Mentre a Pompei sfilavano davanti al Santuario della Madonna, a Padova lambivano il sagrato della Basilica di Sant’Antonio, nel mese a Lui dedicato.
Sabato 30 giugno le vie del centro sono state invase dal PadovaPride #maipiusenza, un’orda di personaggi assortiti smaniosi di esibirsi sotto gli occhi di grandi e piccini, di volenti e di nolenti, come portatori felici di gusti sessuali alternativi e delle relative, edificanti pratiche.
Devono strillarcelo in faccia, pornograficamente, quanto sono fieri di essere ossessionati dal sesso, obbligatoriamente polimorfo e preferibilmente contro natura (che sia contro natura è un dato oggettivo, non un’opinione personale): che è poi il loro orizzonte esclusivo. Un po’ limitato, come orizzonte, ma quando si tratta di esorcizzare un plateale disagio esistenziale, si sa, si tende alla monomanìa compulsiva. E lo sguardo non riesce ad elevarsi al di sopra della vita (intesa come punto-vita) e tutto ruota attorno ai bisogni primari.
Le immagini parlano da sole del degrado raggiunto e non richiedono davvero molti commenti. Lo schifo è lo schifo, in senso organolettico.
L’insidia della sudditanza al pensiero capovolto
Eppure nella gente normale, quella che di fronte a spettacoli osceni avverte ancora d’istinto lo sfregio alla propria sensibilità e al pubblico decoro, si è talmente insinuata la paura strisciante di esprimere un sano disgusto verso l’ostentazione di un fenomeno deviato – con relativo oltraggio al senso del pudore, alla decenza, alla ragione, alla morale – da derubricarne il disvalore al rango di “carnevalata” e da sentirsi in dovere, per apparire ragionevole e aperta al nuovo che avanza, di mitigare il proprio dissenso con le tipiche formule “precauzionali”, divenuti mantra contagiosi, quali (ne citiamo alcuni tra i più ricorrenti): tutti hanno diritto di amarsi, ma…; bisogna combattere le discriminazioni, però…; non sono omofobo, tuttavia…; nessuno è contro nessuno, ci mancherebbe altro…
Senza capire che questi ritornelli irenisti sono il modo migliore per portare acqua al mulino di chi vuole capovolgere nella testa di tutti la realtà delle cose, perché implicano la tacita premessa per cui omosessualità e dintorni rappresentano un valore in sé, meritevole non solo di considerazione sulla scena pubblica, ma anche di tutela giuridica specifica e addirittura privilegiata al punto da travolgere le libertà fondamentali (a partire dalla libertà di pensiero e di manifestazione del pensiero) e da scardinare le strutture portanti della società a partire dalla famiglia (che, per la cronaca, è un dato ontologico e non una realtà convenzionale).
E intanto – succubi della prepotenza di pochi (ma lautamente foraggiati) – ci si abitua all’idea balzana che dei tizi debbano essere elevati a categoria protetta in virtù dei propri gusti sessuali e delle proprie abitudini erotiche; e che la trasgressione possa essere fatta oggetto, impunemente, di promozione sociale, tanto da essere mostrata a scopo “educativo” anche ai bambini, e insegnata a scuola, così che i piccoli familiarizzino precocemente con l’antiragione e ci assicurino un luminoso futuro di psicosi collettiva.
Ci convinceremo così tutti quanti, un po’ alla volta, che è necessario inchinarsi rassegnati al bello dell’anomalia, al bello della depravazione, al bello della blasfemia. Perché i tempi sono cambiati e, con i tempi, ci vogliono far credere che siano cambiati anche i fondamentali.
Passerella degli amministratori padovani
È un’intima frustrazione, invece, quella che chiede di essere compensata attraverso un rito orgiastico celebrato nella pubblica piazza.
La cosa bella è che questa frustrazione viene paternalisticamente assecondata e oculatamente cavalcata dal culturame clerical-chic e dai politicanti (frustrati tanto quanto) di una fu-sinistra ormai rinsecchita nell’asfittico rivolo radicaloide.
Sotto la falsa bandiera dei falsi diritti, dell’inclusione sociale, dell’accoglienza, a patrocinare la sfilata patavina erano infatti schierati in prima fila il sindaco Giordani, il vicesindaco Lorenzoni, gli assessori della giunta cittadina ripresi festanti con la Basilica di Santa Giustina alle spalle, luogo sacro intitolato a una martire cristiana dove riposano le spoglie mortali di San Luca evangelista (una coincidenza?); in grande evidenza, sorridentissima, la cattolicissima assessoressa alla pace Benciolini, figura istituzionale di cui la città sentiva molto il bisogno, in compagnia della sua omologa alle politiche di genere e alle pari opportunità di tutt*: uomini e donne, animali e animalesse, cose e cosi.
Quest’ultim* ha tenuto dal palco, a nome di tutta l’amministrazione comunale, il discorso conclusivo ufficiale della manifestazione. Una performance di alta oratoria giuridica e politica, la sua, e di notevole profondità speculativa (il testo del discorso è trascritto per intero nell’articolo sottostante): espressione del pregnante orizzonte culturale dei rappresentanti di una città che vanta – questo è vero, ahimé – una delle più antiche e prestigiose Università del mondo.
Ebbene, questi/e signori e signore, non avendo più alcuno spicchio di società fertile da rappresentare, possono solo inseguire gli zombie. È la loro ultima spiaggia quell’umanità perduta, sterile, che dietro l’allegria artificiale di musiche e colori copre stordimento e alienazione mentale.
Un gruppetto di politicanti allo sbaraglio si è appropriato, fuori tempo storico massimo, della sua fettina di potere e degli strapuntini connessi, e ci si tiene aggrappato con le unghie e con i denti, privo com’è di ogni altro ingrediente politicamente e amministrativamente rilevante che non sia l’armamentario ideologico tipico dei benestanti parassiti e oggi assestato al crocevia tra omosessualismo e immigrazionismo o, visto da rovescio, tra antifascismo e antirazzismo. Repertorio rancido mandato a memoria dalle belle persone, anzi bellissime, molto ecumeniche, molto eque e solidali, molto libere e molto uguali.
Del resto ci sta, se pensiamo che il brodo di coltura della Coalizione Civica che compone la giunta patavina è quello navigato dai soggetti (come la Fondazione Fontana, in rete con associazioni, movimenti, ONG, impegnati nelle attività di educazione, informazione e cooperazione internazionale) votati a perseguire gli “obiettivi del millennio” dell’ONU, tra cui – guarda un po’… – uguaglianza di genere, salute riproduttiva, pianificazione famigliare. In una parola, depopolazione (in merito alla quale l’aumento della omosessualità, come sappiamo, non è certo irrilevante). Tutti temi rilanciati dal portale di informazione Unimondo (un nome, un programma) e compresi nel piano globale di Agenda 21, che è l’operazione su scala mondiale apparecchiata dall’ONU per realizzare obiettivi fondamentali come: la frantumazione del tessuto sociale, la demolizione delle identità e delle appartenenze, il decremento demografico.
Siamo in piena promozione della necrocultura, e la necrocultura comanda perentoria: fate meno figli e, se proprio li volete fare, fateli in provetta sotto stretto controllo delle multinazionali del farmaco che vegliano su di voi. Va da sé che le unioni monosessuali, infeconde per definizione, siano il cliente ideale della filiera.
Ecco il perché di tanta simpatia.
Il pride come nuova arena politica. Il problema della salute pubblica
La politicizzazione dei pride e dintorni, in Italia, è oggi più che mai esasperata: è Salvini la bestia nera, l’antagonista per antonomasia, il principale bersaglio dei frequentatori dei cortei arcobaleno. Che poi sono gli stessi habituée di dark room e sling room, di glory hole, di cruising bar e ambientini conformi. Perché va ricordato: dietro la truffa delle omofamigliole – quelle assemblate con la colla artificiale degli uteri affittati e del mercimonio di gameti, per soddisfare la voglia di trastulli sottoforma di bambino (ai quali bambini forse un giorno andrà spiegato come sono venuti al mondo, e soprattutto da chi) – ci stanno la vera faccia e la vera ragione sociale dell’attivismo gaio, ovvero la bulimia sessuale, il dionisismo sfrenato, l’abisso della depravazione, la voluttà del rischio del contagio.
La cloaca dell’UNAR scoperchiata a sorpresa dalle Iene qualche tempo fa – inchiesta bomba che ha fatto saltare la testa del direttore dell’ente, Francesco Spano – ci diceva cosa affiora grattando appena appena la patina superficiale di belle immagini e parole suggestive, l’amore sopra tutte. Gratta gratta, viene fuori che gli attivisti di categoria sono degli untori, e vogliono esserlo. Vogliono spargere il loro verbo affinché diventi virale e, soprattutto, vogliono diffondere i loro stili di vita, con le malattie collegate, a quanta più gente possibile, a partire – si capisce – dalle giovani generazioni, vittime inermi del fascino della trasgressione. Se vi sembra un’iperbole, cercate cosa sono i bugchasers o i giftgivers, cioè la sottocultura gay devota allo spargimento volontario dell’HIV, come da lezione del loro mentore, il filosofo Michel Foucault che lo chiamava “dono della morte”: il bareback (in gergo bb) è il sesso praticato alla cieca con soggetti sieropositivi (detti poz) come dentro una roulette russa a effetto differito. Lo stordimento da stupefacenti serve da facilitatore delle pratiche masochiste; le applicazioni per telefonino, come grind, hornet, scruff, aiutano a procacciarsi i fortunati compagni di avventura.
Va detto, alla fine, per quanto la narrativa ufficiale cerchi di tenerlo scrupolosamente nascosto, che siamo di fronte a un problema vero di ordine pubblico e di salute pubblica, visto che abbiamo a che fare con il chiaro tentativo di propagare un’infezione. E le istituzioni promuovono sottoforma di pensiero unico obbligatorio – a scuola, nelle piazze, nei luoghi di aggregazione, nei massmedia – la diffusione di atteggiamenti mentali e di comportamenti che da una patologia derivano e a molte altre ne portano: il degrado fisico e la dissoluzione morale sono alimentati dai becchini della politica, della burocrazia e dell’accademia, col concorso esterno (e anche interno, per la verità) delle gerarchie ecclesiastiche.
Sinistre e neochiesa uniti nel segno dell’arcobaleno
Ora che in Italia il vento politico è cambiato perché qualcuno ha finalmente aperto finestre che parevano ormai sigillate, la tenia che era comodamente annidata nel corpo molle dello Stato e credeva di potersene alimentare sine die, avverte il rischio della fine della pacchia.
Si spiega così il cementarsi, squallido e disperato, della santa alleanza tra i cascami di istituzioni che si vedono perdenti e i chierici in carriera nella chiesa ex cattolica, anch’essa decadente e anch’essa invertita, e per questo impegnata in una radicale revisione teologica volta ad abolire la Genesi, il Levitico e un San Paolo ormai diventato impresentabile nel mondo all’incontrario.
Alla neochiesa, tutta intenta a distorcere le scritture e la propria tradizione millenaria in funzione omoeretica, poco importa dell’attacco frontale sferrato regolarmente contro la simbologia cristiana e i principi portanti di una fede millenaria. Attacco che non è un’evenienza estemporanea ascrivibile a qualche testa calda isolata, ma fa parte integrante della ricetta-base servita nelle varie manifestazioni d’orgoglio. In esse, nessuna esclusa, si scatena una prorompente carica sacrilega, di cui non è difficile cogliere il motivo: con la pretesa di propagandare il vizio e l’anti-logica, erompe l’odio viscerale contro l’ordine della natura, che ricalca l’ordine del creato. Ecco il proliferare di simboli satanici e lo sfregio a quelli cristiani, cercato e provocato con scientifica cura e non solo con la demenziale volgarità di qualche poveretto.
Tutto, a ben guardare, è all’insegna dell’inversione, cifra essenziale dell’universo gaio e disperato. E i preti stanno a guardare, in religioso silenzio.
Ultima trovata dissacrante, aggiornata alla nuova temperie politica, quella del “gonfaleno” apparso per la prima volta proprio a Padova, cioè del gonfalone leghista storpiato con fregio arcobaleno. Non per nulla il leone di San Marco evangelista, bersaglio dello scimmiottamento gaio, è anch’esso un millenario simbolo cristiano.
L’infanzia dimenticata
L’attacco alla cristianità e alla sensibilità di un popolo forgiato nella fede, ai suoi simboli e alla sua tradizione, non è slegato dall’attacco, subdolo ma violento, all’infanzia e alla sua insita sacralità.
La stucchevole solfa dei diritti di tutti e per tutti uguali, e della libertà di tutti gli uguali – che fa il paio con la retorica dell’uguaglianza nelle diversità e della diversità nella omologazione, e non si sa quale sia più surreale – presuppone una solidissima cognizione del diritto: ogni volontà desiderante o estro individuale, per forza propria, si farebbe ipso facto pretesa giuridicamente rilevante.
L’effetto della fantasia al potere, nel campo delle relazioni erotico-affettive, è quello di riprodurre tante grottesche parodie di famiglia quante le infinite combinazioni di umani e non. Indimenticata la signora Cirinnà, paladina delle unioni a volontà, che intende la famiglia come “una variabile socio-culturale” e, coerentemente, si definisce “madre” dei propri animali: quattro gatti, quattro cani, due cavalli e una famigliola di asini amiatini (vedere, per credere, il “chi sono” nel profilo ufficiale dell’onorevola).
La disinvoltura di lorsignori nel maneggiare concetti tecnici neanche fossero meri flatus vocis potrebbe liquidarsi come esilarante fenomeno di costume se non avesse ricadute disastrose non solo su un ordinamento che fu giuridico ma soprattutto sulle vere vittime – vittime in carne e ossa – di tutta questa sbornia folle e dissennata.
Nel tripudio beota dei diritti ad amarsi, a non amarsi più e ad amarsi diversamente, ci si dimentica dei più piccoli.
Definitivamente catalogati tra i beni di consumo, al più elevati al rango di animali da compagnia, i bambini vengono prodotti e mercificati per soddisfare i capricci di adulti senza scrupoli, vengono precocemente ipersessualizzati per entrare nell’orizzonte sessuocentrico dei loro custodi variamente assortiti, vengono costretti a dover comprendere l’incomprensibile (come trovarsi intorno due esemplari di femmina che pretendono di essere entrambi chiamate mamme, e lo spermatozoo chissà; o due tizi barbuti che si dichiarano entrambi papà, e l’ovocita che arriva da lontano è stato messo nella pancia di una signora straniera sconosciuta, ma sempre molto buona).
Il rapporto, comunque, è inesorabilmente quello tra un soggetto e un oggetto: siamo di fronte alla prevaricazione dell’uomo sull’uomo, dell’uomo più forte nei confronti del suo simile più debole e privo di difese. Alla faccia dell’amore.
Dietro la cantilena delle false libertà e dei falsi diritti e le lezioncine di buonismo moralista impartite dagli orgogliosi esibizionisti dei propri gusti sessuali alternativi – sappiamolo – si affacciano l’arbitrio del potere, l’abuso dell’innocenza, lo spettro della pedofilia. Alla faccia del rispetto.
Benvenuti al Gay Pride.
di Elisabetta Frezza
Lo riportiamo trascritto parola per parola dal video pubblicato sulla pagina facebook dell* stess* assessor*, perché riteniamo che meriti lettura integrale trattandosi, nel suo genere, di un autentico capolavoro.
Riteniamo altresì che il testo, in sé compiuto, non richieda alcun commento se non il rilievo seguente: non dubitiamo che l* assessor* parli a nome di tutti gli amministratori; siamo altrettanto certi che NON parli a nome di tutti gli amministrati.
I neretti sono nostri. Buona lettura.
“Abbiamo preteso giustizia e il diritto di essere liberi e uguali di fronte alla legge, di fronte al nostro vicino di casa.
Benvenute e benvenuti a Padova! Questa città appartiene a tutte e a tutti noi perché ogni volta che una piazza e una strada e uno spazio pubblico sono attraversati da donne e uomini in marcia e quelle donne e quegli uomini marciano per i loro diritti e la loro felicità, ebbene, quello che si crea è uno spazio di libertà, non dobbiamo dimenticarlo mai. Qui dovete sentirvi a casa, perché Padova adora le persone libere e più ancora le persone che hanno voglia di rivendicarlo festeggiando. Pertanto, a nome dell’amministrazione comunale che qui rappresento, do il benvenuto alle nostre concittadine e ai nostri concittadini, così come alle loro amiche e ai loro amici da altre città del Veneto e d’Italia. Che siate lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, bisessuali, intersessuali, queer, pansessuali, poliamorosi o della sfumatura che preferite, anche banalmente eterosessuali, benvenute e benvenuti a Padova!
Padova è una città dalla lunga tradizione gay friendly e ne siamo orgogliosi. Già nel 2002, ancora ce lo ricordiamo, questa città ha ospitato un’importante edizione nazionale del pride. Negli anni sono nate nuove associazioni impegnate contro le discriminazioni e lo ripeto ancora una volta: siamo orgogliosi che Padova sia una città aperta, una città libera dove solo omofobi e razzisti non devono poter trovare casa! Da quel giorno a Christopher Street è stata fatta molta strada, ma dobbiamo essere consapevoli che i diritti non possono essere dati una volta per sempre. Per questo è importante tenere sempre alta l’attenzione. E abbiamo anche imparato che per continuare a progredire non c’è modo migliore che reclamare nuovi e più avanzati diritti perché non c’è nessuna legge, né di Dio né dell’uomo, che può stabilire che coppie dello stesso sesso non possano contrarre un matrimonio egualitario e non possano adottare bambini da riempire d’amore. Sono diritti che dobbiamo conquistare tutti e tutte insieme, per tutte e per tutti. Per questo, noi diciamo con forza e con orgoglio che Padova è vicina alle altre città che stanno portando avanti una battaglia per colmare la lacuna legislativa sul riconoscimento dei figli delle famiglie arcobaleno. E c’è da avanzare anche su un altro piano, quello del diritto di non essere giudicati, di poter vivere la propria vita come meglio si crede, amando chi si crede e come si crede, il diritto di far parte a pieno titolo della nostra società, con pari diritti e doveri, senza incorrere in scomuniche o in sguardi torvi o viceversa pruriginosi del tuo vicino di casa, del tuo collega, o peggio ancora del tuo datore di lavoro. È qui, da queste strade, da queste piazze, dalle nostre città, che dobbiamo difendere quello spazio di libertà, è un dovere che abbiamo perché siamo umani, siamo cittadini, siamo liberi. Dobbiamo ribedirlo (?), ancora: ora che sono tornate parole d’odio e di rifiuto mai sentite, mai sentite da quando i nostri padri costituenti hanno fatto voto di essere liberi e degni e di garantire alle generazioni dopo di loro di restare liberi e degni, di non lasciare indietro nessuno, di non abbandonare nessuno, di non escludere nessuno e di non chiudere nessun porto. Da questa piazza e da tutte le piazze che hanno colorato le città d’Italia in questo giugno di orgoglio si leva il grido contro chi cerca di bloccare la tutela dei diritti nella bugiarda propaganda per cui riconoscere un diritto significa per forza togliere un diritto agli altri. E invece i diritti o sono di tutti o non sono di nessuno! Il diritto ad avere una casa, un lavoro stabile che permetta di vivere, un porto sicuro dove far approdare la propria vita alla ricerca di un futuro migliore, perché è un futuro migliore per tutte e per tutti ciò che stiamo rivendicando contro ogni forma di discriminazione. Questa non è solo una manifestazione di protesta, è prima di tutto una giornata di orgoglio per quello che ognuno di noi si sente di essere, una giornata dove mescolare corde(?), intrecciare culture, assaporare vita, dare e ricevere amore e divertirsi. Questo è l’orgoglio, questo è il pride ed è un orgoglio civico. Ogni volta che si celebra il pride si celebra una lezione per tutte e per tutti, la rabbia che si fa festa, la marcia che si fa diritto, il popolo che si fa città. Questo orgoglio è anche il mio, che in questo momento rappresento l’amministrazione comunale. Sono orgogliosa di farlo, perché non sempre questa città per il suo governo è stata all’altezza dei suoi diritti e dei suoi cittadini. Non lo è stata quando ha approvato mozioni in nome dell’intolleranza, non lo è stata quando ha preso decisioni che escludevano e non accoglievano. Oggi è un giorno di festa anche per rispettare chi ci ha eletto e ci ha chiesto di fare di tutto perché quelle decisioni non abbiano più corso e faremo di tutto perché questa città possa includere e accogliere tutte e tutti, perché ci siano diritti per tutte e tutti. Festeggiamo insieme di essere sopravvissuti all’intolleranza, festeggiamo la possibilità di sentirci come siamo, il diritto di amare chi vogliamo, le nuove battaglie che ci aspettano per i nostri diritti. Festeggiamo perché dobbiamo resistere, festeggiamo l’orgoglio di aprire i porti e non chiuderli, festeggiamo per chi non può festeggiare e ARRABBIAMOCI, perché ne abbiamo diritto! E divertiamoci perché ne abbiamo diritto! Benvenute e benvenuti a Padova! E che insieme possiamo tenerla una città libera e aperta!”
Entra ora in scena il bravo presentatore che così conclude la lectio magistralis dell* assessor*:
“Ladies and gentlemen, la nostra Maaaarrrta! Assessore alle pari opportunità al comune di Padova! Grazie per il gioiello che sei stata. Grazie per portare aventi la lotta, grazie per portare avanti tutti i nostri diritti, IN FACCIA A MATTEOOOO!!! Un applausoooo!”.
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