ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 17 gennaio 2019

Se non sarà seren si rasserenerà?

PADRE CAVALCOLI A DON ARIEL SUL DIALOGO CON DON MINUTELLA. E FA I NOMI DI POSSIBILI ERETICI NELLA CHIESA…

Cari Stilumcuriali, qualche giorno fa l’amico don Ariel Levi di Gualdo sul blog Isola di Patmos ha avanzato alcune critiche nei confronti di padre Giovanni Cavalcoli, per il dialogo che quest’ultimo ha intrapreso e nutrito con don Alessandro Minutella. Padre Cavalcoli ci ha scritto una sua risposta alle critiche, che volentieri pubblichiamo.
Chiarimenti di Padre Giovanni Cavalcoli
Don Ariel Levi di Gualdo su Isoladipatmos del 9 gennaio scorso ha duramente criticato le osservazioni che ho fatto nel blog di Aldo Maria Valli alle parole di Don Alessandro Minutella, pronunciate nella precedente intervista, che gli aveva fatto il medesimo Valli nel suo blog Duc in altum. Rispondo qui alle critiche di Don Ariel. 

Comincio con l’osservare che tutto l‘attacco di Don Ariel contro di me, attacco che si presenta motivato dal rispetto per le scomuniche inflitte dall’autorità ecclesiastica a Don Minutella, seppur non privo di valide considerazioni, che accolgo, è viziato da diversi errori, ai quali adesso rispondo. 
Il primo errore appare subito dal titolo dell’intervento: «Non si disputa con gli scomunicati». E si domanda: «È opportuno disputare con un presbitero che dall’errore palese è sfociato nella eresia pubblica e manifesta e che si rifiuta in tutti i modi di ragionare?», e commenta: 
«È inquietante che Padre Giovanni Cavalcoli affermi e faccia presenti quelle che a suo dire sono le diverse e giuste ragioni di questo scomunicato, perché applicando analoga logica, l’insigne teologo anziano dovrebbe spiegare simili modo tutte quelle che sono le ragioni e gli elementi giusti che si trovano anche nel pensiero di Ario e di Pelagio, ma soprattutto in quello dei Modernisti e di quel Karl Rahner da lui recriminato usque ad nauseam in tutti i suoi articoli. Poi, se dal senso comune vogliamo applicare la logica aristotelica, l’eminente teologo domenicano dovrebbe sapere che dinanzi all’eresia, le buone ragioni sussistenti perdono qualsiasi valore perché l’errore è talmente grave che sovrasta ed annienta tutto ciò che di buono potrebbe sussistere, rendendole appunto insussistenti».
Rispondo dicendo che meraviglia molto che un sacerdote colto come Don Ariel dimostri tanta ignoranza sul fatto che uno dei fini istituzionali e delle pratiche più abituali e tradizionali dell’Ordine Domenicano, sin dalle sue origini, da otto secoli a questa parte, sia proprio quello di disputare ed argomentare con gli eretici e gli scomunicati, in un dialogo schietto e paziente, partendo da verità condivise, per persuaderli in base ad esse del loro errore e farli innamorare della luce della verità, considerando anche che Don Ariel mi conosce bene, così come conosce altri teologi e predicatori domenicani.
Don Ariel dimostra di ignorare qual è il metodo della disputa con gli eretici: concedere ad essi quanto di vero sostengono, per aiutarli ad accorgersi dei loro errori, che contraddicono alle verità da essi ammesse. 
Come documentazione di quella che è la missione domenicana, tra le tante che si potrebbero citare, mi limito a riportare alcune parole della Lettera del 28 giugno 2001, che S. Giovanni Paolo II rivolse al Padre Timothy Radcliffe in occasione del Capitolo Generale dell’Ordine. In essa il Papa parla della necessità di combattere «le grandi falsità che non muoiono mai» e di  impedire che «si metta in dubbio il concetto della verità»[1].
Tutti i fratelli e le sorelle della Famiglia Domenicana conoscono l’episodio del Santo Padre Domenico, che, dovendo passare una notte in una locanda gestita da un eretico cataro, tra un bicchiere di vino e l’altro, passò tutta la notte a discutere con il gestore, il quale, all’alba, invaso dalla luce che emanava da quell’uomo di Dio, si lasciò da essa illuminare, liberandosi dalle tenebre dell’errore, che lo tenevano  prigioniero. 
Don Ariel ammonisce: 
«Non è prudente discutere con chi, per la sua ostinata irragionevolezza e chiusura ad ogni genere di dialogo con l’Autorità Ecclesiastica, è stato proprio per questo colpito con duplice scomunica, a meno che non sia l’Autorità ecclesiastica stessa che chiede o che comanda ad un vescovo, ad un presbìtero o ad un teologo anziano di farlo, dettando al tempo stesso i motivi e le modalità con le quali discutere con uno scomunicato, ad esempio per tentare di riportarlo sulla retta via. Ebbene, Padre Giovanni ha forse ricevuto questo mandato dalla Santa Sede? O forse, la sua missio theologica, è al di sopra di ogni autorità ecclesiastica?»
Rispondo dicendo che per discutere con gli eretici, il Domenicano non ha bisogno di alcun mandato speciale. Gli è sufficiente il mandato che proviene dalla sua stessa professione religiosa domenicana. Oggi, dopo il Concilio Vaticano II la Chiesa non pone alcuna proibizione al dialogo con gli eretici, neppure ai laici, anzi lo incoraggia, ovviamente raccomandano sempre la prudenza. 
Il problema è che sono gli eretici che cercano i cattolici per sviarli dalla verità. Bisogna dire che purtroppo i Vescovi fanno poco per proteggere il gregge. A me gli eretici non si avvicinano, perché sanno che avrebbero poco da raccogliere. Io più volte ho tentato di contattarli, per esempio i rahneriani, ma ho trovato sempre un muro o perché li metto in imbarazzo o perché mi disprezzano. Sanno che con me Rahner non attacca. Tuttavia, io sono sempre pronto a contattarli per condurli a Cristo, ricordando loro i doni che hanno ricevuto da Dio: questo è il motivo per il quale mi sono rivolto a Don Minutella nell’appello pubblicato dal blog La Voce di Don Camillo di Giovanni Zenone. 
Don Ariel cerca di mettermi in contraddizione con me stesso accusandomi di confondere i fedeli: 
«Ma soprattutto: in questo clima di grande smarrimento che infesta il corpo dei fedeli, egli ritiene di rendere alla Chiesa ed ai Christifideles un servizio particolarmente splendido, annunciando urbi et orbi quelle che sono le ragioni di fondo di un eretico scomunicato che semina veleni, pur procedendo poi ad enunciare quelli che sono i suoi errori? Nostro dovere e compito, non è forse di tutelare il Popolo di Dio, anziché disorientarlo offrendo spiegazioni che lo scomunicato in questione ha tutta una serie di indubbie ragioni, salvo poi aggiungere: si, ma però …?»
Ma la maniera migliore per tutelare i fedeli, indicata dalla pastorale del postconcilio, è quella di abituarli a discernere nelle dottrine ereticali il vero dal falso, sicché possano assumere i valori come base di dialogo e conoscerne gli errori, al fine di tutelarsi e non lasciarsi sedurre. 
Secondo Don Ariel, io finirei per diventare un patrono di Don Minutella:
 «O crede forse, il Padre Giovanni, che tutti i Lettori capiscano veramente i palesi errori di questo eretico scomunicato, dopo la sua sperticata enunciazione introduttiva di tutte quelle che sarebbero le sue ragioni? Agendo con siffatta e grave leggerezza pastorale e pedagogica, l’insigne teologo domenicano non pensa che potrebbe indurre non pochi Lettori a credere che questo presbìtero palermitano — specializzato ormai da un paio d’anni a dichiararsi vittima perseguitata da parte della «falsa Chiesa dell’antipapa Bergoglio» —, finisca per figurare come un soggetto colpito e punito proprio in virtù di quelle sue valide ragioni elencate da Padre Giovanni in tutta la parte introduttiva del proprio scritto?».
Rispondo dicendo che io appoggio Don Minutella solo laddove ciò che dice è condivisibile, mentre lo disapprovo nei suoi errori. Dunque i Lettori vedranno in questo atteggiamento l’apertura di mente di chi sa apprezzare il vero e la giustizia di chi condanna il falso.
Don Ariel insiste che si deve stare alla larga dagli eretici:
 «Detto ciò si aggiunga: non erano forse proprio i più illustri teologi domenicani a spiegare ed a raccomandare ai Christifideles ed ai sacerdoti non molto ferrati in teologia, di stare alla larga dagli scomunicati e dagli eretici e di non parlare con loro?» 
Vorrei che Don Ariel mi dicesse chi sono questi «illustri teologi domenicani», che raccomandano così perentoriamente e tassativamente di «stare alla larga dagli scomunicati e dagli eretici e di non parlare con loro». In realtà se li è inventati lui, perché la loro reale posizione, a cominciare dal Fondatore dell’Ordine S. Domenico, S. Tommaso e via via tutti i grandi santi e predicatori e missionari, non fanno altro che basarsi sulla Sacra Scrittura, la quale non dà una norma fissa per tutti i casi, ma insegna a sapersi regolare caso per caso, sempre con carità e prudenza, in obbedienza alle direttive della Chiesa e dei  Superiori. 
Certamente la Scrittura mette in guardia contro gli eretici. Esorta ad evitarli (Tt 3,10), a non salutarli (II Gv 10), a non incontrarli (Gd 13). Ma in altrettanti e più numerosi passi vediamo, soprattutto in S. Paolo, esempi di dispute con loro, le quali vanno certamente fatte in base ad un’opportuna preparazione. 
Eminente esempio è quello stesso di Nostro Signore, nelle sue dispute con i farisei e i dottori della legge. Certamente, come nel caso di S.Stefano, ad alcuni la disputa costa la vita. Questo è il tipico martirio domenicano: morire per la causa della verità. Occorre quindi sapersi destreggiare a seconda delle circostanze. Con certi eretici si può tentare un approccio; con altri è sconsigliabile.
Bisogna tener presente che la figura dell’eretico è molto complessa. Occorre evitare tanto il semplicismo della condanna globale, come l’ingenuità di chi si lascia accalappiare col pretesto del dialogo. L’eretico pericoloso e irrecuperabile non è tanto chi è vittima dell’errore, perché può essere in buona fede. Qui abbiamo la cosiddetta «eresia materiale». 
Eretico «formale» è invece colui che per superbia o in nome di una falsa libertà o per istigazione del demonio o per un bisogno di autoaffermazione o per voler emergere o dominare sugli altri o per crearsi una fama o per smania di novità, non si assoggetta alla verità, ma la considera come una produzione del proprio io, che così diventa un Io assoluto, che non accetta critiche, correzioni o rimproveri da nessuno.
L’eretico materiale è come un malato che si lascia curare. L’eretico formale è invece un malato che non vuol guarire, perché si considera sano e considera malato il medico. Gli eretici vogliono correggere il magistero del Papa, perché hanno trovato o ritrovato il vero Vangelo, perché Cristo o lo Spirito Santo o la Madonna o la Tradizione ha rivelato a loro la vera fede tradita dal Papa. Si presentano come i salvatori della Chiesa, che essi intendono liberare dalle mani del Papa.
Come si spiega il successo degli eretici? Essi hanno una tecnica raffinata, che potrebbe avere un grande maestro in Martin Lutero. Essi puntano sostanzialmente su due riferimenti: o il bisogno di una riforma o il recupero di una tradizione originaria perduta. Lutero giocò abilissimamente questa duplice carta. Di solito lo si presenta come «riformatore» o come un innovatore, ed è giusto. Ma egli volle e credette di essere anche il restauratore, credette cioè, con la sua teoria della giustificazione, di aver ritrovato il senso vero del Vangelo contro la falsificazione operata dai Papi del Medioevo. 
Quindi gli eretici non vanno condannati in blocco, come sembra fare Don Ariel, ma bisogna fare un esame accurato del loro sistema di pensiero e delle loro intenzioni, occorre dare un giudizio sulla loro condotta morale, così come un medico farebbe una TAC su di un malato, per scoprire dov’è e di che tipo è il morbo, da cui il malato è afflitto. 
Infatti, il sistema di pensiero dell’eretico, che comprende l’insieme delle sue idee religiose, morali e teologiche, non dev’essere respinto in toto, per quanto inquinato dall’eresia, ma bisogna recuperare in esso i valori rimasti intatti dalla distruzione operata dall’eresia, perché da questi valori egli può e deve partire  nel caso che voglia liberarsi dell’eresia. Questa guarigione avviene sostituendo l’idea cattolica a quella eretica, in modo simile a quello per il quale, in un cardiopatico si sopperisce alla debolezza del cuore con l’inserimento di un apposito apparecchio, che ne rafforza le funzioni indebolite. La Congregazione per la Dottrina della Fede è una clinica per la cura delle eresie..
Il secondo errore di Don Ariel, ben più grave, è la convinzione che ha espresso nei sui ultimi interventi a Isoladipatmos, e che gli ho confutato nel medesimo sito,  convinzione secondo la quale il Papa, nel suo magistero ordinario e quotidiano, trattando di  materie di fede o connesse con la fede, può peccare contro la virtù teologale della fede, può respingere la grazia, la luce e la mozione dello Spirito Santo sul suo intelletto e sulla sua volontà, e quindi può sbagliarsi, può ingannarsi e quindi può ingannarci.  Da qui l’accusa fatta a Papa Francesco di peccare in tal senso.
Ora, una accusa del genere si oppone a quanto S. Giovanni Paolo II insegna, per mezzo della CDF, nella sua Lettera Apostolica Ad tuendam fidem del 1998, insegnamento, basato sulla dottrina della grazia magisteriale, esclusivamente propria del Sommo Pontefice, come Maestro della fede, dottrina che si ricava  dal comando fatto da Cristo a Pietro di confermare i fratelli nella fede (Lc 22,32).  
Se Papa Francesco si sbagliasse e ci ingannasse nell’insegnarci i dogmi della fede o le verità del Vangelo o ci insegnasse delle eresie, dovremmo pensare che allora Cristo, dopo la resurrezione, ha dato a Pietro un comando, al quale Pietro avrebbe potuto disobbedire, in modo tale che ciò sarebbe frustrare la preghiera di Cristo al Padre, che la fede di Pietro «non venga meno» (ibid.), cosa che non possiamo ammette senza manifesta empietà e incredulità, per cui cadremmo noi nell’eresia, come è successo a Lutero.
Don Ariel si chiede poi, quasi in tono di sfida: che cos’è per Padre Giovanni una scomunica? Non ho difficoltà a rispondere, visto che questo è un tema, connesso con quello l’eresia, circa il quale noi Domenicani ci formiamo una speciale  preparazione.  
La scomunica è un atto giudiziario di espulsione o allontanamento di un fedele dalla comunione ecclesiale visibile, per un grave peccato o delitto di disobbedienza al Papa, come Capo della Chiesa terrena, «dolce Cristo in terra», come dice S. Caterina da Siena. È ad un tempo un peccato contro la Chiesa e contro il Papa, due entità assolutamente inseparabili, perché non ci può essere la Chiesa senza il Papa, né d’altra parte il Papa non può separarsi dalla Chiesa. 
Uno potrebbe altresì essere scomunicato per apologia di pericolosi e notori nemici della Chiesa. Pensiamo per esempio a Mons. Paglia, che ha tessuto le lodi di Marco Pannella. Anche chi osa elogiare il regime comunista cinese come «esemplare attuazione della dottrina sociale della Chiesa», come Mons. Sorondo, non si può dire che dimostri una piena comunione col Magistero sociale della Chiesa.
La comunione con la Chiesa è soggetta a gradi. Secondo la Unitatis redintegratio (n.3) del Vaticano II, i protestanti, per esempio, non fruiscono di una piena comunione con la Chiesa. Il tralcio può essere più o meno staccato dalla vite. Questo vuol dire che la scomunica non toglie sempre totalmente la comunione, ma occorre di volta in volta verificare nello scomunicato il grado di comunione che gli è rimasto. Don Minutella può riflettere ed interrogarsi su ciò.
Ribellarsi al Papa danneggia la Chiesa o si volge anche contro la Chiesa, in quanto governata dal Papa. La Chiesa, offesa nel suo Capo, viene così turbata o divisa dallo scomunicato, il quale forma una setta o eretica o scismatica, che si presenta come la vera Chiesa contro la «falsa Chiesa» del Papa.  È, purtroppo, il caso di Don Minutella. 
Dev’essere ben chiaro che una scomunica, sia giusta o sia ingiusta, allontana o esclude dalla comunione ecclesiale visibile e giuridica (foro esterno), ma non sempre comporta l’esclusione o l’annullamento di una reale comunione interiore e reale (foro interno), animata dalla grazia, dello scomunicato con la Chiesa stessa e quindi, in fin dei conti, con Dio. L’autorità ecclesiastica (Papa o Vescovo) può escludere dalla comunione esterna, ma non da quella interiore, alla quale solo lo scomunicato può sottrarsi col peccato.
S. Tommaso distingue una scomunica valida da una invalida, e una scomunica giusta da una ingiusta. Quella valida è quando l’autorità rispetta le regole e i procedimenti formali. Per esempio è competente oppure si precisano il tipo e le ragioni della scomunica (latae sententiae o ferendae sententiae). 
La scomunica è giusta, quando si riferisce a un grave delitto contro il Papa o contro la Chiesa o contro la fede, previsto dal Diritto, commesso pubblicamente ed ostinatamente dallo scomunicato. Se la scomunica è invalida, insegna l’Aquinate, essa è nulla e lo scomunicato può non tenerne conto. Se invece è giusta, la scomunica ha effetto e lo scomunicato deve accettarla umilmente, pronto a soffrire per Cristo e per la Chiesa. 
E purtroppo la scomunica inflitta a Don Minutella, come ho dimostrato nel mio scritto su di lui nel blog di Aldo Maria Valli è valida e giusta; per cui Don Alessandro farebbe bene ad accettarla serenamente ed umilmente con vero spirito sacerdotale: farebbe cosa grata a Dio, sarebbe di edificazione e consolazione ai fedeli ed otterrebbe la benevolenza del Santo Padre. Resistendo, invece, dà scandalo, incita alla ribellione al Papa, e divide quella Chiesa che egli dice di amare e servire.
È vero che l’autorità, nell’infliggere una scomunica, può sbagliare o perché affrettata o mossa da passione o perché viziata da parzialità o perché non sa giudicare dell’intenzione dello scomunicato, che può essere buona o perché non si cura di capire i motivi del suo comportamento o perché non ascolta la sua difesa. 
Più volte i Papi del Medioevo scomunicarono sovrani ed imperatori. Difficile giudicare se fecero bene o male. Nel caso del Savonarola, gli storici opinano che la scomunica inflittagli da Alessandro VI soffrisse di un vizio di forma. Certamente era ingiusta. Valida invece e giusta fu la scomunica di famosi eretici come Jan Hus, John Wyclff, Lutero, Giordano Bruno o di alcuni modernisti, come il Tyrrel, il Loisy e il Buonaiuti. Dubbia invece se fosse giusta è quella di Don Romolo Murri. 
Imprudente fu invece forse S. Pio V a scomunicare Elisabetta, Regina d’Inghilterra, cosa che scatenò una terribile persecuzione degli anglicani contro i cattolici.  La scomunica lata sententia è comminata dal Codice di Diritto Canonico del 1917 (can.2335) per gli affiliati alla massoneria. Giusta fu certamente la scomunica che, nel 1949, Pio XII comminò agli aderenti al comunismo ateo. E così pure giusta possiamo considerare la scomunica comminata di recente da Papa Francesco agli aderenti alla mafia. Anche la scomunica inflitta da S.Paolo VI a Mons.Lefebvre fu giusta. Ma saggia è stata la decisione di Benedetto XVI di togliere la scomunica ai Vescovi lefevriani. 
Oggi le scomuniche sono rarissime. Ma non è un bene, perché ciò favorisce lo scisma, l’eresia e la corruzione dei costumi. Quello che capita oggi è la negligenza delle autorità e la mancanza di giustizia e di equanimità nei giudizi: troppa indulgenza per non dire favoritismi verso i modernisti,  troppa severità per non dire maltrattamenti verso i lefevriani. Si applicano, come si suol dire, «due pesi e due misure». La bilancia pende da un sola parte, quando invece iI problema del modernismo è più grave del problema del lefebvrismo. Eppure le maggiori durezze sono per i lefevriani.
Questo non è il modo per risolvere questo gravissimo problema del cinquantennale conflitto tra le due parti, che sta lacerando la Chiesa. Se il giudice non è imparziale, al di sopra delle parti ed equidistante da ambo le parti, non può fare da paciere. Qui purtroppo Papa Francesco si mostra partigiano ed è molto manchevole. Su questo punto Don Minutella ha ragione.
Personaggi in vista ed influenti, di orientamento modernista, teologi, per esempio, come Andrea Grillo, storici come Alberto Melloni, Gesuiti come i Padri Spadaro, Arturo Sosa e James Martin, falsi profeti come Enzo Bianchi, e inoltre i Padri Timothy Radcliffe ed Hermes Ronchi, nonché Vescovi come Galantino, o Forte, Cardinali come Kasper, Zollitzsch o Ravasi, ben a maggior ragione di quanto si fece con Mons. Lefebvre, dovrebbero essere a mio giudizio oggetto di un prudente e oculato intervento disciplinare.
Così pure si sarebbero dovuti scomunicare per tempo i maggiori responsabili della ripresa modernista dell’immediato postconcilio e della falsificazione del Concilio, come Rahner, Gustavo Gutiérrez, Johann Baptist Metz, Schillebeeckx ed Häring. La loro mancata condanna, che avrebbe messo in luce il vero significato del Concilio, ha finito per provocare un discredito terribile sul Concilio, anche se è possibile scoprire l’inganno. Su questo punto Don Minutella parzialmente ha ragione. Lo diceva anche il mio insegnante di teologia morale, il Padre Alberto Galli, quando ero studente allo Studio domenicano bolognese. 
Ma adesso che la malapianta è diventata una quercia, chi riesce più ad abbatterla? Papa Francesco? Perché no? Qui non condivido la sfiducia di Don Minutella. Francesco, nonostante tutto, resta Vicario di Cristo e Maestro della fede. Deve però smettere di fare l’attore, deve ravvedersi e darsi una mossa per mettere ordine nella Chiesa, cacciando i mercanti dal tempio ed accogliendo, soprattutto fra i collaboratori, tutti gli uomini di buona volontà. 
Occorrerebbe, però, una ventata fortissima di Spirito Santo, che non si può escludere, anzi dobbiamo invocarla. Questa potente ventata sarebbe la vera «nuova Pentecoste» sperata da S. Giovanni XXIII, altro che il Papa «rivoluzionario» di Padre Spadaro o il Papa delle «riforme», lodato dalla massoneria o il Papa sincretista di Alberto Melloni o il Papa «liberatore dei popoli» e leader della sinistra internazionale, esaltato da Maduro o il Papa della «svolta epocale», al quale inneggiano i Card. Bassetti e Parolin!
Il terzo errore di Don Ariel sta nel respingere in tono scandalizzato l’innocente titolo, ormai corrente, anche nella celebrazione della S.Messa, dato a Papa Benedetto, di «Papa emerito» con queste argomentazioni:
 «Padre Giovanni confonde i Christifideles già fin troppo confusi dando per scontati e per esistenti degli istituti giuridici che non esistono, per esempio la figura del “papa emerito”, o “il doppio papato”, o peggio due pontefici “entrambi tali ma uno dotato del ministero attivo e l’altro ritiratosi nel ministero passivo”, insomma “due papi entrambi legittimi nella loro diversità di ministero”, come egli afferma tra le righe di quel suo intervento sul blog di Aldo Maria Valli…Il termine “papa emerito” è solo un modo di dire colloquiale e improprio, o meglio giornalistico, perché mai in questi ultimi cinque anni è stata istituita dalla Chiesa la figura e l’istituto giuridico del “papa emerito” inserito come tale nel Codice di Diritto Canonico. Anzi: su questo argomento tutti i canonisti tacciono, compreso l’insigne canonista gesuita Gianfranco Ghirlanda, che poco dopo la rinuncia di Benedetto XVI non mancò di far presente e di spiegare che un atto di rinuncia è legittimo e previsto dal Codice di Diritto Canonico e che il rinunciante sarebbe dovuto tornare al suo stato precedente l’elezione al sacro soglio, giacché:  “È evidente che il papa che si è dimesso non è più papa, quindi non ha più alcuna potestà nella Chiesa e non può intromettersi in alcun affare di governo. Ci si può chiedere che titolo conserverà Benedetto XVI. Pensiamo che gli dovrebbe essere attribuito il titolo di vescovo emerito di Roma, come ogni altro vescovo diocesano che cessa”…Siccome però, le cose sono andate diversamente, oggi ci troviamo di fatto dinanzi ad un paradosso che ad oltre cinque anni di distanza dall’atto di rinuncia di Benedetto XVI non è stato ancòra chiarito, meno che mai regolamentato con un apposito istituto giuridico; forse mai creato perché non può proprio essere creato…Sul mai istituito istituto giuridico del “papa emerito” nessun canonista si è mai espresso, neppure facendo delle ipotesi, tanto meno dinanzi al paradosso mai verificatosi prima nella storia della Chiesa di “due pontefici, uno regnante e uno ritirato, entrambi legittimi come tali”. Questo sostiene infatti Padre Giovanni che a 77 anni è divenuto d’improvviso anche esperto canonista, sciogliendo sui blog dei giornalisti dei nodi che ancora la Chiesa non ha sciolto. E non li ha sciolti perché la Chiesa, in silenzio, attende che la morte di Benedetto XVI ponga fine al paradosso giuridico che di fatto si è creato, giacché il rinunciatario non è tornato al proprio stato precedente l’elezione, ma soprattutto non ha provveduto, prima della sua rinuncia, a creare il nuovo ed apposito istituto giuridico del cosiddetto “papa emerito”». E cita a sostegno della sua tesi anche il «Cardinale Walter Brandmüller, che è un grande studioso che conosce bene ed a fondo il proprio mestiere di storico della Chiesa e di ecclesiologo».
Rispondo dicendo che il fatto che tuttora non esista il titolo canonico di «Papa emerito» non crea nessun problema. Preciso intanto che la distinzione citata da Don Ariel «due pontefici entrambi tali ma uno dotato del ministero attivo e l’altro ritiratosi nel ministero passivo», non è mia, ed io pure la disapprovo, perché in realtà si tratta di due diverse attività, come tornerò a spiegare. 
Con la figura del Papa emerito, noi non ci troviamo affatto «dinanzi ad un paradosso che non è stato ancòra chiarito». Non si tratta di un paradosso, ma di un aspetto del carisma papale, un mistero di fede, che finora era rimasto celato ed implicito, e che Papa Benedetto, nello spiegare il senso del suo attuale compito nella Chiesa, ha chiarito e ci ha insegnato e cioè che una volta che uno è Papa, è Papa per sempre, anche se dà le dimissioni. 
Sta qui la novità dell’insegnamento di Benedetto, che a tutta prima può effettivamente apparire paradossale, perché noi siamo abituati a pensare – vedi per esempio il caso di S.Celestino V – che un Papa che dia le dimissioni non sia più Papa. In che senso allora Benedetto è ancora Papa? Lo ha spiegato o quanto meno ci ha dato una chiave ermeneutica Mons.Gänswein, parlando di un papato «spirituale» e «orante», facendoci comprendere che il papato non è un semplice ufficio, cessato il quale, il Papa dimissionario torna allo stato di semplice Cardinale.
Questo, Benedetto lo ha assolutamente escluso nel suo caso. Il che vuol dire allora che egli considera il papato come una qualità indelebile dell’anima, come una grazia di stato, permanente, un munus, che il soggetto non può perdere, anche se dà le dimissioni, anche se non esercita più l’ufficio proprio del munus, ufficio il cui esercizio è quell’esercizio del pontificato per il quale il Papa è uno solo. Allora ci sono sì o no due Papi? Bisogna distinguere. 
Se per «Papa» intendiamo il semplice munus a prescindere dall’esercizio, allora possiamo dire tranquillamente, senza scandalo, che abbiamo due Papi. Se invece per «Papa» intendiamo l’esercizio del munus – è l’unico senso della parola finora invalso -, allora dobbiamo dire  che il Papa è uno solo. Però, il doppio papato non è propriamente, come dicono alcuni, un papato «allargato», come se l’esercizio dell’ufficio da uno passasse a due o come se se esercitassero assieme l’ufficio papale alla pari, una specie di papato «collegiale», perché ciò toglierebbe l’unicità del Papa e cadremmo nell’eresia. Un solo Pastore, perché Cristo è un solo Signore (I Cor 8,6; Ef 4,5). 
Non dunque papato allargato, ma semmai papato arricchito, ossia l’unico papato, che mostra un significato più ampio nel suo aspetto fondamentale, radicale, ontologico, costituzionale, spirituale, contemplativo, orante, finora rimasto celato, segreto ed ignoto. base e supporto dell’esercizio, che sono il magistero pontificio e il governo della Chiesa, che spettano solo a Francesco. Toccava invece a Benedetto svelarci questo mistero, grazie al sacrificio di sé nelle sue dimissioni. Resta sempre vero, come ci ha insegnato Cristo, che la verità si svela nella sofferenza per amore. E cosa è stato, se non l’amore per la Chiesa, che ha indotto Benedetto alle dimissioni?
Aggiungo che non importa se la figura del Papa emerito non esiste nel Diritto canonico e non è mai finora stata usata. L’importante è che per adesso essa abbia un fondamento teologico, e della teologia di Papa Ratzinger ci si può fidare, tanto più che non c’è da dubitare che egli abbia concordato quell’espressione con Papa Francesco. La codificazione sarà fatta in futuro. Il futuro non si costruisce  limitandosi a guardare al passato, ma ascoltando «ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 2,7). Questo vale anche per quanto dice il Card. Brandmüller, illustre storico, certamente. Ma se guardassimo solo al passato, la Chiesa non progredirebbe mai..
Secondo Don Ariel io «tocco l’apice» dello scandalo in questo mio scritto affermando: «Cristo ha voluto un solo Papa come Papa in esercizio del suo ufficio. Ma non ha escluso la possibilità di due Papi legittimi, come è oggi, dei quali, però, uno solo esercita l’ufficio, ovvero Francesco»..
Commenta Don Ariel: «Quest’affermazione è gravissima perché tira in ballo la voluntas Dei, pertanto Padre Giovanni ha il dovere morale e teologico di spiegare come, in che forma ed attraverso quali parole Cristo Signore «non ha escluso la possibilità di due Papi legittimi», perché se a tal proposito ha ricevuto una rivelazione, deve anzitutto presentarla alla Chiesa, dopodiché attendere che la Chiesa la riconosca come rivelazione soprannaturale autentica. …
Dobbiamo infine ammettere dolorosamente in pubblico che quando egli si fissa su un punto diviene intrattabile sino alla perdita del logico senso critico, come per esempio quando di recente ha scritto e affermato che il Sommo Pontefice: “è infallibile pure se fosse non tanto peccatore, ma liberamente chiuso alla Grazia, perché la grazia comunque opererebbe al di là della sua stessa volontà, in quanto lo Spirito Santo opererebbe e non permetterebbe mai al di là della sua volontà e del suo libero arbitrio che possa cadere in errore nelle materie di dottrina e di fede”».
Desidero qui chiarire che parlando di questa grazia, nei confronti della quale il Papa può esser chiuso, non intendevo evidentemente riferirmi alla grazia  magisteriale o della fede, che gli è sempre assicurata e che sempre muove la sua volontà, ma alla grazia santificante e a quella pastorale.
Devo dunque precisare che io non ho affatto detto che il Papa nel suo magistero resterebbe «infallibile», cioè sempre veridico, pur chiudendosi alla grazia della fede, «in quanto lo Spirito Santo opererebbe e non permetterebbe mai al di là della sua volontà che possa cadere in errore nelle materie di dottrina e di fede».
Io ho detto che la grazia dello Spirito Santo muove sempre la volontà del Papa a credere alle verità di fede e a comunicarle ai fedeli e alla Chiesa nel suo magistero non solo straordinario e solenne, ma anche ordinario e quotidiano. Ma la cosa fondamentale da tener presente è che Dio crea, causa e muove l’atto della volontà del Papa col quale egli aderisce sempre, infallibilmente ed indefettibilmente alla Parola di Dio, al Vangelo, al dogma e al dato rivelato.  
Ancora riguardo a quanto ho detto circa la grazia della fede, che il Papa non può perdere, anche nel suo passo seguente Don Ariel mostra di non aver capito quanto ho scritto su Isoladipatmos. Dice egli infatti:
«Dio, che non può dotare l’uomo di libertà e di libero arbitrio da una parte, per poi dall’altra revocargli all’occorrenza queste facoltà — che sono peraltro un suffisso stesso del mistero della creazione — e per di più, il tutto, attraverso l’opera dello Spirito Santo (!?)». 
Rispondo dicendo che Dio, nel muovere la volontà del Papa, non revoca affatto la libertà del suo atto, ma al contrario la crea e la «pre-muove» ossia la muove a  muoversi. È la cosiddetta «premozione fisica», della quale parla il Padre Domingo Bañez, famoso teologo domenicano spagnolo del sec. XVI.
Dio, quindi, nel muovere la volontà del Papa a compiere l’atto di fede, non gli revoca affatto la libertà dell’atto, ma lo crea proprio come atto libero. Non è Dio il creatore di tutte le cose? Il che vuol dire che lo Spirito Santo non opera affatto «al di là» della volontà del Papa, ma opera nella volontà e a contatto con la sua volontà, così come una causa efficiente dev’essere a contatto dell’effetto per essere efficace e muovere l’effetto.
Infine una nota importante: la differenza fra l’atto di fede del Papa e il nostro. Similmente alla fede indefettibile di Maria SS.ma, il Papa non può mai peccare nella fede, mentre noi sì. Il Papa può peccare in tutte le virtù, ma non nella fede. Perché? L’ho già detto e lo ripeto: perché l’atto volontario del Papa, benché in linea di principio peccabile, è sempre reso buono e verace da una specialissima, continua ed indefettibile assistenza e mozione dello Spirito Santo.
Invece il nostro atto di fede, per quanto sostenuto dalla  grazia, può mancare o venir meno per colpa nostra, cioè possiamo peccare di incredulità, di eresia o apostasia, in quanto possiamo sempre respingere la grazia della fede, mentre la volontà del Papa, nella virtù della fede, come ho detto, non devìa e non si ribella mai, ma è sempre docile, illuminata e mossa dallo Spirito Santo. Se Cristo ha pregato il Padre affinchè la fede di Pietro non venga meno (Lc 22,32), possiamo pensare che il Padre non Lo abbia esaudito?
Insomma, la lampada della fede del Papa non si spegne mai. Dovesse anche tutta la Chiesa rimanere al buio, il Papa conserva sempre questa preziosissima lampada. Alcuni invece oggi – e temo che tra costoro ci sia anche Don Minutella – davanti alla crisi di fede diffusa nella Chiesa, credono che la lampada del Papa si sia spenta, mentre loro avrebbero conservato la luce della «Tradizione». Ma non tengono conto del fatto che Cristo ha promesso a Pietro e non a loro l’assistenza infallibile dello Spirito Santo.
Nel mio convento esiste un sistema di illuminazione di emergenza, che funziona sempre, anche quando fuori convento nella città dovesse avvenire un black-out. Il Papa è questo sistema di emergenza, al quale occorre ricorrere quando arrivano le tenebre. Alcuni hanno l’impressione che invece – e Don Minutella è fra questi – Francesco non solo non ci aiuti, ma che addirittura confonda ancora di più. 
Per dissipare questa matassa, faccio un paragone. L’abito della fede è come il possesso di un buon paio d’occhiali. Come gli occhiali ci consentono di vedere bene le cose fisiche, così la fede ci consente di vedere la verità divina. Il problema di Francesco non è che egli non possegga gli occhiali della fede. Li possiede, ma lascia che si appannino. Non pecca contro la fede, non possiede cattivi occhiali, ma è negligente nel tenerli puliti, così gli capita che quando si trova in queste condizioni,  confonde i veri con i falsi amici, i critici con i nemici, non distingue adeguatamente il cattolicesimo dal luteranesimo, i funghi velenosi da quelli sani, gli agnelli dai lupi travestiti da agnelli..
Devo infine riconoscere, come mi fa notare Don Ariel, di non aver menzionato, tra le eresie di Don Alessandro, che ho citato, la seguente, ossia: «la grave ed empia affermazione circa la invalidità di tutte le Sante Messe celebrate in comunione con il Sommo Pontefice Francesco». 
Preciso che non ho inteso elencare tutte le eresie di Don Minutella, ma ho parlato di «due fondamentali»: la negazione dell’autorità del Concilio Vaticano II e la negazione della validità del papato di Francesco. 
Posso osservare comunque che la negazione della validità della Messa celebrata da Francesco o una cum Francisco, è implicita nella negazione della validità del magistero di Francesco. Ora, siccome in questo insegnamento è contenuto implicitamente il dogma del sacrificio eucaristico, Don Alessandro, negando l’autorità di Francesco, viene con ciò a cadere nell’eresia di negare la validità della Messa una cum Papa Francisco.
Don Minutella comunque dimentica che il sacerdote ha il potere di dir Messa, anche ammesso e non concesso che il Papa Francesco sia illegittimo.  La Messa quindi non è valida in forza dell’unione col Papa legittimo e invalida se il Papa non è legittimo, ma è valida comunque e di per sé in forza del potere sacerdotale. 
In conclusione, il litigio fra lefebvriani e modernisti sta tormentando la Chiesa da cinquant’anni. Francesco, favorendo i modernisti e maltrattando i lefebvriani, è incapace di favorire la pace e la concordia. Don Minutella ha ragione nel lamentare questo fatto. Egli però è troppo vicino ai lefebvriani, per cui anch’egli ha bisogno di equanimità per rendersi autorevole  e mediatore in quest’opera di pace. 
Bisogna che noi cattolici, che stiamo nel punto dell’equanimità e dell’imparzialità tra i due partiti in conflitto, aiutiamo sia Don Minutella che il Papa nella necessaria opera di pace e di riconciliazione, cercando di comprendere il vero significato del Concilio, liberato dall’interpretazione rahneriana e modernista, che è la causa principale dell’attuale rovina della Chiesa. 
Conservazione e progresso, continuità e riforma, fedeltà e rinnovamento, tradizione e ammodernamento sono fatti per congiungersi e completarsi reciprocamente e fraternamente nella costruzione della Chiesa sotto la guida del Vicario di Cristo.
Don Minutella fa bene ad opporsi a Rahner e ai modernisti, ma bisogna che riconosca umilmente e saggiamente in Francesco il vero Papa, pur con tutti i suoi difetti umani,  insieme con Benedetto, Papa orante, se vuole vincere la battaglia contro il modernismo e contro Satana.
Aiutiamo Francesco a liberarsi dalle forze disgregatrici e a realizzare la sana modernità voluta dal Concilio, nella luce della Madonna di Fatima, Regina della Pace.
P.Giovanni Cavalcoli
Varazze, 15 gennaio 2019
[1]Citata nel mio libro La questione dell’eresia oggi, Edizioni Viverein, Monopoli (BA), 2008, p.301, dove presento una sintesi della Lettera.

Marco Tosatti
17 Gennaio 2019 Pubblicato da  9 Commenti --

Oggi è il 140° giorno in cui il pontefice regnante non ha, ancora, risposto.
Quando ha saputo che McCarrick era un un uomo perverso, un predatore omosessuale seriale?
È vero o non è vero che mons. Viganò l’ha avvertita il 23 giugno 2013?
Joseph Fessio, sj: “Sia un uomo. Si alzi in piedi, e risponda”.

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