In secondo luogo, oltre che vittime di ingiustizie laddove vivono, i migranti sono spesso vittime di rifiuto e di sfruttamento nei Paesi a cui approdano. Sono anche vittime di condizioni strutturali che, al di là della buona volontà di chi accoglie, non consentono sempre di dare loro quella fortuna che cercano. Come possiamo dimenticare le difficoltà di lavoro che incontrano molti dei nostri giovani, essi pure costretti ad andare a cercare altrove la prospettiva di un futuro?
In questo ambito si deve considerare il difficile tema dell’immigrazione islamica, che pone un grave problema di integrazione con la nostra cultura occidentale e cristiana. Faccio riferimento a dati obiettivi, fonte spesso di problemi non indifferenti, posti dalla difficile conciliazione di concezioni assai diverse del diritto di famiglia, del ruolo della donna, del rapporto tra religione e politica. Il tema è stato ben argomentato a suo tempo dal compianto Card. Giacomo Biffi e molti sono i richiami in tal senso provenienti in questi anni dai Vescovi che in Medio Oriente vivono quotidianamente queste difficoltà, come ad esempio, il Vescovo egiziano copto di Alessandria, Mons. Anba Ermia. Queste difficoltà sono ben note anche in alcuni Paesi europei, come la Francia, dove l’integrazione è ancora di là da venire, come ci dimostrano le tristi cronache di questi anni. Tuttavia mi preme precisare, come anche Papa Francesco ha affermato più volte, che i fatti gravi di tipo sovversivo e terroristico non sono fondamentalmente espressione di una guerra di religione, essendo più variegate e complesse le motivazioni. Grandi passi sono stati fatti sul piano del dialogo interreligioso. Per tornare al nostro tema, le difficoltà di integrazione le vediamo anche nelle realtà più piccole dei nostri centri, dove assistiamo alla creazione di veri e propri “quartieri islamici”, che, con gravi tensioni tentano di impiantare le loro regole e le loro tradizioni.
Anche Papa Francesco ha sempre riconosciuto che la politica dell’accoglienza deve coniugarsi con la difficile opera dell’integrazione “che non lasci ai margini chi arriva sul nostro territorio” e proprio pochi giorni fa ha precisato che l’accoglienza va fatta compatibilmente con la possibilità di integrare. L’esperienza di questi anni ci ha dimostrato che gli immigrati spesso restano ai margini delle nostre società, in veri e propri ghetti, in cui parlano la loro lingua e introducono i loro costumi, come in comunità parallele, talvolta in contesti di degrado. Per non tacere del grave fenomeno degli immigrati che finiscono in mano alla malavita o agli sfruttatori del piacere sessuale.
In terzo luogo, i migranti, già vittime di ingiustizie nei loro Paesi d’origine, costretti a subire sfruttamento e gravi difficoltà nei Paesi di arrivo, soprattutto quando scoprono che non ci sono le condizioni di fortuna sperate, sono vittime insieme alle popolazioni occidentali di “piani orchestrati e preparati da lungo tempo da parte dei poteri internazionali per cambiare radicalmente l’identità cristiana e nazionale dei popoli europei”, come recentemente ha ricordato Mons. A. Schneider. Senza ossessioni di complotti, ma anche senza irresponsabili ingenuità, non possiamo nascondere che siano in atto tanti progetti e tentativi volti ad annullare le identità dei popoli, perché ciascun uomo sia più solo e debole, sganciato dai riferimenti culturali di una comunità in cui possa identificarsi fino in fondo: lo possiamo costatare dalla produzione legislativa europea sempre più lontana e avversa alle radici della nostra civiltà. Se da una parte possiamo concordare che oggi non vi sia una vera e propria guerra tra le religioni, dobbiamo però riconoscere che è in atto una “guerra” contro le religioni, ogni religione, e contro il riferimento a Dio nella vita dell’uomo. Spesso, giunti in Europa, i migranti sentono anche il peso e la fatica di una visione di vita e di uno stile non appartenenti alla loro storia e identità, siano essi cristiani, islamici o di altra fede religiosa.
Come Vescovo, sento forte la responsabilità di custodire il gregge che mi è stato affidato e di custodire la continuità dell’opera della Chiesa nel nostro problematico contesto sociale, presidio e baluardo di autentica promozione umana. Personalmente, sono convinto che il futuro dell’Europa non possa e non debba rischiare verso una sostituzione etnica, involontaria o meno che sia.
Tutte queste ragioni, che in breve ho cercato di enucleare, danno ragione di quanto è affermato nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che al n. 2241, compendia la saggezza, la prudenza e la lungimiranza della Chiesa:
“Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, nella misura del possibile, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto naturale, che pone l’ospite sotto la protezione di coloro che lo accolgono. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti del paese che li accoglie. L’immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri.”
A questi principi di buon senso e sapienza cristiana suggerisco di conformare l’agire sociale, illuminati dal Magistero della Chiesa, del Papa e dei vostri Vescovi.
Consegno questo messaggio con la più ampia libertà del cuore, non avendo da difendere posizioni di privilegio, strutture o posizioni politiche, ma guardando alla complessità del fenomeno in gioco, e alla varietà degli elementi di cui occorre tener conto affinché in questa impegnativa congiuntura, come sempre, il Vangelo di Gesù Cristo sia la bussola che orienta il cammino della Chiesa e degli uomini di buona volontà per il bene integrale del singolo e dell’umanità intera.
+ Antonio Suetta

Vescovo di Ventimiglia – San Remo

http://www.marcotosatti.com/2018/07/20/migranti-la-nota-della-cei-la-lettera-del-vescovo-di-ventimiglia-la-politica-e-la-realta/

Il parroco che aiuta gli africani: "Così non devono più emigrare"

Le parole di don Dante Carraro, 60 anni, direttore del Cuamm: con lo sviluppo dell'Africa "si rallenta la spinta migratoria perché dai una prospettiva di futuro"


Papa Raztinger lo chiama il diritto a non emigrare.
E nonostante le tante polemiche sorte tra la Cei e il governo italiano su accoglienza e immigrazione, ci sono realtà missionarie della Chiesa che fanno proprio questo: aiutano i Paesi africani crescere. Tra loro c'è Don Dante Carraro, 60 anni, direttore del Cuamm, medici con l'Africa. Di Stati nel continente nero ne ha visitati molti e "sono Paesi particolarmente fragili. Hanno bisogno di interventi su scuola e sanità, sanità e scuola. Noi cerchiamo di dare le risposte ai bisogni essenziali della vita".
È per questo che la sua intervista al Resto del Carlino, intiolata "Io li aiuto a crescere, così evitano di emigrare", spiega l'importanza delle missioni in Africa. "La gente vi chiede di essere aiutata a restare", chiede la cronista. E don Dante rispode: "Penso a John, il nostro autista. Quando dieci anni fa abbiamo cominciato a lavorare in Sud Sudan gli ho chiesto, qual è il tuo sogno? E lui mi ha risposto subito, l'Europa". Ma poi non è partito. "È rimasto - spiega il parroco - Tempo fa, mi ha confidato, la situazione è sempre brutta. Ma i Comboniani hanno aperto le scuole, voi avete sistemato gli ospedali. Ora sono orgoglioso di fare la mia parte qui. Ecco, mi pare il simbolo dell' impegno di tanti. Un contributo nascosto ma concreto alle domande di questi giorni".
Oltre le tante missioni già realizzate, ora il Cuamm è anche in Repubblica Centrafricana, dove il Papa "si è impegnato ad aiutare l' unico ospedale pediatrico della capitale". E poi ci sono i "sei ospedali in Sierra Leone, il terzo grande Paese dove stiamo lavorando molto" e tante altre relatà. L'obiettivo? "Aiutare a far crescere questi popoli, far laureare medici, formare infermieri, ostetriche... Investire sulle loro capacità". Per impedire, magari, che siano costretti a lasciare la loro terra. Perché creare sviluppo, spiega don Dante "si rallenta la spinta migratoria perché dai una prospettiva di futuro". La gente infatti non scappa per divertimento, ma "dobbiamo essere tutti convinti che aiutando questi Paesi si può dare un contributo ai temi che in questi giorni ci tormentano l'anima e il cuore".
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/parroco-che-aiuta-africani-cos-non-devono-pi-emigrare-1555973.html
IMMIGRAZIONE IN ITALIA
«Io, falsa rifugiata, denuncio il business di trafficanti e coop»

Pagò 5.500 euro un'agenzia russa per ottenere lo status di rifugiata. Elis Gonn racconta alla NuovaBQ: «Inventarono falsità sulla mia vita, mi presentarono come lesbica perseguitata. La commissione italiana ascoltava le storie degli immigrati e dava permessi senza verifiche. Nei centri di accoglienza ricevevamo una miseria al mese in abbonamenti. La gente parla di carità e atti umanitatri ma se nessuno denuncia è solo per paura dei trafficanti»


Piange Elis Gonn mentre ci mostra il suo permesso di soggiorno ottenuto grazie ad un sistema che si beve le menzogne come se ne avesse bisogno per sopravvivere. E piange perché se anche ora è in Italia, dove voleva vivere, è passata «nell’inferno dello sfruttamento dei trafficanti e nella "mafia" dei centri di accoglienza». Soprattutto, però, piange perché in Italia ha riscoperto la fede in Dio ed è «amaramente pentita delle bugie dette, del sistema che sta distruggendo l'Italia che ho contribuito ad alimentare e della mia vita passata. Voglio quindi parlare anche se dovessero farmela pagare cara».

Tutto comincia un anno e mezzo fa, quando Gonn, giovane cittadina russa decide di voler crescere la figlia in Italia. «Prima - spiega la donna - ho cercato attraverso siti italiani un lavoro, poi ho contattato agenzie interinali del vostro paese, ma mi hanno detto che senza laurea era quasi impossibile trovare lavoro». Ma Gonn è determinata, «ho cercato su Google un'agenzia interinale in Russia che mi aiutasse a trovare lavoro in Italia. Una di queste mi rispose che sarebbe stato difficile, ma che per 1.500 euro potevano farmi un visto di lavoro polacco per poi trovare un lavoro in nero in Italia. Dissi di sì e compilai un questionario dove bisognava indicare, ad esempio, l'altezza e il peso». Da qui l’agenzia scopre che la donna ha una figlia e ferma il procedimento burocratico. «Chiesi se non c’era un'altra opzione e mi parlarono dello status di rifugiato che costava 5.500 euro». Per convincerla a sborsare la cifra l’agenzia le promette un miraggio: «Ti garantiamo che la richiesta sarà accettata, lo Stato ti darà tutto, vitto, alloggio, soldi e tra 5 anni avrai la cittadinanza. Avevo qualche dubbio; ero cattolica, anche se non praticante, e non mi sembrava molto morale. Ma l’uomo dell’agenzia mi tranquillizzò sostenendo che anche Abramo aveva mentito, dicendo che sua moglie era sua sorella, quando era in un paese straniero. Sapeva parlare bene. Alla fine ho detto di sì».

La donna diede un anticipo di 500 euro e la restante parte «quando mi “allenarono” ad affrontare la commissione italiana per i richiedenti asilo, dandomi dei contatti di un avvocato Italiano che poi si rivelò un fantasma. Le bugie furono tante, come quella che non sarei stata messa insieme agli africani». Per affrontare la commissione preposta al rilascio dello status di rifugiato l’agenzia interrogò Gonn cercando dei punti su cui far leva. «L'uomo dell'agenzia mi chiese di che religione ero: cattolica, “non va bene”, rispose. Di che nazionalità: russa, “non va bene”. Orientamento? Lesbica. Ah perfetto!». La donna subì violenze da bambina «ma non ho avuto fastidi da nessuno a causa delle mie relazioni con le donne, c'era chi mi trattava male per altre ragioni: ad esempio, una vicina mi odiava semplicemente perché secondo lei facevo troppo rumore».

Ma cosa fece l’agenzia? «Prese tutti questi episodi e li modificò per fare di me una perseguitata in quanto lesbica. Alcuni episodi li inventò lui dal nulla. Ad esempio, scrisse che ero stata picchiata in un parco perché baciavo una ragazza e mi disse di guardare su Google sia quel parco sia il posto di polizia dove secondo la storia ero stata portata, così da poter descrivere la scena e rispondere a tutte le domande. Pagando altri soldi ottenni un certificato del pronto soccorso (avevano un "collaboratore" lì). Mi chiese poi di fare una foto con una prostituta: non servì e la cancellai dopo la mia conversione. Mi disse poi di scrivere sulla mia porta insulti come "lesbica disgustosa” e di fotografare: ma mia nonna si ribellò. L'uomo mi fece memorizzare la storia che avrei dovuto ripetere davanti alla Commissione italiana che poi mi ascoltò per circa due ore (gli africani vengono ascoltati circa 15 minuti)». Le storie «generalmente vengono accettate senza verifiche». 

Il 24 aprile 2017 Gonn atterra all'aeroporto di Roma, dove fa la domanda per ottenere lo status e da lì viene portata presso la Croce Rossa di via Ramazzini a Roma, dove rimarrà fino a settembre. «Era vivere come in un campo rom, quando qualcuno veniva a controllare si faceva pulizia e si fingeva che fosse un posto decente. Non so quanti soldi prenda la Croce Rossa per ogni ospite, ma agli ospiti dà solo 70 euro al mese in ricariche telefoniche Lyca, che gli africani spacciano alla stazione per aver dei soldi in tasca». A lavorare come volontarie «venivano delle ragazze ideologicamente molto motivate (legate ai centri sociali) e per questo volenterose ma sottopagate». I centri, in maggioranza occupati da africane «sono delle zone a sé con le loro leggi tribali: la spazzatura, gli africani la buttano per terra, o dalla finestra, così che alla fine la Croce Rossa rimosse i cestini perché tanto non servivano». La maggioranza degli ospiti, spiega Gonn «sono stati forzatamente sradicati dalla loro terra: gli manca la terra natia, la famiglia, tutto. Ma non vogliono neanche tornare, perché hanno bruciato i ponti. Gran parte di loro sperano di scappare in Germania o in Austria e alcuni ci provano, ma vengono catturati e riportati indietro, perché non hanno il diritto di lasciare il paese di primo approdo».

Nelle tendopoli dove stanno gli immigrati «si moriva di caldo o di freddo, a seconda della stagione. A cucinare era una comunità di tossicodipendenti. Molti si indignano perché i migranti si lamentano del cibo, ma assicuro che se lo assaggiassero cambierebbero idea: di commestibile c'era ogni giorno solo la pasta, con qualcosa che assomigliava al sugo. L’aspetto scandaloso non è che il cibo che danno gratis ai migranti è immangiabile, ci mancherebbe, ma che i centri di accoglienza ricevano una somma considerevole dal governo per fornire questo cibo. Dove vanno questi soldi mi chiedo?» La donna ricorda anche lo scoppio di un incendio di cui la stampa non si curò, sebbene «nessun sistema di allarme fosse attivo...non ci fu alcun intervento per riparare i danni, la tendenza è a non spendere, basti pensare che nel nostro centro c'era una lavatrice probabilmente regalata da qualcuno, ma non funzionava per la semplice ragione che la Croce Rossa non ha ritenuto necessario comprare la prolunga».

Certo Gonn ricorda di aver sempre ricevuto sapone e oggetti per l’igiene, «ma praticamente tutto quello che avevamo veniva dalle donazioni private. Nessuno smartphone veniva comprato ai migranti (è una delle tante bufale che girano), anche se quasi tutti ne compravano uno per conto proprio con soldi di dubbia provenienza». Gonn non vuole accusare qualcuno di furto, non avendone le prove, ma porre delle domande. «Non posso dire con esattezza quanti soldi al mese riceve la Croce Rossa per ogni ospite, se i famosi 35 euro al giorno di cui parlano tutti. Posso però dire con esattezza quanti ne ricevevano i migranti: 70 euro al mese a testa, che non venivano mai dati in contanti, ma in ricariche e abbonamenti». La donna, dopo ripetute richieste di lasciare il programma immigrati per mantenersi da sola e per cercarsi una casa in affitto, viene spostata in una cooperativa vicina a Capena dove viene messa a vivere con una nigeriana: «Alcuni centri di accoglienza vogliono far credere che non si ha il diritto di lasciare il centro, anche se non è vero».

La cooperativa prima le mentì dicendo che «dovevo per legge vivere in una struttura, altrimenti mi avrebbero rifiutato il permesso (nessuna legge dice questo). Poi ho cercato di scappare con un taxi, ma loro sono venuti a cercarmi con la macchina e mi hanno portata indietro. Sono riuscita a fuggire con la bimba al terzo tentativo. La cooperativa si è arrabbiata molto e ha cercato di mettermi nei guai, dicendo alla prefettura che ero una pazza pericolosa, ma non ci fu nessun seguito, perché una lesbica è intoccabile. Alla fine ho ricevuto lo status di rifugiata vivendo già con la bambina in una casa in affitto». Avevo già da molti mesi ricominciato ad andare a messa e con il tempo capii che in Italia e non in Russia i diritti umani sono gravemente violati».

Gonn oggi vuole parlare «in nome dell'Italia, della Russia e della giustizia. Voglio smascherare me stessa per smascherare questo business immondo. So che ci saranno gravi conseguenze per me, ma sono pronta a tutto pur di essere coerente con la verità che ho abbracciato». Si capisce perché da anni i vescovi africani gridano di chiudere le porte dell'Europa, di non favorire il traffico umano, di non illudere la loro gente, di favorire lo sviluppo in casa. Ma che vantaggio ne avremmo quando è possibile coprire ogni ingiustizia con l'ideologia della carità teorica e dell'antirazzismo alimentando un mercato proficuo? Forse chi usa questo gergo buonista dai suoi salotti radical chic dovrebbe farsi qualche domanda come Gonn. Ma si sa, sarebbe troppo scomodo anche questo.

Benedetta Frigerio
http://www.lanuovabq.it/it/io-falsa-rifugiata-denuncio-il-business-di-trafficanti-e-coop

Quanto è potente la mafia nigeriana in Italia (e come fa soldi)


Traffico di sostanze stupefacenti, tratta degli esseri umani, sfruttamento della prostituzione​. Sono le attività principali dei gruppi criminali nigeriani e del centro Africa presenti in Italia
Traffico di sostanze stupefacenti, tratta degli esseri umani, sfruttamento della prostituzione. Sono le attività principali dei gruppi criminali nigeriani e del centro Africa presenti in Italia, gruppi che – secondo l’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia – continuano a “distinguersi per le modalità particolarmente aggressive” con le quali portano avanti i propri affari.
Il loro radicamento in Italia è emerso nel corso di diverse inchieste, che hanno confermato “la natura mafiosa” della consorteria, ribadita da diverse sentenze. Il gruppo più forte e pericoloso resta il “Black Axe”, “il cui vincolo associativo – sottolineano gli analisti della Dia – viene esaltato da una forte componente mistico-religiosa”: nato a Benin City negli anni ’70, da noi risulta attivo per lo più a Torino, Novara, Alessandria, Verona, Bologna, Roma, Napoli e Palermo.
L’ammissione all’organizzazione è subordinata a un rito di affiliazione, cui segue l’assunzione di ruoli ben definiti: il potere di azione degli appartenenti non si limita all’Italia ma può arrivare anche in Nigeria, grazie ai forti contatti con l’organizzazione “madre”.
Caratteristica del gruppo,è’ la “struttura reticolare distribuita su tutto il mondo”: gli stupefacenti, stoccati nei laboratori dei Paesi centroafricani, raggiungono l’Italia attraverso varie direttrici, sia per via aerea che marittima o terrestre. Con questa rotta, i narcotrafficanti sfruttano, di fatto, i canali già utilizzati in passato per il contrabbando di armi, avorio e pietre preziose.
Altrettanto “articolate” e connotate da “particolare violenza” sono la gestione della tratta di persone e la prostituzione: recenti inchieste hanno documentato, ad esempio, come giovani donne, anche minorenni – attirate con la falsa promessa di un lavoro in Europa – vengano concentrate in Libia, sottoposte a violenze e stupri e fatte partire per le nostre coste.
Spesso per vincolarle al pagamento del debito contratto per il viaggio sono sottoposte a riti voodoo, con minacce di morte per chi tenta di affrancarsi e le rispettive famiglie. Gruppi nigeriani sono risultati attivi anche nel trasporto verso il nord Europa – via Ventimiglia – di profughi e clandestini provenienti dalla Siria, dall’Egitto, dal Sudan e dall’Eritrea: in Sicilia, Calabria e Campania in genere, come gli altri gruppi di matrice etnica, operano tendenzialmente con il beneplacito delle mafie storiche mentre in altre zone dimostrano una maggiore autonomia che sfocia anche in forme di collaborazione quasi alla ‘pari’. Forte resta la capacita’ di interagire con le organizzazioni di riferimento nei Paesi d’origine e con cartelli multinazionali, dei quali rappresentano, nella maggior parte dei casi, “delle cellule operative distaccate, funzionali alla realizzazione degli illeciti”.

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