Assoluti morali: esce l'adulterio, entra la pena di morte
Il cambio magisteriale fa rientrare la pena di morte nel novero dei mala in se, azioni intrinsecamente malvagie che non tollerano eccezioni. Curiosamente a seguito delle indicazioni dell’Amoris laetitia l’adulterio non è più un assoluto morale, perché in alcune condizioni l’adulterio pare essere lecito e dunque esce dalla categoria dei mala in se. Dunque l’adultero e l’assassino sono sempre vittime dei loro atti liberi, mai colpevoli perché a loro nulla può essere imputato. Ergo l’adultero può accedere alla Comunione e il reo non deve essere punito. Se sparisce la colpa deve sparire anche la giustizia. C'è solo misericordia.
Torniamo a riflettere sulla decisione di Papa Francesco di cambiare il Catechismo laddove parla di pena di morte. Come spiegato qualche giorno or sono il punto focale dell’intervento del Pontefice riguarda la specie morale della pena di morte: da atto considerato lecito, nel rispetto di alcune condizioni, dal Magistero precedente, ad atto sempre illecito per il presente Magistero.
Ogni atto riceve la sua specie morale – il “che cosa è” dal punto di vista etico e dunque se l’atto è buono o malvagio – dal fine prossimo perseguito. L’atto materiale di dare la morte ad una persona rea di colpe gravissime è atto moralmente lecito se persegue il fine di irrogare una giusta pena o se il fine è la tutela della collettività (ordinariamente questi due fini si accompagnano l’uno con l’altro). La pena capitale, al pari di tutte le altre sanzioni, affinchè sia giusta occorre che soddisfi i fini propri, ossia il fine retributivo, quello pedagogico e quello dissuasivo. Come abbiamo avuto già modo di spiegare la pena capitale riesce a soddisfare tutte queste tre finalità. In merito invece alla finalità difensiva, una condizione per la sua liceità (condizione che deve essere soddisfatta per tutte le azioni che perseguono un fine buono) è quella che la difesa deve essere proporzionata all’offesa. E dunque se esistono mezzi diversi di contenimento della violenza del reo devono essere adottati. Mettere a morte una persona quando non è necessario, sarebbe un atto sproporzionato e quindi contro ragione.
Ora invece il Magistero dichiara esplicitamente che la pena di morte è sempre e comunque illecita perché contraria alla dignità personale. In merito alla replica a questa motivazione rimandiamo all’articolo di qualche giorno or sono. Ciò che vogliamo qui sottolineare sta nel fatto che affermare che una certa condotta è sempre malvagia, significa farla rientrare nel novero dei mala in se, azioni intrinsecamente malvagie che non tollerano eccezioni, atti che mai dovrebbero essere assunti, quindi in nessuna circostanza e per nessun fine ulteriore buono. Dunque la pena di morte, dopo questo pronunciamento pontificio, non può più essere qualificata come specie morale “pena” e/o “difesa”, bensì è stata identificata con la specie morale dell’assassinio, un assassinio di Stato. Il salto è sbalorditivo.
Curiosamente a seguito delle indicazioni dell’Amoris laetitia l’adulterio non è più un assoluto morale, perché in alcune condizioni l’adulterio pare essere lecito, e dunque esce dalla categoria dei mala in se. All’opposto fa il suo ingresso in questo insieme concettuale la pena di morte, la quale fino a ieri era un dovere affermativo contingente, ossia un’azione eticamente lecita, ma non sempre obbligatoria. La sua doverosità scattava al verificarsi di alcuni condizioni, tra cui la prima era l’extrema ratio.
Quindi nell’adulterio le condizioni hanno avuto il potere di cancellare la condotta dalla categoria dei divieti negativi assoluti, quando invece non possono avere tale potere, e di contro nella pena di morte le condizioni (es. extrema ratio) perdono ogni potere di rendere lecita la scelta e diventano ininfluenti, proprio perché la condotta è sempre illecita. Parrebbe alla fine cosa di poco conto che eccita i nervi solo degli addetti ai lavori perché sia la questione dei divorziati risposati che dei condannati alle pena capitale sembrerebbero marginali, dato che numericamente sia i primi che i secondi sono insignificanti.
Ed invece, come appena accennato, la questione è di enorme rilevanza da un punto di vista morale ed anche ecclesiale. Infatti questi due casi incidono sulla retta comprensione del concetto di dignità umana e di dignità morale. Da una parte l’adulterio può essere atto consono all’intima preziosità della persona, dall’altra la pena di morte non è mai scelta adeguata a tale preziosità. Ciò vuol dire che non si comprende più perché l’uomo è così prezioso e perché dunque l’adulterio è sempre condotta malvagia e la pena di morte può esserlo solo a volte. E non si comprende più cosa significhi “dignità” perché si è mandata in soffitta la metafisica, ossia concetti come natura umana, sostanza razionale, forma predicamentale, teleologismo, legge naturale, legge eterna, dignità morale, etc.
Non solo ora è cambiato il giudizio sulla dignità naturale, ma anche sulla dignità morale. La prima indica la preziosità della persona che deriva dalla sua natura razionale ed è dunque indipendente dalle azioni compiute. In questa prospettiva Stalin e Madre Teresa hanno pari dignità. Diversamente la dignità morale indica il valore della persona relativamente alle azioni compiute. E così se io ho un rapporto sessuale con una donna sposata che non è mia moglie sarò adultero, se uccido una persona innocente sarò un assassino. In tale prospettiva Stalin e Madre Teresa hanno dignità diverse.
Il tema della dignità morale è dunque connesso con i concetti di responsabilità morale, di imputabilità e di colpa. Nel nuovo corso dottrinale non solo si è assegnata una nuova veste alla dignità morale – veste cucita secondo la sensibilità della massa – ma si è giudicata irrilevante la dignità morale. E dunque l’adultero e l’assassino sono sempre vittime dei loro atti liberi, mai colpevoli perché a loro nulla può essere imputato. Ergo l’adultero può accedere alla Comunione e il reo non deve essere punito.
Se sparisce la colpa deve sparire anche la giustizia. E dunque torna un leitmotiv di questo nuovo corso dottrinale: solo misericordia senza giustizia, dimentichi del fatto che la misericordia senza giustizia non è vera misericordia.
Tommaso Scandroglio
http://www.lanuovabq.it/it/assoluti-morali-esce-ladulterio-entra-la-pena-di-morte
La pena di morte…ecco un’utile sintesi per conoscere cosa afferma la Dottrina cattolica di sempre
Cos’è la pena e cos’è la pena di morte
La pena in sé è una sofferenza o privazione inflitta dalla pubblica autorità per punire un delitto, affinché si possa impedire ai membri della società di turbare l’ordine del corpo sociale.
La pena di morte è una sanzione penale che non può essere considerata un “omicidio”, a differenza di quanto oggi solitamente si affermi.
Gli scopi
La pena di morte ha due scopi.
Il primo: ristabilire l’ordine della giustizia.
Il secondo: produrre un effetto deterrente.
A proposito della necessità che attraverso la pena si debba ristabilire l’ordine, va detto che ancora oggi quando avviene qualsiasi reato, non solo si punisce il reo, ma si chiede al reo stesso di restituire nei limiti del possibile. Per esempio: il maltolto in caso di furto.
Le ragioni
La società ha il diritto di imporre una pena proporzionata ai delitti commessi.
San Tommaso ammette che la giustizia umana può arrivare a sopprimere la vita del reo (Summa (II-II, questione 64). Egli utilizza questo argomento:
Ciascun uomo sta alla comunità come una parte sta al tutto. Se un organo è ammalato, bisogna -nei casi limite- eliminarlo per salvare l’intero organismo.
Pertanto, se un uomo per i suoi peccati è pericoloso e disgregativo per la collettività, può essere necessario sopprimerlo per la salvaguardia del bene comune. In tal modo non c’è nessuna offesa alla dignità umana, perché il reo non conserva più la pienezza di tale dignità.
Bisogna infatti distinguere tra dignità essenziale (ontologica) e dignità seconda (legata alle operazioni, cioè agli atti).
Il criminale conserva la dignità essenziale, ma non la dignità seconda.
La vera bontà dell’uomo non è data solo dalla dignità essenziale, ma anche dalla dignità seconda, ovvero le sue azioni devono perseguire il giusto fine: il bene.
San Tommaso afferma anche che uccidere un uomo che si comporta da “bestia” può essere un bene come –appunto- l’uccidere una bestia pericolosa.
Le condizioni
Prima condizione: la pena di morte deve essere decretata dalla pubblica autorità. Non può essere una vendetta personale.
Seconda condizione: la pena di morte deve essere decretata solo per crimini gravissimi.
Terza condizione: la pena di morte deve fondarsi sulla certezza morale del crimine, ottenuta cioè con accurate indagini, con sicure prove e testimonianze.
Non è di per sé obbligatorio, ma è più opportuno che la pena di morte non sia eccessivamente cruenta.
Le obiezioni che solitamente si fanno alla liceità della pena di morte
Prima obiezione: la pena di morte può essere irreparabile quando poi si dovesse dimostrare che il reo è stato ingiustamente incolpato.
Risposta: la possibilità di errare non inficia la necessità del principio. Esempio: l’eventualità che il chirurgo potrebbe sbagliare operando, non nega il principio secondo cui le operazioni chirurgiche, quando sono necessarie, vadano fatte.
Seconda obiezione: la pena di morte lede la dignità della persona umana.
Risposta: Come abbiamo detto, san Tommaso dice che con il peccato l’uomo “abbandona l’ordine della ragione”. Egli pertanto decade dalla piena dignità umana. In tal contesto la pena di morte non figura come un omicidio, bensì come soppressione di un individuo che ha perso la pienezza della sua dignità. Ovviamente, proprio questo discorso fa capire che la pena di morte può essere giustificata solo dalla estrema gravità del delitto.
Terza obiezione: uccidere un criminale vuol dire togliergli la possibilità di eventualmente pentirsi.
Risposta: è più facile pentirsi con la pena di morte (l’imminenza della morte) che non rimanendo in galera …men che meno –come accade oggi- senza certezza della pena. Inoltre, l’accettazione della pena di morte può redimere.
La sua negazione
La critica nei confronti della pena di morte è partita dall’Illuminismo.
Né poteva essere diversamente, visto che fu in quel periodo che si affacciò un falso concetto di dignità dell’uomo, che prescinde dal suo essere creatura e quindi dal dovere, attraverso le azioni, perseguire il bene.
Sarà poi il liberalismo e anche il relativismo postmoderno ad acuire la negazione.
In campo cattolico, un ruolo importante lo svolge l’influenza della filosofia personalista, che riduce l’uomo alla sua dignità essenziale dimenticando la dignità seconda.
Le conseguenze della negazione
Prima conseguenza: se la pena di morte fosse inammissibile in quanto contraria alla dignità della persona umana, allora anche l’ergastolo sarebbe inammissibile; ma non solo: perfino una pena temporale, perché ogni privazione della libertà non sarebbe mai conforme alla dignità umana.
Seconda conseguenza: con l’inammissibilità della pena di morte si svuoterebbe anche il principio della legittima difesa. Infatti, tale pena si fonda su questo principio.
Conclusione
La pena di morte deve essere una “extrema ratio”.
E’ evidente che i motivi che la possono rendere ancora più “extrema” possono nel tempo modificare (il sistema carcerario di oggi non è quello di ieri, per cui -forse- basterebbe farlo funzionare bene).
Ma non si può affermare che il principio della pena di morte sia in sé errato. Questo sarebbe una palese rottura nel secolare insegnamento magisteriale.
http://itresentieri.it/la-pena-di-morte-ecco-unutile-sintesi-per-conoscere-cosa-afferma-la-dottrina-cattolica-di-sempre/
Con un rescritto ex audientia Sanctissimi, la Congregazione per la Dottrina della Fede ci ha fatto sapere che un altro elemento della religione cattolica dovrà considerarsi cambiato ufficialmente: la dottrina sulla liceità della pena di morte.
Il Catechismo pubblicato da Giovanni Paolo II, pur contenendo già le innovazioni conciliari, ammetteva ancora (seppur in maniera piuttosto teorica) che l’autorità civile potesse comminare la pena capitale in casi gravissimi. Invece, la modifica al numero 2267 del citato catechismo ci informa che, contrariamente a quanto affermato in passato, «la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che “la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”, e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo». Si specifica, seguendo la dottrina conciliare, che la dignità umana non si può mai perdere, nemmeno per crimini gravissimi (san Tommaso d’Aquino faceva un discorso opposto).
Tale innovazione era stata annunciata nel Discorso dell’11 ottobre 2017 ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della nuova Evangelizzazione, da noi commentato nel Convegno di Rimini di fine ottobre 2017. Per quanto gravissima sia un’alterazione della dottrina cattolica su un ennesimo punto, ci preme sottolineare da quali princìpi provenga una tale possibilità, princìpi specialmente sottolineati da Papa Francesco nel discorso qui menzionato. Da dove può venire la conoscenza di una dottrina diversa da quella tramandata? Forse si sono lette le fonti della Rivelazione in modo più accurato? Forse finora l’infallibilità sonnecchiava? Papa Francesco risponde enunciando la tipica dottrina modernista sull’evoluzione del dogma, pur facendo anche un appello del tutto retorico al “Vangelo”. Vediamo cosa dice il discorso citato.
Papa Bergoglio precisa chiaramente, a proposito del catechismo, che «non è sufficiente, [quindi,] trovare un linguaggio nuovo per dire la fede di sempre; è necessario e urgente che, dinanzi alle nuove sfide e prospettive che si aprono per l’umanità, la Chiesa possa esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce». Non si illuda chi vede nel nuovo corso ecclesiale un semplice mutamento di linguaggio: la fede di sempre non basta, né basta trovare un modo di esprimerla adatto all’uomo di oggi: si deve attuare un vero e proprio processo profetico, che guardi alle necessità (“sfide”) dell’uomo moderno come a una vera fonte della rivelazione divina. Francesco si fa più esplicito: «conoscere Dio, come ben sappiamo, non è in primo luogo un esercizio teorico della ragione umana, ma un desiderio inestinguibile impresso nel cuore di ogni persona. È la conoscenza che proviene dall’amore, perché si è incontrato il Figlio di Dio sulla nostra strada (cfr Lett. enc. Lumen fidei, 28)». Parole apparentemente affascinanti, ma che rivelano il pensiero modernista sulla fede: non ci sono delle verità rivelate da accettare, ma un “desiderio” del divino che è dentro l’uomo. Ovviamente tale desiderio non è legato alla rivelazione di verità esterne all’uomo (da accettare con la ragione illuminata dalla fede - e per ciò stesso immutabili), ma può essere esplicitato in tanti modi, secondo le circostanze di tempi o luoghi: così nascono le varie religioni e così sono possibili infiniti mutamenti delle dottrine, a seconda delle necessità e delle sensibilità dei tempi. Una società religiosa organizzata come la Chiesa cattolica non potrà ovviamente ignorare la mutata sensibilità, e a tempo debito dovrà fare propria l’esperienza del suo momento storico che rileggendo il Vangelo scopre “cose nuove”. Chi non lo facesse, indubbiamente resisterebbe allo “Spirito santo”, che altro non sarebbe che lo spirito del mondo e della storia. L’operazione, felicemente portata a termine per la libertà religiosa e l’ecumenismo al concilio, e per la “famiglia” al sinodo di Papa Bergoglio, è ora estesa al tema sensibile della pena di morte.
Il Papa infatti prosegue in modo anche più esplicito: «Questa problematica [della pena di morte] non può essere ridotta a un mero ricordo di insegnamento storico senza far emergere non solo il progresso nella dottrina ad opera degli ultimi Pontefici, ma anche la mutata consapevolezza del popolo cristiano, che rifiuta un atteggiamento consenziente nei confronti di una pena che lede pesantemente la dignità umana. Si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale». Qui la “mutata consapevolezza del popolo” è chiaramente presentata come una “fonte” della dottrina cattolica. E continua: «La Tradizione è una realtà viva e solo una visione parziale può pensare al “deposito della fede” come qualcosa di statico. La Parola di Dio non può essere conservata in naftalina come se si trattasse di una vecchia coperta da proteggere contro i parassiti! No. La Parola di Dio è una realtà dinamica, sempre viva, che progredisce e cresce perché è tesa verso un compimento che gli uomini non possono fermare». Chiaro il richiamo a una permanente rivelazione: non si deve trasmettere (sarebbe “conservare in naftalina”) ma progredire verso un “compimento”, in modo inarrestabile, pena il peccato contro lo Spirito santo, esplicitamente evocato poco sotto: «Non si può conservare la dottrina senza farla progredire né la si può legare a una lettura rigida e immutabile, senza umiliare l’azione dello Spirito Santo. “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri” (Eb 1,1), “non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio” (Dei Verbum, 8). Questa voce siamo chiamati a fare nostra con un atteggiamento di “religioso ascolto” (ibid., 1), per permettere alla nostra esistenza ecclesiale di progredire con lo stesso entusiasmo degli inizi, verso i nuovi orizzonti che il Signore intende farci raggiungere».
Difficilmente si potrebbe sperare in un’esposizione più chiara della dottrina modernista sull’evoluzione del dogma, benché Papa Francesco ripeta più volte che «non si tratta di un cambiamento di dottrina». Chi ragiona da cattolico e pensa che la dottrina della Chiesa corrisponda a una rivelazione conclusa che va trasmessa, non potrà non vedere una contraddizione insanabile, e si dovrà chiedere se la Chiesa abbia sbagliato finora o se sbagli Papa Francesco, in ultima analisi se Cristo abbia detto che la pena di morte è lecita oppure il contrario. Il modernista invece non vedrà contraddizioni: Dio non ha rivelato una dottrina, ma sta dentro di noi, e lo spunto datoci dal “Cristo storico” (che chissà poi che ha detto: non c’erano i registratori…) ci fa vivere un’esperienza religiosa che mettiamo in comune nella Chiesa, con formule concordate tra noi. Questa è l’azione “profetica” dello “Spirito santo”, che non cessa mai, specie quando cerchiamo di rivivere “l’entusiasmo degli inizi”. Così armonizzeremo in nuove formule i nostri rinnovati bisogni e desideri, suggeritici da quello spirito della storia che è Dio stesso, e al quale non bisogna resistere (e che comunque “non si può fermare”). Esattamente la dottrina che san Pio X condannò nell’enciclica Pascendi.
Nel momento in cui una tale variazione dottrinale viene imposta ai fedeli in modo ufficiale, è dovere di ciascuno restare fedele alla dottrina tradizionale definita dalla Chiesa e professarlo nei modi e nei tempi appropriati, come fece Monsignor Lefebvre per gli errori del Concilio.
don Mauro Tranquillo
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