Qualche anno fa Renaud Camus, indomito difensore non isolato della identità francese, ha pubblicato un volumetto che porta il titolo “Le Grand Remplacement”. Esso contiene il testo di alcune conferenze tenute dall’autore sul fenomeno, unico nella storia, se non si considerano le sostituzioni avvenute attraverso lo sterminio, per cui nel giro di una generazione si sta producendo in Francia il cambiamento di un popolo, al quale ne viene sostituito un altro o altri. Una sostituzione, egli aggiunge, che rende possibile “la grande deculturazione”. Va notato per incidens che la parola “deculturazione” non si trovava ancora nei dizionari delle lingue europee fino a qualche anno fa e che, dunque, è un fenomeno di cui abbiamo cominciato a beneficiare più di recente. Chissà perché.
Diverse sono state le pubblicazioni di Camus su questo tema, fra le quali nel 2014 “France: suicide d’une nation”. Titolo anch’esso significativo, che può richiamare alla memoria la furia distruttiva con cui la Francia ha spesso cancellato materialmente suoi pezzi di storia: dallo spianamento della Bastiglia, allo scempio di Saint Denis, alla sostituzione delle Halles con il centro Pompidou, passando per il tentativo sventato dei comunardi di appiccare il fuoco anche a Notre Dame. In ogni caso, qui si mette in luce come il contributo decisivo all’annientamento di cui si parla l’abbia fornito lo stesso popolo che lo subisce supinamente senza averne adeguata coscienza. Un contributo che sembra in contraddizione con un forte e proverbiale orgoglio nazionale.
Ma, si sa, nel piano globale volto ad eliminare ogni forte identità culturale, l’orgoglio nazionale figura come un peccato capitale molto pericoloso e dunque vietato anche ai francesi, e deviato in altri, come i tedeschi e i giapponesi, nell’attivismo produttivo.
Dunque, proprio contro la carica distruttiva di quel piano e la sua accettazione passiva, si levano instancabili voci forti come quella di Camus, decise a scuotere le coscienze oscurate dal non pensiero obbligatorio.
E da noi? Le ragioni opposte apertamente anche da chi sente il dovere sacrosanto di resistere ad un immane crimine geopolitico sembrano non cogliere il cuore del problema, o eluderlo nella sostanza, e in ogni caso rimane sempre decisivo il contributo interno che una comunità, tale solo a parole, offre alla propria distruzione.
Eppure qui i dati oggettivi, ambientali, culturali e socio economici, dovrebbero rendere chiaro a tutti che la sostituzione di popolo incombente, (basti pensare che nel duemiladiciotto il cinquanta per cento dei nuovi iscritti negli asili nido di una qualunque cittadina di provincia sono bambini stranieri), se non arrestata hinc et nunc, diventerà presto definitiva, devastante e irreversibile. Sicché le ragioni per resistervi con ogni mezzo dovrebbero essere di tutta evidenza, ed è persino imbarazzante dovere ripeterle.
Il fatto che l’Africa sia un enorme continente ricchissimo di risorse e con una popolazione stimata in due miliardi di individui in vertiginoso aumento rende logicamente impossibile a priori che essa possa essere trasferita in uno spazio piccolissimo e incomparabilmente povero di risorse naturali.
Del resto non verrebbe in mente a nessuno, forse neppure a Parenzo o a Bergoglio, di poter travasare il vino di una botte in un bicchiere d’acqua. Può programmarlo solo chi, volendo impadronirsi dell’Africa e annientare l’Europa perché ancora troppo intellettualmente vivace, pensa di prendere i famosi due piccioni con una fava: eliminare gli europei attraverso l’invasione e la sopraffazione numerica.
Ma per condurre in porto senza tanto sforzo questa operazione a dir poco titanica si è capito che sarebbe bastato affidarla ad alleati interni, quelli predisposti ad essere teleguidati, ovvero alle eterne quinte colonne, fatalmente attratte o lusingate dallo stare col nemico. Le più adatte allo scopo sono le belle persone allevate nelle batterie televisive e repubblicane a diritti umani e civili, quelli che solo a nominarli ti fanno sentire parte di una classe moralmente superiore.
Il piano di sostituzione di popolo è già tutto leggibile nel riferimento ricorrente ai “flussi migratori”. Un lemma adottato dalle burocrazie internazionali e assimilato un po’ da tutti e senza alcun sospetto.
Eppure esso non è stato scelto a caso, e non a caso viene utilizzato con riferimento proprio agli esodi africani. Infatti, nella locuzione è contenuta l’idea dell’acqua che scaturisce da una sorgente naturale e tendenzialmente perenne, che sembra escludere l’idea di una qualche provvisorietà e quella di un possibile contenimento. Ma con la differenza non banale che il flusso dell’acqua sorgiva diventa fiume e scorre via fino al mare, mentre il flusso migratorio incommensurabile e senza termine finale, viene convogliato in un bacino limitato dai contorni definiti e dalle ridottissime dimensioni. Anche le parole tradiscono l’idea che il flusso ininterrotto di africani debba essere travasato all’infinito in uno spazio capace appena di contenere i propri abitanti, e che il problema sia solo quello di compiere l’operazione in modo ordinato eliminando ogni ostacolo, specie quelli di natura ideale e razionale, ovvero ogni forma di resistenza morale. A questo scopo torna utile la capacità che ha avuto il pensiero occidentale di degenerare nella irrazionalità estrema, come è avvenuto per la filosofia, per l’arte, per la politica, per l’etica e persino per la teologia del Novecento. Di tutte queste degenerazioni il nuovo secolo sta raccogliendo i frutti avvelenati.
Ecco dunque che proprio il popolo destinato all’annientamento guarda la realtà attraverso il libretto di istruzioni fornito dalla regia insieme ad un piccolo monocolo con cui si possa vedere soltanto il particolare perdendo di vista l’insieme. Quanto serve per ridurre una invasione programmata con guerre scatenate ad hoc e trasporto navale organizzato di deportati, nel dramma previsto e auspicato del naufragio, cioè nello spettacolo tragico capace di esorcizzare la ragione attizzando le emozioni. E di fronte a questa regia delittuosa, pur grossolana e plateale, i cui trucchi dovrebbero risultare evidenti a chiunque, la mente teleguidata dello spettatore non viene sfiorata neppure dal dubbio. Non nasce il sospetto che lo spettacolo si risolva in una delle più antiche pratiche criminali: la presa ed esibizione di ostaggi a scopo di ricatto. Eppure con quella pratica l’Italia ha avuto tanto a che fare anche in anni non troppo lontani.
Così la regia opera efficacemente anche sul nervo sempre scoperto e vulnerabile, soprattutto nel cristiano, del senso di colpa, con relativa immedesimazione in colpe altrui senza limiti spaziali e temporali. Viene recitata a comando la giaculatoria sul colonialismo che, guarda caso, è proprio quello praticato su più larga scala e con altri mezzi dagli attuali deportatori di merce umana, ovvero dai nuovi commercianti di schiavi. La storia si ripete in forme vecchie per finalità più evolute.
Così la messa in scena della morte in diretta televisiva ad uso e consumo di un pubblico insaziabile di emozioni forti, copre efficacemente l’oscenità epocale dello sradicamento e annientamento reciproco di popoli. Da un lato quelli che lasciano nelle mani rapaci dei salvatori, insieme alla propria identità, le ricchezze della terra che da sempre appartiene loro. Dall’altro noi, che da eredi indegni e volgari di un patrimonio inestimabile di storia e di civiltà lo abbandoniamo vigliaccamente alla dissoluzione e alla rapina, conseguenza certa della devastazione, senza avvertire neppure il peso della responsabilità verso le giovani generazioni, alle quali viene consegnato solo il pacchetto delle parole vuote di significato.
Tra “profughi richiedenti asilo”, “profughi economici” e “naufraghi”, si imbastisce sulla pelle altrui la deportazione organizzata, che è umanitaria solo per chi ne trae profitto, sia in moneta sonante, sia nella prospettiva del dominio planetario.
Ora, nonostante l’evidenza di tutto questo, anche chi oppone un diritto di resistenza, finisce per cadere nella pania degli aspetti falsamente umanitari sui quali ad arte viene spinta una diatriba che mira ad eludere il nocciolo della questione. Ci si infila in una sorta di cul de sac, dove la stessa resistenza risulta fatalmente indebolita, e finisce per sfuggire anche alla coscienza comune la realtà “politica” del fenomeno, le regie che lo governano con l’aiuto della manipolazione mediatica, le conseguenze immediate e quelle a venire.
D’altra parte occorre mettere in conto anche un altro fenomeno che gioca ad oscurare il quadro di insieme. Cioè la più generale incapacità di considerare i fenomeni nella loro portata comunitaria, nelle conseguenze che essi producono su una intera collettività. L’individualismo dei moderni alimentato dai miti libertari serve al potere per far perdere di vista le esigenze fondamentali della comunità organizzata, che nulla ha a che fare con una somma degli individui atomizzati e casualmente assemblati.
Del resto, questa perdita di senso della comunità e delle condizioni del buon vivere comune, è quello che ha prodotto tutte le pseudo-leggi libertarie che, contro la stessa vocazione della legge ad essere strumento di tutela collettiva, proteggono il brutale interesse individuale. Nell’aborto legalizzato, nella omosessualità elevata a normale modello sessuale ed etico, nella auspicata depenalizzazione eutanasica dell’aiuto al suicidio, nel dominio della finanza sulla economia. Tutte leggi che non si preoccupano delle esigenze etiche di un popolo, né dell’arbitrio del potere, che non tutelano più la comunità e quindi di riflesso l’individuo al suo interno, ma l’interesse individuale a dispetto di quello collettivo. Ecco che da questa perdita del senso comunitario discende anche una perdita del senso identitario e si crea la massa degli apolidi morali che confondono il cosmopolitismo con l’indifferentismo culturale senza avere neppure più una vera cognizione di cosa significhi cultura nelle sue pur varie declinazioni.
Ecco perché la folle apertura alla invasione di popoli alieni si lega alla incapacità di leggerne le conseguenze sulla struttura e sulla vita comunitaria, sulla sacrosanta identità che un popolo ha il dovere, prima che il diritto, di coltivare e conservare, come l’individuo ha il dovere oltreché il diritto di conservare l’integrità del proprio corpo.
Una identità di popolo che si perde sia morfologicamente, sia attraverso la deculturazione di cui parla Camus. E la deculturazione ha a che fare con la perdita della terra e con la perdita della storia.
Ma questo tema merita un discorso a parte, perché occupa nel nostro tempo uno spazio che precede ed eccede quello della sostituzione di popolo.
– di Patrizia Fermani
https://www.riscossacristiana.it/la-sostituzione-di-popolo-serve-al-genocidio-culturale-e-viceversa-di-patrizia-fermani/
Il decalogo dimenticato
Nostalgia degli dei, una visione del mondo in dieci idee: la recensione sul Corriere della Sera di Pierluigi Panza
Intorno al diecimila avanti Cristo i nostri antenati cacciatori/raccoglitori incominciarono a stanziarsi in villaggi di pescatori, allevare animali, coltivare il grano e difendere il territorio circoscritto da una recinzione avviando un’idea di organizzazione perfezionatasi con lo sviluppo della scrittura, che tramandò su pietre o rotoli i nomi degli dei, i miti e le leggi della comunità. Gli dei — ogni civiltà ebbe i propri, ma sono comparabili — possono essere interpretati come archetipi che sintetizzano identità, leggi, usi, costumi di queste società stanziali e che indicano i limiti invalicabili della conoscenza e delle applicazioni tecniche, oltre i quali c’è la hybris, ovvero la tracotante sfida degli uomini all’infinito. La domanda che l’ultimo libro di Marcello Veneziani innesca è questa: con quale allegra inconsapevolezza la società contemporanea ha abbandonato questo tipo di sviluppo umano iniziato 12 mila anni fa?
Questo saggio sulle «cose essenziali, decisive» (Nostalgia degli dei. Una visione del mondo in dieci idee, in libreria dal 24 gennaio per Marsilio), riassume un po’ tutto il percorso di critico della cultura di Marcello Veneziani. Per l’autore di La rivoluzione conservatrice in Italia (SugarCo, 1987) tradizione, comunità e un certo valore spirituale della vita sono condizioni — simbolizzate dagli dei — che si pongono come rivoluzionarie per la contemporanea società nichilista, pragmatica, individualista e unificata solo dal denaro come strumento del globalismo: chi non crede negli stessi valori crede nel denaro come mezzo di scambio unificante, più delle religioni e degli imperi.
Gli dei, ovvero le dieci parole-chiave del Decalogo alle quali Veneziani guarda con nostalgia, sono steli che possono orientare un futuro sviluppo antico del mondo. Questi archetipi sono: Civiltà, Destino, Patria, Famiglia, Comunità, Tradizione, Mito, Anima, Dio, Ritorno. Gli dei che simbolizzano queste parole-chiave vanno intesi come archetipi dotati di apertura di senso. La Civiltà, ad esempio, è la dea che connette i popoli; la Famiglia quella che genera e procrea; ciò che trasmette i valori è la Tradizione; il dio del luogo è la Patria mentre la Comunità (che si oppone alla cultura utilitaristica e contrattualistica contemporanea) è la dea del legame sociale. Questi archetipi stanno dall’Inizio, prima della nascita delle idee filosofiche che si trasformano, poi, in ideologie con catastrofiche conseguenze pratiche o si semplificano, oggi, in algoritmi. Sono richiami stabili, alternativi alla visione pragmatica del mondo dove «il vero è ciò che funziona» (Richard Rorty, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli). La Comunità non può essere estesa universalmente come sui social, poiché è fondata su un’etica dell’onore che sigla l’appartenenza a valori condivisi. La Tradizione come senso di continuità, fedeltà e rispetto per chi ci ha preceduto è l’opposto della formazione che si dà a quel chierico vagante chiamato Erasmus e in quelle contemporanee fabbriche diseducative dell’opinione pubblica che sono i social. Questi ultimi appaiono quasi una rivisitazione dell’Intellettuale collettivo, punto sul quale la storia si ripete oggi come farsa con l’affermarsi della figura dell’influencer: Chiara Ferragni ha preso il posto di Michel Foucault.
Tutto è stato destrutturato: la storia è andata fuori servizio, il vecchio è solo una oscenità da nascondere, si allontana il vicino ma si vuole avvicinare il lontano, si moltiplicano «i domini senza domus», non c’è più la casa ma c’è l’account, trionfa una cultura che ha puntato su finanza, comunicazione globale e sistema rete, smaterializzando la Terra e i rapporti umani. Questa società degli apolidi, dell’incessante, della comunità senza confini e del mondo delle false ricostruzioni è il trionfo di quello che lo studioso americano Yuri Slezkine, nel saggio Il secolo ebraico (Neri Pozza), ha chiamato l’ebraismo mercuriale, movimento che ha forgiato la «stupefacente» modernità globalista, rete, finanziaria e senza luoghi. Hermes è il padre mitologico del web e Mercurio la divinità del capitalismo spregiudicato.
«Ormai soltanto un dio ci può salvare» (come scrisse, metaforicamente, Martin Heidegger) dall’infotainment, dalla tecnoscienza, dai deliri paralleli del digitale, dal biologismo estetico per cui tutti credono interessante ciò che è imposto dai grandi operatori della comunicazione? Se ciò accadesse, conoscenza e contemplazione tornerebbero a prevalere sulla trasformazione, l’educazione sulla ricerca, il Cosmo — ovvero una civiltà con confini e connessioni — sul Caos. Muterebbe la predilezione per tutto ciò che è nuovo e globale e il disinteresse verso ciò che tradizionale e locale.
Per alcuni critici, lo scenario di Veneziani è solo espressione nostalgica e reazionaria per il ritorno a una civiltà chiusa (da qui le ripetute citazioni di Platone) rispetto a una aperta, a-fondazionale e determinata solo dall’efficacia cogente delle sue trasformazioni. Il saggio erudito e ben scritto di Veneziani inocula, tuttavia, il dubbio che con la morte degli dei e della storia si stia proprio tornando alla preistoria, quella dei cacciatori/raccoglitori senza lavoro, senza casa, senza tradizione, esposti al caso e capaci solo di condividere cibo d’occasione in micro-comunità instabili: un cupio dissolvi, insomma! Una civiltà, infatti, e questo è il richiamo del libro, «non si esprime nell’evoluzione della tecnica e dell’economia ma nello sviluppo di tecnica ed economia in rapporto alla cultura e alla vita dei popoli singoli».
Pierluigi Panza, Il Corriere della Sera 23 gennaio 2019
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