ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 24 gennaio 2019

Cambiare il rito per cambiare la fede

Chi ha sostituito l’Altare cattolico con tavole per la Cena?



Cari Amici, in occasione dell’infausto Cinquantenario (1969-2019) del Nuovo Messale detto “Paolo VI”, e del divieto a poter celebrare nel Rito di sempre, detto Vetus Ordo (che venne poi riabilitato nel 2007 con il Summorum Pontificum di Benedetto XVI), abbiamo iniziato un breve ma intenso excursus storico – molto drammatico e che abbiamo intitolato in una nuova sezione “CRISI LITURGICA” – per cercare di capire da dove il tutto ebbe inizio. Visitate la sezione perché troverete molto materiale interessante.
In questo link: Guéranger spiega La catastrofe che fu il luteranesimo; siamo entrati proprio all’interno di un percorso alle radici di questa vera follia…. ora proseguiamo con due interessanti interventi: da chi ebbe inizio la DISTRUZIONE degli Altari cattolici per sostituirli con tavole e che oggi, da 50 anni, vediamo imposte anche dentro la Chiesa Cattolica, in una non meglio identificata “volontà” di un pseudo “spirito”???
Qui il video che spiega e sintetizza i testi che andrete a leggere a seguire.

 “Le prove non sono finite, la mia Sposa sarà spogliata, la liturgia impoverita, un magistero maschile deprederà la mia Diletta, perciò altre mie dilette verranno in suo soccorso…” (Santa Ildegarda, Dottore della Chiesa, vedi qui)
La riforma liturgica anglicana di Michael Davies
(di Cristina Siccardi – vedi qui) Molti cattolici, oggi, invece di voler capire annaspano, si angosciano, taluni si disperano… Cosa faremo, dove andremo, cosa diventeremo con la nuova pastorale dettata dal Concilio Vaticano II; con le dottrine moderniste entrate nella Chiesa; con pastori che seguono la cultura egemone, piuttosto del Vangelo; con un Papa che entusiasma il mondo e i relativisti, mentre confonde e basisce il suo gregge?
Eppure non è difficile: basterebbe essere umili, ascoltando e leggendo. Ascoltare e leggere: due verbi fondamentali per essere ancora cattolici e continuare a ricevere l’insegnamento della fede dei nostri padri e non tradire la Verità portata in terra da Gesù Cristo, che si incarnò in Maria Vergine per portare ciascuno alla salvezza eterna. Ed ecco il grande Cardinale John Henry Newman con il quale si apre l’imperdibile libro di Michael Davies, La riforma liturgica anglicana, edito da Ichthys (pp. 290, € 25.00), tradotto finalmente in lingua italiana da Don Alberto Secci, e uscito in questi giorni. Newman, appunto, scrisse che se gli si fosse domandato di scegliere una dottrina come base della fede cattolica, così avrebbe risposto: «Io direi, per quanto mi riguarda, che l’Incarnazione è al cuore del Cristianesimo; è da lì che procedono i tre aspetti essenziali del suo insegnamento: il sacramentale, il gerarchico e l’ascetico» (p. 7).
La religione cristiana è fondata proprio sulla realtà dell’Incarnazione come fatto storico, è ancora Newman che Davies cita: «L’Incarnazione è l’antecedente della dottrina della meditazione; essa è l’archetipo del principio sacramentale e dei meriti dei santi. Dalla dottrina della mediazione derivano la salvezza, la messa, i meriti dei martiri e dei santi, le invocazioni e il culto loro indirizzato. Dal principio sacramentale provengono i sacramenti propriamente detti, l’unità della Chiesa e la Santa Sede, che ne è il modello e il centro; l’autorità dei concili; la santità dei riti; la venerazione con cui si circondano i luoghi sacri, le tombe dei santi, le immagini, i mobili, gli ornamenti e i vasi sacri. Bisogna o prendere tutto o rigettare tutto; attenuare non è indebolire; amputare è mutilare» (p.8). La preziosità di tali parole non ha misura! Michael Davies (1936-2004), in questo eccellente studio, le ripropone nel tempo in cui si è avviato un processo di protestantizzazione similare a quello che avvenne nell’Inghilterra di Enrico VIII e di Elisabetta I.
Davies è stato Presidente della Federazione Internazionale «Una Voce» dal 1995 al 2003 ed è stato autore di numerose opere in difesa della Tradizione cattolica, resistendo in maniera esemplare alla deriva modernista della Chiesa; in questo suo saggio spiega, in maniera chiarissima e terribile, come i metodi utilizzati dall’anglicanesimo siano da mettere in parallelo ai metodi dei modernisti e come la riforma liturgica sia stata la matrice per smantellare il Cattolicesimo in terra britannica. Davies pone sostanzialmente tre mezzi in questo processo di sradicalizzazione della fede: 1. L’abolizione della lingua latina (lingua universale e sacra della Chiesa) a vantaggio della lingua volgare (lingua corrente delle diverse nazionalità e profana). 2. La sostituzione dell’altare rivolto verso Dio, con una tavola rivolta verso i fedeli (chiamati, nella lingua conciliare, «assemblea»). 3. I cambiamenti nel Canone della Messa.
In Inghilterra non ci fu un eresiarca a stabilire la nuova religione, come accadde in Germania con Lutero o in Svizzera con Calvino, essa sorse, come scrivono i traduttori e curatori dell’opera nella prefazione, dall’«abilissima opera dell’arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer. Quest’ultimo, già segretamente protestante, concepì un astuto disegno di modifica radicale della fede del popolo inglese unicamente trasformandone la liturgia. Cranmer stimò che, attraverso la liturgia vissuta ogni giorno, avrebbe raggiunto con più certezza le mentalità che non attraverso qualsivoglia discorso» (p. 3).
Davvero sorprendente: l’anglicanesimo è il frutto marcio di un libro marcio, il Book of Common Prayer (Libro di preghiera comune). Newman comprese tutto ciò, attraverso l’ascolto, la lettura, lo studio ed ecco che nell’Apologia pro vita sua, arriverà a dire con fierezza: «La mia anima sia con i santi! Proprio a me toccherebbe alzare la mano contro di loro? Che piuttosto la mia mano destra dimentichi ogni sua arte e si dissecchi come la mano di colui che una volta osò stenderla contro un profeta di Dio! Anatema all’intera schiatta dei Cranmer, Ridley, Latimer e Jewel ! Periscano i nomi di Bramhall, Ussher, Taylor, Stillingfleet e Barrow dalla faccia della terra, prima che io mi rifiuti di prosternarmi con amore e venerazione ai piedi di coloro la cui immagine ebbi sempre davanti agli occhi e le cui armoniose parole risuonarono sempre al mio orecchio e sulle mie labbra!» .
La manipolazione della Santa Messa e dei simboli religiosi (arredamento, paramenti, arte, architettura, musica, che hanno perso, oggi come allora, la sacralità a vantaggio di uno svilimento antropocentrico e profano) hanno svuotato la sostanza del Credo cattolico, allontanando sempre più dal culto della Chiesa coloro che vi partecipavano nell’Inghilterra del XVI-XVII secolo e nella Chiesa del XX e XXI secolo. I progressisti inneggiarono, chi resistette venne crudelmente perseguitato e molti versarono il sangue del martirio, mentre i conservatori, compiacenti verso le nuove norme per vantaggio e/o codardia, vennero inghiottiti inesorabilmente nell’errore. Per non fare la fine di questi ultimi, o di chi si agita senza equilibrio, invitiamo all’umiltà. Ascoltare e leggere per capire e resistere: questo libro dovrebbe essere letto in particolare dai sacerdoti, la cui vocazione e il cui ordine sono stati loro dati da Dio e dagli eredi degli Apostoli per essere, prima di tutto, ministri del Santo Sacrificio.
Per chi desidera acquistare La riforma liturgica anglicana di Michael Davies rivolgersi all’Editore Ichthys: Via Trilussa 45 – 00041 Albano Laziale (RM), oppure, per chi desidera riceverlo direttamente a domicilio, scrivere all’indirizzo di posta elettronica: albano@sanpiox.it.

Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede

Abbiamo precedentemente visto che la Riforma liturgica inglese fu un’opera di straordinaria ambiguità. Dopo la morte di Enrico VIII, sotto la guida dell’arcivescovo di Canterbury Cranmer, l’Inghilterra fu portata sempre più a tagliare le sue radici cattoliche, per approdare a un nuovo cristianesimo, eretico, l’Anglicanesimo. L’attualità ci mostra a quale tristezza è giunta la chiesa anglicana, seguendo tutte le mode e perdendo progressivamente la fede. Questo taglio con la radice cattolica, lo sappiamo, fu fatto GRADUALMENTE, con prudenza, attraverso una riforma della liturgia lente ma inesorabile nell’ eliminare l’aspetto sacrificale della Messa, così come comanda il più puro protestantesimo. La gradualità era necessaria, nel disegno sovversivo e ereticale di Cranmer, per non provocare lo scandalo degli inglesi, sacerdoti e laici, ancora naturalmente cattolici: si sa, chi agisce nell’ombra, non potendo manifestare il proprio disegno rivoluzionario, non vuole gli scandali… che tutto sia tranquillo, purche l’opera di distruzione continui!
Con questa logica vennero approntate delle misure preparatorie alla riforma del messale romano che, considerate attentamente, rivelano tutto il loro carattere protestante. Iniziamo, in questo numero, a considerare la prima di queste misure preparatorie, la sostituzione degli altari con delle tavole: i lettori potranno in tutta facilità farne i dovuti collegamenti con la nostra triste realtà post-conciliare, che per frettolosità e superficialità (ma in alcuni casi per volontà di protestantizzazione) ha seguito l’esempio anglicano.
L’abbazia di Rievaulx in North Yorkshire
La sostituzione degli altari con delle tavole
La sostituzione degli altari con delle tavole fu, anch’essa, una misura conforme alla linea di condotta adottata dai riformatori dell’Europa continentale in materia di liturgia. Ciò che ne risultò finalmente si trova molto esattamente riassunto in una descrizione della santa cena come la si celebrava a Strasburgo dopo il 1530,quando l’influenza di Bucer vi fu divenuta preponderante. (E’ senza dubbio inutile ricordare che Bucer ebbe su Cranmer e dunque sulla sua nuova liturgia, più influenza di qualunque altro riformatore del continente). “La messa, il prete e l’altare sono dunque sostituiti dalla santa cena, il ministro e la tavola della santa cena; al posto di rivolgersi verso l’oriente, il celebrante guarda verso l’occidente” (D.Harrison, The first and second Prayer Books of Edwar VI, Londra 1968, p.VI). Per Calvino, poiché il Cristo ha compiuto il suo sacrificio una volta per tutte, Dio “ci ha donato una tavola per la festa e non un altare per offrirvi una qualsiasi vittima; non ha consacrato dei preti per offrire dei sacrifici, ma dei ministri per condividere con gli altri il banchetto sacro”.
La distruzione in massa degli altari non intervenne in Inghilterra che dopo l’imposizione del Prayer Book del 1549; tuttavia, un primo passo era già stato compiuto dal 1548; riguardava gli altari delle cappelle delle fondazioni mortuarie, di cui Cranmer aveva ordinato la distruzione. A partire dal 1549, gli altari di pietra sui quali, da secoli, si offriva il santo sacrificio, furono sostituiti con dei tavoli di legno collocati nel coro. Il 27 novembre 1548, Jean d’Ulm scriveva a Bullinger: “Tutti gli altari privilegiati sono ora stati abbattuti in buona parte dell’Inghilterra e, con l’accordo generale dell’alta società, sono stati puramente e semplicemente soppressi. Cosa aggiungere a questo? Questi altari idolatri sono ora diventati delle mangiatoie di maiali (arae factae sunt harae), cioè la dimora dei porci e delle bestie” (Original Letters Relative to the English Reformation, Parker Society, Cambridge,1846 e 1847, t. II, pag. 384). Nel 1549, il vescovo di Norvich, William Rugg, che aveva l’animo cattolico, dimissionò per protestare contro il primo Atto di uniformità, che imponeva il nuovo Prayer Book. La sede resterà vacante per un anno; in virtù della sua autorità di primate, Cranmer fece effettuare una visita della diocesi che ebbe come risultato la distruzione della maggioranza degli altari. Il nuovo vescovo, Thomas Thirlby, si era anche lui dichiarato ostile all’Atto di uniformità; lo accettò però quando fu adottato. (Più tardi, sotto il regno di Elisabetta I, fu gettato in prigione per aver rifiutato di prestare il giuramento di supremazia).
Nel 1550, dopo aver preso possesso della sua nuova sede, osservava: “La maggioranza degli altari della mia diocesi sono già stati distrutti per ordine dei visitatori inviati da Sua Grazia Monsignore di Canterbury in occasione dell’ultima visita che ha fatto effettuare, essendo allora la sede episcopale vacante” (F. Gasquet e H.Bishop, Edward VI and the Book of Common Prayer, Londra 1890). In una serie di seminari per la Quaresima che pronunciò davanti al Re e al Consiglio, il vescovo Hooper reclamò con insistenza la distruzione totale degli altari e la loro sostituzione con dei tavoli, perché non ci sono che tre forme di sacrificio che i cristiani possono offrire e non necessitano di altari: il sacrificio di azione di grazia; la bontà e la generosità verso i poveri; e la mortificazione dei nostri corpi e la morte al peccato. “Se noi non ci applichiamo ad offrire ogni giorno questi sacrifici a Dio, non siamo più cristiani. Considerando che i cristiani non hanno altri sacrifici che questi, che si possono e si devono compiere senza altari, non si dovrebbero trovare altari fra i cristiani… Sarebbe dunque a proposito che piacesse ai magistrati sostituire gli altari con dei tavoli, conformemente a ciò che fu istituito dal Cristo, questo al solo scopo di fare scomparire la credenza erronea, diffusa nel popolo, secondo la quale si offrono dei sacrifici sugli altari; perché fino a quando ci saranno gli altari il popolo ignorante e il prete adepto di false dottrine continueranno a sognare dei sacrifici. Sarebbe dunque preferibile che i magistrati facciano scomparire tutti i monumenti e i segni dell’idolatria e della superstizione; questo non farebbe che affrettare lo stabilirsi della vera religione di Dio” (Original Lettres…, t. II, pag. 488). Il 27 marzo 1550, dopo la nomina di Ridley al seggio episcopale di Londra, Hooper scriveva a Bullinger: “Spero che si metta a distruggere gli altari di Baal come ha già fatto nella sua chiesa quando era vescovo di Rochester. Non so come dirvelo, carissimo amico, in mezzo a quali difficoltà e di quali pericoli noi lavoriamo e combattiamo per arrivare ad eliminare questa pratica idolatrica che è la messa” (Original Letters…, t. I, pag.79). E aggiungeva: “Dal mio arrivo qui, molti altari sono stati distrutti in questa città (Londra)”. Le speranze che Hooper metteva in Ridley erano fondate. In meno di tre mesi, questi aveva ordito che gli altari fossero tolti dalle chiese della sua diocesi (F.Clark, Eucharistic Sacrificie and the Reformation, Devon, 1980, pag 188). Gli altari erano dei “monumenti che perpetuavano troppo l’antica credenza del sacrificio della messa. La distruzione degli altari era già un tratto caratteristico della Riforma nell’Europa continentale, dove aveva generalmente accompagnato l’abolizione della messa” (Ibid., pp.187-188). Il 24 novembre 1550, il Consiglio del Re ordinò che questa politica fosse universalmente adottata in Inghilterra, e “che tutti gli altari del regno fossero distrutti. Ormai, ogni volta che si celebrava il rito della santa cena, si doveva farlo su una tavola di legno coperta da una tovaglia di lino” (P. Hughes, The Reformation in England, Londra 1950, t.II, p.121). In una lettera indirizzata in questa data a Ridley dal Consiglio, a nome del Re, e portante, tra l’altro, le firme di Somerset e di Cranmer, si afferma che la sostituzione generale degli altari con dei tavoli in legno eliminerà una causa “di nuovi turbamenti e disordini”: “Reverendissimo Padre in Dio, fedelissimo e amatissimo, vi indirizziamo i nostri buoni saluti. E’ arrivato a nostra conoscenza che, essendo stati abbattuti gli altari nella maggioranza delle chiese del regno per delle buone e sante ragioni, ne esistono ancora, nonostante questo, in diverse altre chiese, cosa che occasiona molte dispute e litigi fra alcuni dei nostri sudditi, e che, se non vi si sta attenti, potrebbe essere causa di grandi mali e dispiaceri; vi facciamo sapere che, preoccupati di eliminare ogni causa di discordie come le originano sovente queste diversità e altre simili, e considerando che fra le altre cose che appartengono alla nostra funzione e carica regale, la più importante è preservare la pace pubblica nel nostro regno, abbiamo giudicato bene, dopo parere del nostro Consiglio, di richiedervi e ancor di più di darvi ordine e comando formale, al fine di evitare ogni soggetto di nuove discordie e violenze a proposito del mantenimento o della soppressione dei detti altari, di dare delle istruzioni precise su tutta l’estensione della vostra diocesi, perché con ogni diligenza siano abbattuti tutti gli altari, in ogni chiesa o cappella di detta diocesi, che sia nei luoghi esenti o non esenti, e che al loro posto sia eretta una tavola, in qualche posto appropriato del coro, destinata, in ogni chiesa o cappella, a servire all’amministrazione della santa comunione. E, preoccupato che questo sia fatto senza offendere coloro tra i nostri affezionati sudditi che non sono ancora su questo punto così convinti come ce lo augureremmo, vi indirizziamo congiuntamente alcune considerazioni raccolte e ordinate ad ogni scopo utile; le quali, come altre che vi sembrerà appropriato avanzare, per persuadere gli esitanti di riunirsi alla nostra azione su questo punto, vi preghiamo di voler volentieri far conoscere al popolo, da qualche predicatore avveduto, nei luoghi che giudicherete appropriati, prima di abbattere i detti altari; in modo che le coscienze mal irrobustite di altri possano essere, anche loro, debitamente istruite e rassicurate, per quanto si possa fare e che il nostro buon piacere ne sia tanto più facilmente eseguito. Perché questo sia fatto al meglio, vi domandiamo di fare innanzitutto conoscere di persona le considerazioni suddette nella nostra chiesa cattedrale, se voi lo potete facilmente, o altrimenti di farlo dall’intermediario del vostro cancelliere, o da qualche altro predicatore serio, in questo luogo e in altri borghi e luoghi più importanti della vostra diocesi, come vi sembrerà più appropriato” (T.Cranmer, Writings on the Lord’s Supper, t.II, p.524).
Tra le “considerazioni” che accompagnavano la lettera, sei non permettevano di dubitare, scrive Mons. Hughes, “che negli animi di coloro che ordinavano questo cambiamento , una religione (migliore) era sostituita ad un’altra” (The Reformation in England, t.II, p.121). Questo emerge con una particolare evidenza dalla prima delle “Reasons why the Lord’s Board should rather be after the form of a Table than an Altar” (Ragioni per le quali la tavola del Signore dovrebbe avere la forma di un tavolo piuttosto che quella di un altare): “In primo, la forma di una tavola allontanerà maggiormente la gente semplice dalle idee superstiziose della messa papista, per condurla al buon uso della santa cena. Perché ci si serve di un altare per offrire un sacrificio; ma ci si serve di una tavola per il pasto degli uomini.
Ora, quando noi rinnoviamo la cena del Signore, con che scopo lo facciamo? Forse per sacrificare il Cristo una nuova volta e crocifiggerlo ancora, o per mangiare il suo corpo spiritualmente e bere il suo sangue spiritualmente, cosa che è ben in realtà il senso della vera santa cena?Nessuno potrebbe dunque negare che la forma di una tavola conviene meglio di quella di unaltare alla celebrazione della detta santa cena” (T.Cranmer,Writings on..., pp.524-525).
Si soppressero dunque in tutto il paese tutti gli altari consacrati che servivano al sacrificio cristiano. Il padre T.E. Bridgett sottolinea che il rifiuto del santo sacrificio della messa era tale dalla parte dei “preti apostati che introdussero la Riforma nel XVI secolo o che vi cooperarono” che sussiste “poca sopravvivenza dell’antica pietà”. Poi aggiunge: “Ovunque esistono dei libri di conto dei fabbriceri, troviamo delle iscrizioni simili a quella di Burnham, nel Buckinghamshire: “Payd to tylars for breckynge downe forten aster in the cherche” (“Pagato ai muratori per abbattere quattordici altari nella chiesa”). Non è che attraverso tali briciole di storia che possiamo ricostruire e popolare di nuovo con l’immaginazione l’interno delle vecchie chiese, oggi vuote, ove furono nel passato offerte innumerevoli messe” (T.E.Bridgett, A History of the Eucarist in Great Britain, Londra 1908, p.63).
Il padre Bridgett non forza il tratto quando parla di “odio della messa”; è ciò che emerge dalle istruzioni indirizzate ai fabbriceri nel 1571, sotto il regno di Elisabetta, da Edmund Grindal, arcivescovo di York. Non solamente insisteva sulla distruzione o degradazione di ogni oggetto suscettibile di evocare il ricordo della messa, come sulla eliminazione di tutti gli altari, rialzati sotto il regno di Maria Tudor, ma prescriveva anche che fosse soppressa ogni traccia della loro esistenza: “I fabbriceri veglieranno in modo che, in tutte le chiese e cappelle di cui hanno la responsabilità, tutti gli altari siano interamente abbattuti e distrutti fino alle loro fondamenta e che il posto dove si innalzavano sia pavimentato, e che il muro al quale erano sigillati sia imbiancato e reso perfettamente uniforme, in modo che nessuna differenza o nessuna traccia non possa apparire. E veglieranno anche a che le pietre dell’altare siano spezzate, raschiate e impiegate per qualche uso profano. “I fabbriceri e i ministri del culto veglieranno (anche) al fatto che gli antifonari, messali, graduali, portesses (libro portatile, equivalente del breviario), processionali, manuali, lezionari e tutti gli altri libri che appartenevano un tempo alla loro chiesa o cappella e che erano utilizzati per gli uffici della superstizione in latino, siano resi interamente illeggibili e siano strappati e distrutti. Allo stesso modo, che tutti i paramenti, albe, tuniche, stole, fanoni (manipoli), ciborii, strumenti di pace, campanelle, campane della consacrazione, turiboli, ampolle del crisma,croce, candelieri, recipienti dell’acqua benedetta e aspersori, immagini e tutte le reliquie e monumenti della superstizione e dell’idolatria siano totalmente degradati, spezzati e distrutti. “Due volte all’anno, dovranno comunicare all’ordinario i nomi di tutte le persone favorevoli al potere romano e straniero, i nomi di coloro che ascoltano o dicono la messa od ogni altro ufficio in latino, come i nomi di coloro che danno asilo ai preti papisti vagabondi o agli altri spregiatori notori della vera religione” (Ibid. p.63).
In un buon numero delle venerabili chiese e cattedrali d’Inghilterra, la mensa di pietra dell’altare fu trasformata in una pietra, sovente utilizzata come gradino che i fedeli attraversavano entrando nella chiesa per assistere al nuovo servizio in vernacolare. Nella sola contea di Cambridge, si trovano ancora più di trenta pietre d’altare così collocate per essere calcate dai piedi (Ibid.,p. 65).
In una biografia che ha dedicato al suo antenato riformatore, un discendente del vescovo Ridley scrive che la distruzione degli altari, che la gente del popolo considerava un sacrilegio, li scandalizzò talmente che fece loro chiaramente comprendere l’importanza della rivoluzione che era stata compiuta, sostituendo una religione ad un’altra, come dice Mons. Hughes. Ecco cosa scrive J.-G. Ridley al riguardo: “La distruzione degli altari significò per tuti i sudditi del regno che l’oggetto che, da più di mille anni,si innalzava nel cuore delle loro chiese, e che, dalla loro più tenera infanzia, guardavano ogni Domenica con un timore reverenziale, era considerato come idolatrico e rigettato con disprezzo dagli adepti della nuova religione che era stata loro imposta” (J.G. Ridley, Nicholas Ridley ,Londra 1957, pp. 218-219).
Il fatto che il termine “altare” sia utilizzato in alcune rubriche del Prayer Book del 1549 può sembrare in contraddizione con l’insegnamento dei riformatori. La questione è affrontata nella seconda delle spiegazioni che accompagnano l’ordine del Consiglio del Re prescrivente la distruzione degli altari: “Allo stesso modo, poiché si sente dire che il Libro della Preghiera comune parla di un altare e che non è dunque permesso di sopprimere ciò che questo libro permette, ecco cosa conviene rispondere a questo proposito: Il Libro della Preghiera comune chiama la cosa sulla quale si celebra la santa cena, indifferentemente tavola, altare, tavola del Signore, senza prescrivere al riguardo alcuna forma particolare, che sia quella di una tavola o di un altare: di modo che la tavola del Signore, che abbia la forma di un altare o quella di una tavola, Il Libro della Preghiera comune lo chiama a volte altare e tavola. Perché, come chiama la cosa sulla quale si celebra la santa cena, altare, tavola e tavola del Signore o della santa cena, così chiama altare la tavola dove è distribuita la santa comunione, con lodi e azioni di grazie rese a Dio; perché è lo stesso sacrificio di lode e di azione di grazia che è offerto. Così è chiaro che parlando in questo modo non si dice o non si vuol dire nulla che contraddica Il Libro della Preghiera comune” (Cranmer, Writings…,t.II, p. 525).
La parola altare non fu più menzionata nelle rubriche del Prayer Book del 1549; non fu mai reintrodotta in seguito.

Il vernacolare e la celebrazione della liturgia ad alta voce
Certi riformatori iniziarono col fare uso di una liturgia tradizionale modificata celebrata in latino. Tuttavia, una caratteristica del protestantesimo (ad eccezione di qualche luterano) fu ben presto che il culto doveva essere celebrato in lingua vernacolare (nella lingua parlata, ndr).
L’introduzione del vernacolare prima ancora che non fossero imposti i nuovi servizi, fu, in sé, “una vera rivoluzione” (P. Hughes, The Reformation in England, Londra 1950, p. 113). Tutto il carattere della messa ne fu cambiato. Fu anche uno strumento efficace di trasformazione rivoluzionaria, perché il popolo si abituasse che si poteva modificare radicalmente la sua maniera di celebrare il culto. Ora, il tratto dominante della liturgia cattolica era stato la stabilità.
Certo, la maniera di celebrare la messa aveva ben conosciuto degli sviluppi, ma si erano introdotti in modo quasi impercettibile lungo il tempo; da diversi secoli, e ancora di più, i messali in uso in Inghilterra e in tutta l’Europa nel XVI secolonerano rimasti non cambiati. Per i fedeli, una cosa era certa: se il resto poteva cambiare, la messa, lei, non lo poteva. La celebrazione di alcune parti o della totalità della messa in inglese impressionò molto di più i semplici fedeli cattolici che l’imposizione nel 1549 del servizio della santa cena nuovamente composto in vernacolare. Douglas Harrison, decano anglicano di Bristol, riconobbe senza imbarazzo che introducendo la lingua inglese negli uffici tradizionali, “Cranmer preparava apertamente il giorno in cui si sarebbe potuto intraprendere la revisione della liturgia” (D. Harrison, The first and Second Prayer Books of Edward VI, Londra 1968, introduzione p. X). Dall’11 aprile 1547, si cantava compieta in inglese nella cappella reale. L’apertura del primo Parlamento del regno di Edoardo VI fu l’occasione di una innovazione ancora ben più importante, perché colpiva il rituale della stessa messa: accompagnato da tutti i lords spirituali e temporali, il re si recò a cavallo dal palazzo di Westminster alla chiesa di San Pietro (2) per assistere ad una messa nel corso della quale il Gloria, il Credo e l’ Agnus Dei furono cantati in inglese (F. Gasquet e H. Bishop, Edward VI and the Book of Common Prayer, londra 1890, p. 64).
I vescovi più conservatori essi stessi erano ora disposti ad ammettere che se, alla messa, il latino doveva restare la regola generale, in particolare “nei santi misteri, almeno certe preghiere potevano essere dette nella lingua materna per istruire il popolo o ravvivare la sua devozione, se lo si reputava un bene” (Ibid., p.89).
Dal 12 marzo 1548, si poteva sentire a Westminster una messa celebrata interamente in inglese, compresa la consacrazion  (Ibid., p. 102). Lo storico protestante A.L. Rowse scrive: “Chiunque ignora le leggi dell’antropologia coglie male il carattere straordinariamente audace di questa sostituzione con una liturgia in inglese dell’antico rito latino della Cristianità occidentale nel quale, da tempo immemorabile, gli Inglesi erano stati cullati e allevati, e che turbamento profondo un tale atto non poteva non infliggere a quelle zone dell’inconscio sulle quali riposa la vita di una società … Niente saprebbe attenuare l’audacia rivoluzionaria di un simile intervento nell’ordine del costume, del subcosciente e dei riti dell’esistenza” (A. L. Rowse, The England of Elizabeth: the Structure of Society, Londra 1951, p.17). E nello stesso tempo in cui imponevano l’uso del vernacolare, i riformatori esigevano che tutto l’ufficio potesse essere ascoltato dall’assistenza. Una rubrica del Prayer Book del 1549 lo prescrive: il prete “dice, o canta, ad alta ed intelligibile voce, la preghiera che segue”, cioè il canone (D. Harrison, op. cit, p. 221).
E’ interessante sapere che il Concilio di Trento interverrà esplicitamente su questa questione, scomunicando chi affermasse che è obbligatorio pronunciare le parole della consacrazione, il Canone, ad alta voce, così come chi obbligasse alla messa in lingua parlata abbandonando il latino. Nel corso della sua XXII sessione, il 22 settembre 1562, il concilio di Trento dichiarò anatema chiunque sostenesse la proposizione seguente: “Il rito della Chiesa romana, dove si pronuncia a voce bassa una parte del canone e le parole della consacrazione, deve essere condannato; la messa non deve essere celebrata che in lingua volgare”. (Denzinger, 1759). A questo riguardo sembra interessante citare il testo del concilio di Trento che giustifica e spiega la preferenza secolare della Chiesa e la sua attitudine a proposito di questa questione, preferenza che aveva allora secoli di esistenza e che fu confermata solennemente da questo concilio. Il concilio di Trento spiega che “è tale la natura dell’uomo che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle realtà divine senza degli aiuti esteriori. E’ per questo che la Chiesa, madre pia, ha istituito certi riti nella messa: delle parole pronunciate sotto voce, altre a voce più alta. Essa fa uso anche di cerimonie: benedizioni mistiche, luci, incensazioni, vesti e altre cose della stessa natura, ricevute dall’autorità e dalla tradizione apostolica. Così sarà messa in valore la maestà di un così grande sacrificio, e gli spiriti dei fedeli saranno stimolati, per mezzo di questi segni visibili di religione e di pietà, alla contemplazione delle realtà invisibili nascoste in questo sacrifico”.
Come è utile sapere il perché di certi riti e usi nella Chiesa, per evitare di compiere gli stessi errori e di applicare criteri estranei alla fede cattolica, in qualsiasi riforma… cose più che mai attualissime…..

Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede

Proseguiamo nell’analisi della riforma liturgica anglicana del secolo XVI, lasciandoci aiutare dall’opera di M. Davies, La Riforma Liturgica Anglicana, che attende ancora una pubblicazione in lingua italiana, dopo le sei edizioni in lingua inglese e quella in lingua francese. Tale opera è fondamentale se si vuole documentare come il Protestantesimo e l’eresia siano entrati nel cattolicesimo inglese non innanzitutto con una predicazione esplicita, ma attraverso una serie di modifiche della liturgia, soprattutto della santa Messa, che da principio non avevano un aspetto formalmente eretico, cioè contrario alla retta fede cattolica, ma che tacendo volutamente su aspetti essenziali della fede (la Messa come Sacrificio propiziatorio, la Transustanziazione, ecc…) di fatto favoriva la nascita di una nuova religione, l’anglicanesimo. La furbizia con cui si procedette ad un lento e progressivo smantellamento del cattolicesimo nei suoi riti, ingannò molti (più sacerdoti che laici)… pensavano di rimanere sostanzialmente cattolici, pur cambiando qualcosa nella Messa, e si ritrovarono alla sera della vita protestanti. Tutto questo deve certamente farci riflettere e mantenerci vigilanti… per non accogliere mai nella liturgia qualcosa di dubbioso, anche se accompagnato dalla scusa di un adattamento ai tempi. Ci furono delle misure preparatorie alla modifica del rito della messa, alcune le abbiamo già accennate: la sostituzione degli altari con delle tavole, l’abbandono della lingua latina, il vietare la preghiera del canone sottovoce. Proseguiamo considerando un’altra di queste misure preparatorie…
Nostra Signora di Walsingham
La distruzione delle immagini
Nel 1536 e 1538, sotto il regno di Enrico VIII, Cranmer era riuscito ad ottenere la promulgazione di ingiunzioni tendenti a tagliare corto con ciò che considerava “superstizione e ipocrisia”. Il suo desiderio era di proscrivere interamente le immagini; ma siccome sapeva che questo non poteva essere ottenuto fin quando Enrico fosse stato re, dovette accontentarsi di sottolineare che le immagini non erano legittime che in quanto richiamo ai santi che rappresentavano, cosa che è perfettamente conforme alla sana dottrina cattolica.
Con le ingiunzioni del 1538, giunse a fare un nuovo passo e dichiarò che là dove le devozioni erano occasione di superstizione, le casse, statue, quadri e reliquie dovevano essere distrutte puramente e semplicemente, questo, ben inteso, in nome del re, che, “vegliando con bontà al bene delle anime e dei suoi sudditi, ha già acconsentito alla distruzione di una parte di queste immagini, e che vi si consacrerà ancora più in futuro, perché esse potrebbero essere l’occasione di una gravissima offesa fatta a Dio e di un gravissimo danno per le anime dei suoi affezionati sudditi” (P. Hughes, The Reformation in England, Londra 1950, t. I. p. 361).
“Il governo reale fece comprendere più chiaramente possibile il senso di questa ingiunzione facendo distruggere, in quell’estate, dei santuari che costituivano da secoli dei luoghi di pellegrinaggio “internazionali”; fu il caso, per esempio, di Nostra Signora di Walsingham, nella diocesi di Norfolk, e di San Tommaso a Canterbury. Si portarono via da quest’ultimo delle carrettate intere piene di oro, argento, gioielli, drappi preziosi, che presero la direzione del Tesoro reale, mentre si bruciavano le reliquie del santo. Il più magnifico gioiello allora conosciuto, il grande rubino di Francia, era stato donato al santuario dal re di Francia contemporaneo di San Tommaso (Luigi VII). Enrico VIII se ne impadronì; incastonato in un anello, ornò da allora la sua mano sacrilega” (P. Hughes, The Reformation: A Popular History, Londra 1957, p. 211). Le ingiunzioni non vietavano solo i pellegrinaggi, ma anche una delle manifestazioni più diffuse della pietà popolare: l’usanza di fare bruciare delle candele di devozione davanti alle statue. Le candele furono ancora autorizzate al jubé, davanti al SS. Sacramento e al Sepolcro di Pasqua.
A dispetto della distruzione dei principali santuari, le ingiunzioni non furono affatto rispettate, in particolare nell’Ovest del paese, dove, è riportato, “all’ovest di Sarum (Salisbury), non si tiene conto alcuno delle ingiunzioni “ (E. Duffy, The Stripping of the Altars, New Haven, Connecticut, 1992, p. 410). Nel novembre 1538, Enrico pubblicò un proclama che fu a colpo sicuro un incoraggiamento per i preti che desideravano conservare le immagini e le statue nelle loro chiese: questo proclama condannava coloro che tentavano di abolire le usanze e le cerimonie religiose tradizionali “senza attendere il momento in cui Sua Maestà le modificherà o le abrogherà” (Ibid., p. 411). Ecco cosa spiega perché la maggioranza delle immagini, che si trattasse di statue, di vetrate, di pitture murali, erano ancora al proprio posto all’avvento di Edoardo VI. Era qualcosa che Cranmer non poteva tollerare. Il suo obiettivo e quello dei suoi soci riformatori del Consiglio e dell’episcopato è molto bene riassunto dal Dr. Eamon Duffy: “Nel cuore della riforma del re Edoardo, c’era la necessità di distruggere, di rompere, di martellare, di grattare o di fondere in un oblìo ampiamente meritato i monumenti del papismo, in modo che fossero dimenticate le dottrine di cui erano l’espressione.
L’iconoclastia fu il principale sacramento della Riforma, e come, tra il 1547 e il 1553, il programma dei suoi capi si fece più radicale, si sforzarono con una accresciuta insistenza di fare celebrare questo sacramento dell’oblìo in ciascuna delle parrocchie del paese. I resoconti dei fabbriceri dell’epoca si fecero l’eco di una eliminazione generale delle immagini, degli ornamenti liturgici, dei vasi sacri che avevano suscitato la meraviglia dei visitatori stranieri, e nei quali era, nel senso letterale della parola, incastonata la memoria collettiva delle parrocchie” (Ibid., p. 480).
Nel luglio 1547 è promulgata una serie di ingiunzioni sulle questioni religiose, redatte “conformemente al parere di diversi vescovi e altri, uomini i più istruiti del regno” (F. Gasquet e H. Bishop, Edward VI and the Book of Common Prayer, Londra 1890, p. 52). Sembravano non essere che una semplice ripetizione delle ingiunzioni imposte nel 1536 e 1538 sotto il regno di Enrico VIII, ma esse le sorpassavano vietando tutti i pellegrinaggi, senza limitarsi a quelli che “erano dei centri ei eccessi superstiziosi.
Le immagini che erano oggetto di deviazioni superstiziose dovevano essere tolte ed era vietato accendere le candele davanti a qualunque statua, cosa che lascia supporre che lo stesso ordine, già espresso nelle ingiunzioni del 1538, era stato larghissimamente ignorato. Alla messa grande, bisognava leggere l’epistola e il vangelo in inglese; la recita del rosario era condannata e tutte le processioni erano vietate, fossero all’interno o all’esterno della chiesa, compresa la processione del Corpus Domini e quella dei tre giorni delle Rogazioni. “Proscrivendo le processioni della domenica, questa ingiunzione colpiva al cuore una delle principali espressioni della religione delle comunità medioevali e uno dei tratti più caratteristici del culto parrocchiale in Inghilterra” (E. Duffy, p. 452).
Una visita destinata a fare applicare queste ingiunzioni iniziò nel settembre 1547, e non terminò che l’anno seguente. Nel febbraio 1548, il Consiglio notò che si era vista sollevarsi una viva resistenza ed una forte opposizione all’ingiunzione che prescriveva l’eliminazione delle “immagini disonorate con dei pellegrinaggi, delle offerte, delle incensazioni”. Il Consiglio affermava “che non esiste quasi nessuna parte del regno dove la tranquillità sia assicurata, ad eccezione dei luoghi dove le immagini sono state già interamente tolte e distrutte” (F. Gasquet e H. Bishop, p. 101). Il Consiglio ordinava la distruzione completa di tutti i reliquiari, quadri, vetrate evocanti episodi della vita dei santi, della Scrittura o della storia religiosa, “in modo che non ne resti alcuno ricordo sulle pareti, le finestre né in alcun altro luogo, che sia nelle loro chiese o nelle loro case; e (il clero) vigilerà ad esortare tutti i parrocchiani a fare lo stesso ciascuno nella propria abitazione” (P.Hughes, The Reformation in England, t. II, p. 94). Distruggendo a tal punto il patrimonio non rimpiazzabile e di un valore inestimabile di vetreria medioevale, gli iconoclasti inglesi superarono anche il fanatismo dei loro omologhi nella Zurigo di Zwingli, che autorizzarono la conservazione delle vetrate (E. Duffy, p.451).
Pensiamo a certe architetture moderne di chiese, dove c’è posto per un’infinità di sedie (per fare comunità), dove le vetrate sono ammesse solo per dare “sciabolate di luce” senza portare alcuna immagine, dove la struttura architettonica non sopporta alcuna immagine di santi, dove la statua della Vergine Maria, se c’è, è collocata a fatica… è come se ci fosse un rifiuto implicito dell’Incarnazione, della Rivelazione: Dio si è rivelato, Dio si è fatto uomo, Dio si è manifestato; e la Chiesa prolunga nel tempo questa manifestazione anche nella sua arte sacra, con il culto delle immagini.

La stampa
I riformatori capivano che i semplici fedeli erano così attaccati alla messa che un attacco aperto e immediato sarebbe stato suscettibile di ritorcersi contro di loro. Ebbero la fortuna di trovare un sostegno potente nel gentry, nei negozianti e presso una buona parte della nobiltà; avendo acquistato a basso prezzo i beni della Chiesa sotto il regno di Enrico VIII, tutta questa gente trovava un vantaggio finanziario nella Riforma. Per preparare l’abolizione della messa, si ebbe l’abilità di utilizzare la stampa. Spesso importate dal continente, le pubblicazioni che attaccavano la dottrina cattolica dell’eucaristia avevano incominciato a fare la loro apparizione dal regno di Enrico VIII.
La morte del re, sopraggiunta nel 1547, segnò subito l’inizio di una campagna diretta contro la messa; si affermava, tra le altre cose, per citare John Hooper, che “la messa è una bestemmia nei riguardi di Dio; perché coloro che onorano come Dio il pane presente sull’altare non commettono una minore idolatria di coloro che divinizzano il sole o le stelle”. (J. Hooper, Early Writings, PS, Cambridge, 1843, p. 139) Stephen Gardiner, vescovo di Winchester, che aveva conservato l’anima cattolica, aveva comunque capitolato davanti a Enrico VIII sulla questione della supremazia reale; ma sotto il regno di Edoardo, rifiutò di abbandonare la messa. Fu imprigionato nella Torre di Londra e deposto (sotto il regno di Maria Tudor, doveva riconciliarsi con la Chiesa e diventare Gran Cancelliere). All’inizio del regno di Edoardo, protestò perché “certi tipografi, commedianti o predicatori fanno finta di interrogarsi; come se noi non sapessimo ancora come siamo giustificati, né di quali sacramenti abbiamo bisogno”. (F. Gasquet, Edward VI and the Book of Common Prayer, Londra, 1890, p. 120) In pubblico, le autorità disapprovavano queste campagne; ma, astenendosi dal prendere misure contro questi libri, mostravano chiaramente da che parte andava la loro simpatia. Alla fine del’anno 1547, le porte furono aperte e cominciarono a comparire dei libri, pieni di insulti nei confronti di tutto ciò che era acattolico; si arrivava fino a dedicare queste pubblicazioni al re in persona e al Protettore Edward Seymour, duca di Somerset, fratello di Jane Seymour, terza donna di Enrico VIII e madre di Edoardo VI. Somerset era risoluto nell’imporre il protestantesimo al popolo inglese.
In alcuni scritti polemici, il santo sacramento è descritto come “una creatura che diventa Creatore, una volgare torta confezionata per diventare Dio e uomo”; la messa è “l’adorazione di un Dio confezionato con fiore di frumento” (Ibid., p. 123). Molte di queste opere avevano per autori dei riformatori dell’Europa continentale, fra i quali Lutero, Zwingli, Calvino, Melantone, Bullinger, Urbanus Regius Osiander, Hegendorp e Bodius (Ibid. , p. 125). Queste opere scandalizzavano e rivoltavano i semplici fedeli e il clero parrocchiale, ma facevano grande impressione su coloro che amavano considerarsi come appartenenti ad una élite istruita ed illuminata, adepta del nuovo pensiero e che erano quasi sempre gente influente nel loro ambiente.
Coloro che volevano farsi i difensori della messa non avevano il compito facile, essendo riusciti i riformatori ad assicurarsi il controllo assoluto dei “mezzi di comunicazione”: “Un libro compariva bene qua e là, portando il nome di un autore o di un tipografo poco di casa presso Cranmer o il Consiglio, ma nessun dubbio è permesso: queste pubblicazioni si facevano a rischio e pericolo dei loro autori. In effetti, quando si esamina la bibliografia di quegli anni, si è colpiti nel constatare che non vi si trova neanche un solo opuscolo o un solo libro uscito dalle tipografie inglesi che prenda le difese delle antiche dottrine. Dei trattati come quelli di Gardiner o di Tunstall sul Santo Sacramento dovettero essere stampate in segreto all’estero.
“Di contro, il paese era inondato di opere, traduzioni di lavori di riformatori stranieri o composizioni originali, che attaccavano le pratiche cattoliche, in particolare la messa. Queste opere portavano il nome dell’autore o del tipografo: si trattava più sovente di opuscoli venduti a qualche pence e apertamente destinati ad una larga diffusione nel popolo. Non c’è alcun dubbio che in ragione delle circostanze questa letteratura, così abbondantemente diffusa, non avrebbe potuto circolare senza la connivenza o la benevolenza delle autorità; essa corrispondeva manifestamente alle loro intenzioni e rispondeva ai loro voti. Inoltre, la diffusione di tali scritti, che avevano un carattere blasfemo e osceno, non era né vietato né frenato dalle innumerevoli proclamazioni dell’epoca; ben al contrario, espressa licenza era data ai tipografi di queste opere di pubblicarle” (Ibid. , p. 118-119).
Richard Smith, che fu il primo regius professor di teologia a Oxford, e che doveva diventare più tardi il primo rettore del seminario di Douai, scrisse un’apologia dell’insegnamento cattolico sull’Eucaristia, nella quale denunciava in termini vigorosi la letteratura scandalosa che attaccava questa dottrina: “Nel passato … mai si tollerava che ricchi e pezzenti , colti e ignoranti, vecchi e giovani, saggi e folli, ragazzi e ragazze, padrone e servo, stagnini e conciatetti, minatori e ciabattini e altra gente di bassa estrazione, potessero a piacere schernire e canzonare … non risparmiando nessun sacramento della Chiesa … mentre per la predicazione e l’insegnamento (possono fintanto che si possono impiegare questi termini in questo caso), per il gioco scenico, la scrittura e la stampa, le canzoni e (oh mio Dio!) cento altre maniere, alcuni oggi , che non hanno altro maestro che se stessi, a meno che non siano i sapienti del diavolo, non si privano né hanno timore di parlare o di scrivere contro l’eccellentissimo e santissimo sacramento dell’altare, dichiarando che è nient’altro che una volgare figura e che nel detto sacramento non si trova il corpo e il sangue del nostro santissimo Salvatore e Redentore Gesù Cristo, ma solamente un puro e semplice segno, un pegno, un memoriale del detto Salvatore; ammesso che vadano fin là e che non lo chiamino puramente e semplicemente (cosa che capita sovente) idolo o idolatria”. (Knox, p. 58)
Continua in un altro articolo come siamo arrivati alla “Comunione alla mano….”

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