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venerdì 23 novembre 2018

I conti senza l’oste

EVOLUZIONISMO E RELIGIONI



I danni dell’evoluzionismo nella storia delle religioni. Il veleno della modernità: un giorno qualcuno si prenderà la briga di fare la stima dei danni, che le sue "ideologie false e dannose" hanno prodotto in Europa e nel mondo 
di Francesco Lamendola  

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Dopo una guerra, o un terremoto, o un’alluvione, si fanno le stime dei danni subiti da un certo territorio e da una certa popolazione: quante case distrutte, quante lesionate, quante da abbattere, quante da risanare; quanto bestiame è stato ucciso, quante strade, ponti e ferrovie sono rimasti interrotti a causa dei bombardamenti aerei; quanti campi, vigneti, frutteti e pioppeti sono stati rovinati; quante fabbriche, officine, stabilimenti e magazzini sono ancora in piedi e funzionanti, e quanti no; quanto materiale ferroviario rotabile è andato perduto, quante navi mercantili sono state affondate o danneggiate, quanti autoveicoli sono andati perduti; quante scuole risultano chiuse o comunque inagibili, quanti tribunali, sedi comunali, prefetture e altri uffici pubblici hanno perso la loro sede, quanti di essi possono ancora funzionare in sedi di fortuna; eccetera. Ebbene, un giorno qualcuno si prenderà la briga di fare la stima dei danni che le ideologie false e dannose della modernità hanno prodotto in Europa e nel mondo, a partire specialmente dal XVIII secolo, con la pubblicazione della famigerata Encyclopédie e con la circolazione delle opere di Voltarie, Diderot e Rousseau, e fino a tutto il XX secolo. 

E non parliamo solo delle ideologie politiche e sociali, dove pure il danno è più immediato ed evidente, ma anche e soprattutto di quelle che hanno agito in maniera più indiretta e sotterranea, ma non meno devastante, in tutti gli abiti del conoscere, col risultato di sostituire al paradigma cristiano, che è ricco, generoso, a misura d’uomo e tale da incoraggiare il lavoro, la famiglia, la speranza in questa vita e nell’altra, il nuovo paradigma scientista, meccanicista, immanentista, utilitarista: freddo, spietato, indifferente oppure ostile all’uomo, perché nemico sia della natura, sia dei bisogni più profondi dell’essere umano. Un paradigma che ha diffuso l’angoscia, la paura e la disperazione e che generazioni di scrittori e intellettuali scellerati o imbecilli hanno diffuso a piene mani, contaminando la fibra ancora sana delle persone comuni, degli umili lavoratori, dei padri e delle madri di famiglia, e da ultimo anche nel clero cattolico, inoculando in essi il veleno della modernità, spingendoli ad aborrire la trascendenza, a deridere le virtù “sorpassate”, a ignorare la vocazione all’immortalità e concentrare ogni sforzo e ogni cura nel presente, pur ripetendo incessantemente che la vita, in fondo, è nulla, che termina nel nulla, che l’uomo è nulla, che il tutto è nulla e che non esiste nulla destinato a durare, nulla che meriti di essere amato e nulla per cui valga la pena di amare, lottare, soffrire e sacrificarsi, se non il proprio comodo immediato. Mano a mano che la cultura moderna si è imposta ed è diventata un vero e proprio totalitarismo ideologico, le vecchie forme del conoscere sono state ridicolizzate e accantonate, dal finalismo aristotelico al connubio tomista di ragione e fede; e allo spirito generoso, altruistico, collaborativo delle generazioni passate, si è venuto sostituendo un modo di sentire, di pensare, di agire e di vivere fondato sul calcolo, sul profitto, sull’interesse e sull’egoistica affermazione di sé, in spregio al bene altrui e nella più sovrana indifferenza per il dolore che un simile modo di procedere reca continuamente alle perone che ci stanno intorno, a cominciare da quelle più vicine. Era perciò necessario, per eliminare possibili sensi di colpa, svalutare al massimo la famiglia e in specie la figura del padre: solo così la rivolta e il disprezzo nei loro confronti avrebbero perso ogni connotazione negativa, d’ingratitudine ed egoismo, per colorirsi delle tinte seducenti della realizzazione di sé, della liberazione delle forze represse, dell’aspirazione a esplicare in piena autonomia i propri talenti (veri o supposti) e soprattutto i propri inalienabili “diritti”, ovviamente sganciati da qualunque dovere o responsabilità. Se la famiglia è una “stanza della tortura”, se il padre è un tiranno, se la madre fa schifo, se i fratelli e le sorelle sono solo degli ostacoli sulla via dell’affermazione di sé, magari perché sono più responsabili, più maturi, più rispettosi verso i genitori e più laboriosi, evidentemente non è una brutta cosa ribellarsi e mandarli tutti a quel paese, anzi, diventa una cosa altamente meritoria, un contributo al miglioramento del mondo e alla emancipazione dell’umanità.

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Autoreferenzialità degli "evoluzionisti" e la tattica del silenzio: il dogma dell’evoluzionismo, che ha contribuito in maniera decisiva a deformare la percezione che l’uomo ha di se stesso, ha potuto imporsi a "verità" assoluta nella nuova religione della modernità, rifiutando ogni contraddittorio e silenziando ogni personalità portatrice di tesi contrarie.

Una delle dottrine moderne non direttamente politiche, anzi in apparenza “solo” scientifiche, che ha prodotto danni gravissimi nella cultura e che ha contribuito a deformare ulteriormente la percezione che l’uomo ha di se stesso, è l’evoluzionismo, specialmente nella sua estensione alla storia delle religioni. Alla base dell’idea evoluzionista c’è l’intuizione – perché di questo si tratta, e non di una legge scientifica accertata – che, in natura, le cose passano da uno stato più semplice ad uno sempre più complesso, per aggregazione o, appunto, per evoluzione; mentre non è possibile, o almeno non è probabile, che si verifichi il contrario. Così, secondo gli antropologi evoluzionisti, si è passati dalle culture primitive a quelle complesse. Applicato alla storia delle religioni, questa impostazione ha indotto a pensare – si veda il celebre Ramo d’oro di Sir James Frazer – che dall’animismo siano nate, per evoluzione, le varie forme di politeismo, e infine, per ulteriore evoluzione, il monoteismo; e tale impostazione, sulla spinta delle recenti dottrine biologiche diDarwin, si impose, nel clima del positivismo, con la forza di un vero e proprio dogma. Andare contro di esse era quasi impossibile; eppure ci fu qualcuno che lo fece. E fu proprio uno studioso che, inizialmente, aveva condiviso la concezione evoluzionista, lo scozzeseAndew Lang (1844-1912), inizialmente discepolo dell’evoluzionista Edward Burnett Tylor (1832-1917), il quale, a un certo punto, sulla base di studi specifici, si persuase che la teoria evoluzionista era sbagliata, perché non rendeva conto di una serie di fatti precisi e accertati: l’esistenza, fra alcuni popoli primitivi, di una concezione religiosa fondata sulla credenza in un Essere Supremo, creatore e provvidente, talvolta contrastato da un essere meno potente, però malefico, responsabile della presenza del male nel mondo. Ora, si trattava proprio di quei popoli che, secondo gli evoluzionisti, avrebbero dovuto trovarsi più “indietro” nella strada verso il monoteismo; in particolare gli indigeni della Terra del Fuoco, gli Yamana, che Darwin aveva conosciuto durante il viaggio sul Beagle e che aveva descritto come estremamente selvaggi, e solo di poco superiori alle scimmie. A lungo si credé, sulla base di informazioni superficiali e frettolose, che gli Yamana, uno dei popoli più antichi del mondo, e certo fra i più antichi, se non il più antico, dell’intero continente americano, fossero addirittura sprovvisti di religione, il che avrebbe fornito una ulteriore conferma dell’idea evoluzionista: cioè che quanto più una società è primitiva, tanto meno è progredita nella sfera del sacro e del divino. Al limite, questa teoria, dagli evidenti sottintesi ateistici (presenti anche in alcune pagine dello stesso Darwin) avrebbe permesso di sostenere che la religione è una “invenzione” dei popoli antichi, giunti a una soglia minima di civilizzazione, per poi evolvere lentamente verso il monoteismo, passando per l’animismo e il politeismo; e suggeriva che, alla fine, anche il monoteismo avrebbe cessato di esistere, nel senso che sarebbe stato sostituito da una concezione pienamente razionale della realtà, fondata sulla scienza e quindi non più bisognosa di spiegazioni soprannaturali dell’ignoto.

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La differenza fondamentale fra il paradigma moderno e quello cristiano: il primo parte da un pregiudizio materialista e scientista ed esclude tutto ciò che vi si oppone; il secondo parte dai fatti e giunge a un perfetto accordo con la ragione: checché se ne dica, infatti, il cristianesimo non è affatto in contrasto con la sana ragione naturale, al contrario; e solo la grossolana ignoranza e il disprezzo della tradizione, che hanno fatto mettere in soffitta, per esempio, la grandiosa opera filosofica e teologica di san Tommaso d’Aquino, hanno reso possibile il diffondersi della leggenda di un cristianesimo nemico della ragione, della scienza e del progresso.

Ma gli evoluzionisti avevano fatto i conti senza l’oste; ulteriori e più approfondite ricerche rivelarono che sia i Fuegini, sia altri popoli considerati estremamente antichi, possedevano, in realtà, una religione assai più complessa di quanto non avessero ritenuto i primi antropologi europei; che però, per pudore e per tabù, non avevano interamente rivelato loro: una religione di cui era parte l’essenziale la credenza in un Dio unico, spirituale, creatore e benefattore dell’umanità, e soprattutto non responsabile del male, fisico e morale, presente nel mondo. Quando Lang rese note le sue nuove opinioni, il mondo accademico, che sino ad allora lo aveva seguito con stima e simpatia, si “dimenticò”, puramente e semplicemente, di segnalarlo al pubblico: vale a dire che assorbì il colpo con la tattica del silenzio. In questo modo, le idee di Lang sarebbero forse scivolate nel vuoto, se non avessero trovato un battagliero continuatore in un sacerdote cattolico che fu anche un valentissimo linguista e antropologo: l’austriaco Wilhelm Schmidt (1868-1954), professore all’Università di Vienna e direttore del Pontificio Museo Etnologico Lateranense. Proprio studiando le lingue dei popoli primitivi, specialmente del Sud-Est asiatico, dell’Australia e dell’Oceania, egli scoprì una serie di circostanze che lo indussero a por mano a un’opera gigantesca: L’origine dell’idea di Dio (Der Ursprung der Gottesidee), in dodici volumi pubblicati fra il 1912 e il 1954, cui lavorò indefessamente fino alla morte, e nella quale sostenne la teoria del monoteismo primordiale dell’umanità. Poiché essa contrastava irrimediabilmente con le dottrine evoluzioniste che dominavano, e dominano, il campo del’antropologia e anche la storia delle religioni, neppure questa volta il mondo accademico si lasciò turbare, e disturbare più di tanto: se non proprio un muro di gomma, come nel caso di Lang, un muro di scetticismo accolse gli studi, estremamente seri e documentati, nei quali il sacerdote austriaco esponeva, con molto equilibrio e con perfetto rigore di studioso, i dati che lo avevano condotto a formulare la sua tesi di fondo. Ma qui appunto si vide, e si vede, la differenza fondamentale fra il paradigma moderno e quello cristiano: il primo parte da un pregiudizio materialista e scientista ed esclude tutto ciò che vi si oppone; il secondo parte dai fatti e giunge a un perfetto accordo con la ragione: checché se ne dica, infatti, il cristianesimo non è affatto in contrasto con la sana ragione naturale, al contrario; e solo la grossolana ignoranza e il disprezzo della tradizione, che hanno fatto mettere in soffitta, per esempio, la grandiosa opera filosofica e teologica di san Tommaso d’Aquino, hanno reso possibile il diffondersi della leggenda di un cristianesimo nemico della ragione, della scienza e del progresso.
Così W. Schmidt sintetizza il suo punto di vista nel suo Manuale di storia comparata delle religioni (Brescia, Morcelliana, 1933, pp. 469-471):
In primo luogo dobbiamo registrare il fatto molto importante che presso i popoli etiologicamente più antichi, i Pigmei, i Fueghini, gli Australiani sudorientali, i Californiani nord-centrali, gli Algonchini, non c’è mai alcun indizio che la loro religione sia il risultato delle loro proprie ricerche o esigenze, ma invece si constata sempre che essi fanno risalire la religione, nelle loro tradizioni, all’Essere Supremo come tale, il quale sia in via immediata, sia col tramite del capostipite da esso incaricato, avrebbe comunicato e inculcato agli uomini le dottrine di fede, i precetti morali e le forme di culto […].
 Volendo poi, attingere argomenti dal contenuto intrinseco delle antiche religioni, noi vi incontriamo due importanti dottrine fondamentali, che difficilmente avrebbero potuto essere escogitate dalle indagini umane, meno che mai nella loro fusione, e cioè: la dottrina che l‘Essere Supremo è buono per affetto, e quindi praticamente provvido e benefico, e la dottrina che egli è buono in senso morale; e dunque che l’Essere Supremo è santo, in linea negativa e positiva. Nella fusone di queste due dottrine è incluso il più grave di tutti i problemi umani, quello dell’origine del male fisco e morale nel mondo. Anche questo problema è stato afferrato dai popoli primitivi e quantunque fosse loro costato molta fatica, pure non hanno mai smarrito le due accennate verità di fede, eccettuate alcune transitorie incertezze […] Il pensiero e l’indagine naturali, siano essi di indirizzo causale o finale, non potrebbero, ci sembra, spiegare questa fede universale e salda degli uomini più antichi nella bontà immutabile congiunta alla illibatezza morale del loro Essere Supremo. Il raziocinio umano può condurre bensì fino all’idea della creazione e suggerire l’esistenza di un ordine di finalità morale tra il nostro mondo e l’aldilà, e fino a questo punto avrebbero potuto giungere di propria virtù anche gli uomini più antichi; ma non avrebbero potuto conservarsi tanto a lungo a questo livello, senza che si sviluppassero ben presto molteplici divergenze, che però di fatto non si riscontrano nelle questioni più essenziali. […]
Si deve dunque supporre che qualche cosa di grande, qualche cosa di imponente abbia profondamente impressionato la loro anima, creando e conservando quella forza ed unità di fede; né si può immaginare che tale cosa grande e impressionante possa essere di natura puramente soggettiva, perché non avrebbe potuto ottenere effetti tanto vasti. Deve dunque trattarsi di una cosa o di un avvenimento insolito puramente materiale, perché non avrebbero potuto colpire e affascinare in tal modo la personalità degli uomini antichi. Deve quindi trattarsi di una personalità potente ed imponente che si è affacciata allora a quegli uomini, che ha incatenato il loro intelletto con verità luminose, ha vincolato la loro volontà con nobili e alti comandamenti ed ha guadagnato il loro cuore colla sua affascinante bellezza e bontà. Chi fosse questa potente personalità è fuori di dubbio, e quei popoli antichissimi lo dicono nelle loro più antiche tradizioni con rara unanimità: è l’Essere Supremo, realmente esistente, il creatore del cielo e della terra e specialmente dell’uomo, e come tale anche l’unico testimonio di quegli avvenimenti fondamentali, che solo può darne piena testimonianza e che secondo quelle tradizioni, ne ha dato insegnamento al primo progenitore.

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Un giorno qualcuno si prenderà la briga di fare la stima dei danni che le ideologie false e dannose della modernità hanno prodotto nel mondo?

Ecco dunque la ragione della fortissima resistenza che le tesi di Wilhelm Schmidt suscitarono nell’ambiente dell’etnologia e della storia comparata delle religioni: di nuovo il finalismo, tanto vigorosamente combattuto e respinto sin dal secolo XVII, sin dalla cosiddetta rivoluzione scientifica galileiana; e, quel che è più grave ancora, ecco riaffacciarsi una spiegazione non immanentista, ma addirittura soprannaturale, del grande interrogativo: come ha potuto sorgere nelle menti “primitive” dei popoli antichi, e mantenersi per lunghissimi periodi di tempo, l’idea dell’essere Supremo, cui, da soli, ben difficilmente avrebbero potuto arrivare? Eh, ma vogliamo scherzare: qui non solo Schmidt ci riporta al finalismo aristotelico e perciò alla metafisica; qui egli fa entrare nel salotto buono della scienza più “darwiniana” di tutte, dopo la biologia, cioè l’antropologia, niente meno che un intervento diretto di Dio stesso, per condurre la mente e il cuore degli uomini a vedere quella verità soprannaturale che, da soli, non avrebbero potuto raggiungere, né conservare. Scandaloso, intollerabile: ma chi si crede di essere, questo Schmidt? Come si permette di contestare il nuovo vangelo della civiltà moderna: quello di Darwin, più Freud, più Marx?
I danni dell’evoluzionismo nella storia delle religioni 

di   Francesco Lamendola

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