ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 4 febbraio 2019

E' possibile il sacro senza sacrificio?

AMA DIO PIU' DI TUO FRATELLO


La vera domanda che ci tocca come moderni, passati dall’età della fede all’età del nulla, è se è possibile il sacro senza violenza: se è possibile, cioè andare verso il divino, non attraverso il dolore, risparmiandoci "la croce" 
di Marcello Veneziani  

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Se avete nostalgia degli dei andate a vedere Il Primo Re, un gran film su Romolo, Remo e la nascita di Roma sotto il fuoco divino. Di solito se vai al cinema a vedere un film storico, ti trovi il solito refrain: il passato viene adattato all’oggi, attualizzato e ideologizzato, parlano di Enea come un migrante clandestino, Spartacus come un Landini dell’antichità, la storia è rivista col metro piccino del presente: vedi femministe in erba, omosessuali liberati, schiavi sindacalizzati e negri sempre buoni e generosi. Il male viene rappresentato come il fascismo degli antichi, il nemico è un nazista ante litteram.
Se invece pensate che la storia antica debba essere rappresentata in tutta la sua gloriosa e cruenta distanza dal presente, il Primo Re è il capolavoro che aspettavate

Il cinema è l’officina del mito nei nostri tempi e il Primo Re lo esprime in pieno, senza edulcorare la durezza del passato. Nel film si avverte già nella scelta del linguaggio protolatino il rispetto per i quasi tremila anni che ci separano dal tempo in cui fu fondata la Città Eterna. La presenza del sacro, delle forze elementari della natura, l’irruenza dei legami primari per la vita e per la morte, la forza del comando e il timor di dio, l’importanza rituale del sacrificio, del sangue e del fuoco, la sottomissione ai verdetti del fato, l’aura e il mistero, sono l’orizzonte in cui si sviluppa questa straordinaria rappresentazione di un amore fraterno, potentissimo, che volge in fratricidio per volontà divina.

0 romolo e remo
Il Primo Re, un gran film su Romolo, Remo.

Non conoscevo Matteo Rovere, il regista, né i protagonisti del film Alessio Lapice e Alessandro Borghi. È un film grandioso e asciutto, di rara potenza, anche se crudo e cruento. Ma chi liquida il film come uno spettacolo per “maschioni” palestrati, amanti della guerra e della violenza, non coglie l’intensità tragica del racconto all’ombra del sacro. Il film non è la rappresentazione manichea dei buoni contro i cattivi, non suona l’arrivano i nostri, non celebra muscoli, braccia possenti, sangue e corpi trafitti. Il film narra la tragedia della condizione umana in relazione al divino e alla storia.
Remo, oltre che un valoroso e intrepido combattente, ama suo fratello, lo protegge, lo difende sfidando la morte, lo porta in salvo. È re in pectore e tra loro c’è un legame totale. Fino a che la sacerdotessa chiamata a leggere il futuro nelle viscere degli animali, secondo l’arte degli aruspici, rivela il destino fratricida prescritto dagli dei, per fondare la città e proclamarsi re.
Remo rifiuta il verdetto, respinge il volere degli dei, dice – come un uomo in preda all’hybris, alla furia titanica – “io sono il mio destino”, mette a ferro e fuoco le capanne per affermare la sua potenza regale e sfidare gli dei, condanna alla morte la sacerdotessa per il suo nefasto vaticinio. Non c’è superbia in Remo, c’è il rifiuto di uccidere suo fratello gemello, la persona a lui più cara al mondo. Questa è la tragedia assoluta.
Accadrà l’inverso a Romolo, che amava suo fratello dello stesso intenso amore, ma non si sottrae al verdetto divino, benché terribile. Il sacro tremendo e fascinante degli antichi. Romolo riaccende il fuoco sacro che suo fratello aveva cercato di spegnere e intorno a quel fuoco nasce la sua sovranità, delimita il limen, il confine sacro e la soglia inviolabile su cui sorgerà Roma. Confine che Remo trasgredisce, fino alla lotta finale tra i due fratelli, l’uccisione di Remo e la disperazione di Romolo davanti al corpo esanime di suo fratello. Una tragedia classica, da cui nascerà la città eterna e sacra, Roma.
Chi non coglie il senso tragico e potente del sacro, l’irruzione del divino nella storia, l’intreccio indissolubile tra eroismo e amor fati, tra ardore e timore; e chi non coglie in tutta la sua intensità l’amore profondo di due fratelli, il dolore estremo di uccidere il frater, non comprende il senso del racconto. La fratellanza senza pater (e mater) volge in fratricidio.

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Una domanda non solo nel senso di interrogazione ma anche nel senso di invocazione, di preghiera. Che lo spirito divino scenda su di noi ma non ci chieda di spargere dolore e testimoniare con la sofferenza.
  
Chi ritiene che quell’aut aut dimostri la crudeltà degli dei pagani e la natura guerriera e spietata dei romani, non ha a mente le pagine crudeli della Bibbia e degli altri libri sacri dell’antichità, il sacrificio di Isacco imposto a suo padre Abramo, pur fermato in extremis e trasfigurato in un capro sacrificale. È il mondo degli antichi, politeisti o monoteisti, la loro visione del sacro, l’ubbidienza assoluta al Dio, fino alla negazione di sé e dei più cari.
La vera domanda che resta e che ci tocca come moderni, fragili contemporanei, passati dall’età della ferro all’età del silice e dall’età della fede all’età del nulla, dell’io e della miscredenza, è se è possibile il sacro senza violenza, il sacro senza sacrificio. Se è possibile cioè andare verso il divino non attraverso il dolore, risparmiandoci la croce – diremmo da figli della civiltà cristiana. Domanda tremenda ma che esprime tutta la nostra umanità.
E domanda non solo nel senso di interrogazione ma anche nel senso di invocazione, di preghiera. Che lo spirito divino scenda su di noi ma non ci chieda di spargere dolore e testimoniare con la sofferenza. Non vogliamo soffrire, non vogliamo far soffrire.
È questa la clemenza che chiediamo al destino e agli dei. Ma è già un miracolo che questi interrogativi ti sovvengano uscendo da un cinema, dalla sala dove hanno proiettato un film, tra resti di lattine e pop corn, mentre gli smartophone riprendono a cinguettare.

Ama Dio più di tuo fratello

di Marcello Veneziani Arianna Editrice

Il Primo Re. Un film da vedere

di Marco Francesco De Marco - 03/02/2019
Il Primo Re. Un film da vedere
Fonte: Perennitas
Prima di rischiare di cadere in tentazioni manichee, scriviamo subito la fine della recensione: “Il primo Re” è un buon film, che merita d’esser visto per una serie non piccola di pregi ed elementi di originalità e spessore che appresso tratteremo dettagliatamente. E’ fin troppo conosciuta l’insoddisfazione di ogni specialista di qualsivoglia materia, che si manifesta con irritazione nel momento in cui il cinema si occupa di un tema molto specifico e noto. Provate a chiedere ad un pugile cosa pensa delle scene più cruente di “Rocky”: riderà pensando male di chi abbia potuto scambiare quelle buffonate per un incontro di pugilato. Lo stesso vi diranno i poliziotti che assistono a filmati su indagini o cose simili. E’ il cinema, non è altro, ed in questo “luogo” la licenza poetica, narrativa, storica e di qualsiasi altro tipo, è legittima per consuetudine, per accordo fatto nell’ottocento, quando si decise di allargare i confini dell’immaginazione ben oltre i limiti imposti dal teatro.
Pagato quindi il debito con chi si lamenterà per una mancata stroncatura, o per la sua “sorella diversa”, la “magnificatio” senza se e senza ma, passiamo all’analisi dell’opera.
Il regista de “il Primo Re” si chiama Matteo Rovere, e se il buongiorno si vede dal mattino, e nulla accade per caso, e “nomen est omen”, allora chiamarsi come l’albero simbionte di Iuppiter Pater e richiamare forza e potenza nel proprio nome, ci ha confortati prima ancora di vedere il film. Non mancheranno infatti la furia guerriera, l’ardore, il coraggio ed il sacrificio, il “Fuoco” quale forma manifesta della presenza divina. Tutto ciò ci porterà ad una approvazione complessiva dell’opera e ad una sensazione positiva e per qualche tratto entusiasmante, non senza passare per qualche analisi critica.
Venendo alla pellicola, va condivisa e fortemente apprezzata la scelta dell’utilizzo del protolatino. Il fatto che non rappresenti una scelta originale, ma ispirata ai due precedenti di Mel Gibson con “La passione di Cristo” ed “Apocalypto”, non sottrae valore alla decisione presa. Sono tempi troppo bui per voler ammirare ed approvare solo eventi originali. Conviene attestarsi su quelli intelligenti.
La resa, complice in buona parte l’amore che proviamo per la lingua dei Padri e dei nostri studi, risulta eccellente. E’ stato peraltro piacevole riscontare che buona parte dei dialoghi risultava comprensibile, ed a volte solo il volume, in alcuni passaggi troppo basso, ha impedito che si potesse, in diverse occasioni, capire la lingua parlata per lunghi tratti.
In particolare la parola “Fuoco” più volte pronunciata, diversamente da “Ignis” del latino di epoca successiva arrivato sino a noi, viene pronunciata “Egni”, mostrando il legame ancora forte con la radice arcaia indoeuropea, evidenziando un’affinità con il sanscrito “Agni” che ci ricorda ancora una volta che la Patria Primordiale e l’origine comune dei figli degli Arya delle origini ancestrali non sono un dato mitico, ma una certezza ben assestata negli studi linguistici, religiosi ed antropologici.
Altro dato entusiasmante riguarda la scelta dei luoghi e la loro bellezza. Girata interamente nel Lazio, la pellicola trasmette fin dalla prima scena – bellissima e mozzafiato – la potenza effettiva dei posti scelti, il magnetismo rimasto intatto laddove è stata tutelata la natura ferina e vibrante delle nostra terra, precisa espressione di quella geografia sacra che fu una delle motivazioni per le quali Roma fu fondata lì, “proprio lì” e non altrove. Anche le scene più cupe, caratterizzate dal costante grigiore climatico o dalle ore notturne, scelta non casuale e certamente rimandante ad aspetti “interiori”, risultano “cariche” anche nelle paludi o nei boschi ostili,  proprio per l’elemento energico inscindibile dai luoghi più incontaminati della Saturnia Tellus.
I personaggi, a partire ovviamente da Romolo e Remo – ottimamente interpretati – mostrano eccessivi tratti di un primitivismo che appare come una scelta precisa, tendente a dare il profilo desiderato e non certamente per ignoranza o trascuratezza ricostruttiva. Qui bisogna essere precisi: non sappiamo per quale motivo il regista abbia scelto la cifra titanica e vitalistica dell’intera vicenda, né perché il tutto dovesse essere così diverso dai costumi di quel periodo. Di sicuro l’elemento di primordialità del quale sono portatori tutti i personaggi, non era esistente in quei termini all’epoca dei fatti narrati, ed in ogni caso non in quelle forme così selvagge, prive dell’elemento “civile” che le stirpi di Albalonga e Troia possedevano ormai da secoli. Alcuni tratti, solo per qualche secondo, rimandano a “La guerra del fuoco” – ma si tratta di fuoco profano – di Jean Jacques Annaud, senza certamente sconfinare in richiami evoluzionistici come nell’opera citata, piuttosto insistendo su caratteri neolitici e marcatamente natufiani, che non sono l’unico elemento medio-orientale presente nell’opera.
La trattazione dei sacrifici umani, in larghissima parte fantasiosa, è ispirata ad un indirizzo antropologico noto, caratterizzato da elementi ispirati al riduzionismo epistemologico,  e ci rimanda alle medesime considerazioni fatte in precedenza sul primitivismo. La sfera del sacro non è assente, ma si manifesta in modalità diverse dalla realtà dell’epoca, più surreale e onirica, potente ed immanente, ma con non poche pecche da rilevarsi nelle forme e nella sostanza, che a ben vedere si sarebbero potute facilmente evitare. Persiste, fortunatamente, un clima noumenico intenso e costante, ma naturalmente, vista l’impostazione, la presenza di forze invisibili che condizionano ogni cosa, si declina in forma coerente con il resto. Avviene così che la Vestale assiste, anzi presiede, i cruenti sacrifici derivanti dai duelli; soffia sul fuoco per alimentarlo, accende lei, con le proprie mani, il Fuoco del Dio (mai nominato o declinato durante tutto il film), e si produce in una lettura del fegato dell’animale sacrificato, incarnando un ruolo fortemente fantasioso ( e non è detto che sia un fatto negativo), culminato in una divinazione delle interiora, compito di altri sacerdozi, che si spinge fino a ricordarci le atmosfere tolkieniane della lettura dello specchio di Galadriel, in un afflato di fantasia che però non disturba e che possiamo ritenere coerente con l’impostazione generale.
La scelta di non nominare mai né Dei né Dee, appare il frutto di una precisa volontà, volta ad evitare l’approfondimento strettamente religioso e liturgico, che a ben vedere avrebbe potuto appesantire la narrazione, ma che in ogni caso sarebbe stato apprezzato dai puristi della Tradizione e dagli studiosi di religione e storia. E’ vero che non bisogna giudicare il periodo della fondazione come se si trattasse di Roma e della sua religione di molti secoli dopo, ma è attestato che Latini, Sabini ed altre popolazioni italiche utilizzavano precisi nomi e riferimenti in tutte le occasioni, rituali o meno. Da qui deriva, si presume, la decisione di usare la definizione di “Triplice Dea”, una dizione presente in pressoché tutte le Tradizioni indoeuropee, che però difficilmente rimaneva non declinata nei riti:
” loro ti chiamano Ecate,
dea dai molti nomi, Mene,
Artemide lanciatrice di dardi, Persefone,
Signora dei cervi, luce nel buio, dea dai tre suoni,
dea dalle tre teste, Selene dalle tre voci,
dea dal triplo volto, dea dal triplo collo,
dea delle tre vie, che tiene,
la fiamma perpetua in tre contenitori,
tu che offri la tripla via,
e che regni sulla tripla decade.
»
Lo stesso principio viene applicato ad un Fuoco di un Dio che viene chiamato semplicemente così per tutto il film, senza che si mostri la volontà di superare le approssimazioni, che più correttamente dovremmo definire “orientamenti diversi”. “Dio” e nient’altro, evita l’approfondimento specialistico, ribadisce un principio generale che volutamente ignora la prassi rituale, dedicandosi piuttosto a trasmettere sensazioni, stati d’animo, idee generali che non hanno bisogno di ortodossie di nessun tipo. Che si sia d’accordo o meno, questo è quello che si percepisce in ordine alla volontà del regista, che non manca di dedicare attenzioni alle dimensioni sottili. Ciò si evidenzia attraverso l’attenzione alla vita del Fuoco del Dio ed alla sua Fiamma Perenne che tutti senza distinzione manifestano, consapevoli che la continuità visibile del Fuoco ha una importanza fondamentale. Non casualmente, l’evidenza dei differenti destini dei due Gemelli, viene sottolineata dal fatto che Romolo riesce a riaccendere il Fuoco laddove Remo credeva che fosse definitivamente spento.
A parte queste pregevoli aperture verso il sacro, l’idea generale del rapporto con gli Dei e generici spiriti, è caratterizzata da un timore non presente in queste forme nel mondo indoeuropeo e, segnatamente, italico,  nel quale  possiamo ragionevolmente presumere che la paura così mostrata fosse del tutto inesistente. La non corretta osservanza della prassi rituale, la mancanza dei sacrifici prescritti, potevano semmai produrre timori sulla possibile avversione degli Dei, ma i termini con i quali le paure si manifestano nel gruppo guidato da Remo, sono di tipo ossessivo e rimandanti semmai ad un’idea del divino timorosa tipicamente monolatrica e medio-orientale, piuttosto che all’attitudine eroico-sacrale delle stirpi indoeuropee, che non si sentirono mai “servitori e pecore” degli Dei propri, semmai uomini portatori del loro sangue e della loro natura attenti al rapporto con essi: la Pax Deorum, che non viene “istituita” solo a Roma, costituendo parte dell’immenso patrimonio sacrale di tutte le Tradizioni indoeuropee e non solo.
Molto bello il rapporto tra Romolo e Remo. Potente, intenso ed a tratti commovente il modo in cui, fin dalla prima scena, in perfetta simbiosi gemellare, i due fratelli mostrano maggior attenzione alla salvezza dell’altro piuttosto che a quella propria, cercando ripetutamente il proprio sacrificio per evitare la morte del gemello. Nonostante ciò, emerge con chiarezza la dicotomia Ordine-Caos inscritta nel loro destino. Remo, abbandonato a se stesso, cerca d’incarnare un ruolo che non gli è proprio, mancando dell’assialità e dell’equilibrio propri di un Re. Non casualmente i suoi limiti emergono in assenza del fratello più saggio e centrato, che prende il suo posto quando gli eventi lo permettono. Funzionale alla sceneggiatura ed essenziale nel susseguirsi degli eventi, l’atteggiamento pio di Romolo rispetto alla deviazione profana e nefasta di Remo, condannato alla solitudine prima ancora che alla morte. Maledire gli Dei e sfidarli lo porta al titanismo ed all’azione demonica, mentre il fratello predestinato alla fondazione rimane centrato e fedele alla devozione celeste.
L’aspetto sul quale, a malincuore, si devono esprimere le critiche più forti, riguarda l’epilogo riguardante la fondazione di Roma. Essa procede nella narrazione come un evento piuttosto casuale, determinato da fattori contingenti, sviluppatosi nell’arco di pochi giorni. Anche il riconoscimento di Remo quale Re, avviene secondo modalità eccessivamente primitive e non coerenti con precise consapevolezze sulla sacralità, ben presenti all’epoca dei fatti narrati. Il mito ci ricorda che le famiglie dei Patres vollero la fondazione consapevolmente e secondo un patto stretto tra stirpi e tribù, sotterrando i propri beni e ricordi, essendo ormai decisi ad essere non più etruschi, latini o sabini, bensì romani e nient’altro. Qui tutto diventa eccessivamente semplicistico, occasionale, realizzato con una soluzione che possiamo facilmente definire “affrettata”. Una fretta che sembra colpire anche le modalità con le quali Romolo uccide Remo. Più che la volontà di farsi uccidere, che potrebbe essere una chiave di lettura, sembra che il regista volesse trasmettere l’idea che, essendo “storico” e non alterabile l’esito del duello, tanto valeva non caricarlo di una enfasi inutile ai fini narrativi. Il fatto poi che, fino al giorno prima, Romolo fosse debilitato ed infermo per una ferita grave, toglie ulteriore credibilità all’ipotesi del duello del giorno successivo, quasi che il regista, in questo caso, si sia liberatoriamente affidato al mito per chiudere la sua storia.
La parte finale non poteva rimediare all’assenza degli elementi non presenti in tutto il film. Nei protagonisti non v’è italica ed etrusca dignitas, e le aperture profonde e simboliche che a volte sono espresse dai personaggi, appaiono piuttosto una “scoperta” che di volta in volta pervade l’animo degli stessi, piuttosto che il frutto di un lignaggio, un retaggio all’interno del quale la consapevolezza della regalità, del valore, delle sacre certezze, costituisce la base per la fondazione sacra di una città.
La fondazione ed il confine da non superare sono eccessivamente poveri di simboli e gesti rituali. Non v’è aratro, nè buoi, non c’è il sulcus primigenius e non vi sono sacerdoti pronti all’evento fondativo. Non vi sono gli etruschi, d’altronde non v’è nessun vero e proprio rito di fondazione, etrusco o meno. Ma forse proprio in questa scena si manifesta la cifra voluta dal regista, sicuramente in buona parte riuscita, anche se lascia una traccia dentro di noi il fatto che un nostro connazionale non abbia colto l’occasione per conferire la giusta solennità ed importanza ad un atto così fondamentale per la nostra storia. Romolo dichiara “questa città nasce dal sangue (sacrificio) di mio fratello”, manifestando la comprensione superiore per il sacrificio e per ciò che da esso scaturirà, ma purtroppo sembra che tutto sia accaduto casualmente e non per una potente volontà guerriera e sacerdotale che tale fondazione aveva fatto bramare e realizzare con consapevolezza e volontà, e non per una rocambolesca fuga per evitare la morte. Se fantasia doveva e poteva esserci, legittimamente, ebbene speravamo che essa si spingesse sul sentiero della volontà lucida oltre che della predestinazione, della solennità, della suggestione, della profondità e della bellezza formale, piuttosto che verso un primitivismo qui e là attraversato da spezzoni di intensità sacrale. Intensità, va detto, che tiene inchiodati alla poltrona senza nessuna pausa del ritmo narrativo.
Non è detto che una ricostruzione più aderente alle conoscenza storiche in nostro possesso avrebbe necessariamente dato un risultato migliore. Ma non possiamo evitare di pensare che Matteo Rovere sia stato influenzato, solo per alcuni aspetti e per di più marginali, da un pensiero di origine marxista ben radicato nella mente della maggioranza degli italiani e non solo: Roma fu fondata da pastori dalle fattezze primitive. Certo, la dimensione guerriera, la centralità della forza e dell’ardore, non è trascurata, essendo ben espressa nel complesso e nei singoli personaggi, ma qui emerge più una necessità di sopravvivenza che la consapevolezza di affermare qualcosa di superiore, che viene da lontano e costituisce patrimonio e lignaggio di sacerdoti e guerrieri italici. Il problema non è quindi la dicotomia primitivismo-civiltà, piuttosto dovremmo parlare di casualità contro disegno ordinato, di coincidenza contro volontà precisa. Posta così la questione, non è più importante che Rovere si sia attenuto ad una realtà storico-mitica piuttosto che alla sua libera interpretazione, e nessuna delle due doveva essere considerata come scelta migliore dell’altra.
In sintesi: Roma fu fondata convocando sacerdoti e futuri Patres, per accordo, piano stabilito, dandosi appuntamento, incarnando una precisa volontà, permettendo, attraverso il Rito fondativo, di chiedere ed ottenere la benevolenza divina. Roma non fu fondata per caso, per sfuggire alla cattura, per sottrarsi al proprio sacrificio e fondare il sacro cerchio con quattro pietre messe lì a casaccio a due metri dal Tevere.
Ma, come dicevamo, questo è solo un film, un film bello ed originale, e non si poteva pretendere che esso si facesse portatore di istanze che, altrove e con altri mezzi, vanno affermate con ben altri fini e certezze.
Non per questo “Il primo Re” risulta meno godibile sul piano del coinvolgimento che riesce a suscitare, complice una gradevole colonna sonora che esercita una presenza discreta e non debordante. Possiamo affermare con certezza che la fantasia non toglie nulla alla godibilità. D’altronde il buon Puccini, uno che di racconti intensi se ne intendeva, preferiva inventarsi personaggi più o meno reali di una Cina lontana, piuttosto che affidare i suoi testi al suggestivo ma tendenzialmente retorico Gabriele D’annunzio. Meglio un romanzo o un saggio? La dottrina pura o la poesia? Differenti risposte a queste domande, produrranno esiti diversi in ordine alla quantità d’entusiasmo che “Il primo Re” riuscirà a trasmettere ad ognuno di noi.
In conclusione, esprimendo soddisfazione per la realizzazione dell’opera, rimandiamo il pensiero a quella cartina geografica che, espandendosi progressivamente, ci ricorda le nostre grandezze passate ed il ruolo centrale della nostra Patria per i destini dell’intero cosmo. Sarebbe bastata quell’ultima illustrazione per giustificare l’esistenza e la bellezza del film, ma per fortuna c’è tanto altro. Tutti al cinema quindi, la bilancia pende decisamente verso gli aspetti positivi, e poi, diciamocelo francamente, un film italiano, girato in Italia, che parla delle origini dell’Urbe e della Patria, non è cosa di tutti i giorni.

“Il Primo Re”. Il film di cui il cinema italiano aveva bisogno

di Carlomanno Adinolfi - 02/02/2019
“Il Primo Re”. Il film di cui il cinema italiano aveva bisogno
Fonte: Il Primato Nazionale
Ieri è stato il gran giorno. Dopo più di un anno dall’annuncio, con una post-produzione durata 14 mesi, caso quasi unico in Italia, dopo un trailer molto contenuto e poco rivelatore uscito a solo un mese dall’uscita, ecco arrivato nelle sale l’attesissimo Il Primo Re, la versione cinematografica della storia di Romolo e Remo targata Matteo Rovere.
L’attesa è stato un mix di aspettative frementi e di terribili paure, con la voglia di vedere su schermo una storia epica sulla fondazione di Roma che si scontrava con la quasi certezza di veder violentato il mito più importante della civiltà umana. Alla fine, visto il film, è però difficile capire se abbia prevalso la prima o la seconda componente. In effetti è un film talmente particolare su una storia talmente particolare che è difficilissimo dare un giudizio sereno ed equo. L’unico modo, forse, è scindere le diverse componenti e dare diversi livelli di giudizio: quello da spettatore, quello da cinefilo, quello da critico storico e quello, inevitabile almeno su queste pagine, del “purista” della romanità intesa nel suo significato più sacro e profondo.

Un continuo crescendo
Lo spettatore difficilmente rimarrà deluso. Il film è un continuo crescendo, tiene incollati alla poltrona nonostante la sua singolarità, fatta anche di pochi dialoghi – e in latino arcaico – e molti silenzi che avrebbero potuto appesantire il film. Rovere aveva detto che tra le fonti di ispirazione vi era il Valhalla Rising di Refn, che è davvero per pochi cultori del genere perché molto difficile da seguire per il pubblico generalista che infatti era abbastanza preoccupato dal paragone. Ebbene il regista romano è riuscito nella difficilissima impresa di riportare lo spirito della pellicola refniana in un film che appassiona, aiutato anche dall’ottima colonna sonora di Andrea Farri.
Tutto questo porta anche al giudizio positivo da cinefilo. Un film di questo genere è un unicum in Italia, un budget molto alto per lo standard italiano – il film è costato 9 milioni – finalmente usato in maniera seria, tanto che molti critici per parlarne bene hanno usato l’espressione “non sembra neanche italiano”. Le scene di combattimento, con una violenza e una crudezza impressionanti, ricordano quelle delle più acclamate serie tv statunitensi. La famosa scena dell’esondazione del Tevere di cui si è tanto parlato per la sua difficile realizzazione, è resa in modo fantastico anche se forse un po’ esagerata. L’impressione di trovarsi finalmente davanti a un film a tratti epico e che possa competere con pellicole straniere realizzate con un budget minimo dieci volte superiore e che non abbia nulla a che fare con la mediocrità pallosa e finto-impegnata del cinema nostrano è grande, e a dir poco soddisfacente.

La componente storica
Il film però ha delle pecche anche gravi. Storicamente ci sono molte libertà, come è ovvio che sia. La professoressa Donatella Gentili che insegna etruscologia e antichità dei popoli italici aveva definito il film “un’utilissima fonte per gli accademici” con “importanti finalità didattiche”. Ovviamente era solo una “marchetta” per il film, almeno speriamo, perché di attinenza storica ce n’è pochina. Al di là dell’aspetto linguistico su cui rimandiamo a esperti del settore, anche se per ora sembrano essere tutti concordemente entusiasti, Rovere utilizza un eccesso di arcaismo: il suo voler proiettare lo spettatore in un’epoca remota e arcaica fa sembrare il film ambientato più nell’età del bronzo che nell’ottavo secolo a.C. con scontri tribali tra clave e mazze di pietra unite a lance, spade, coltelli e archi rudimentali. Ma è un problema minore perché lo stesso regista aveva ammesso di aver voluto puntare sull’effetto di remota arcaicità anche a discapito della coerenza storica dei costumi. Ma quella che appare una scelta inspiegabile è la totale assenza dei popoli storici che furono protagonisti della Fondazione. C’è Alba, che nel film rappresenta la più grande potenza della zona, e ci sono i “Velienses” che si presume essere gli abitanti della Velia, una delle alture che costituirono il septimonzium originario. Niente sabini e soprattutto niente etruschi, la cui presenza avrebbe forse potuto minare la versione barbarico-primordiale del film ma almeno avrebbe potuto permettere di inserire degli elementi sacro-religiosi che, purtroppo, nell’eccesso di realismo del film mancano del tutto.

La parte “spirituale” del film
E qui arriviamo all’inevitabile giudizio sulla parte spirituale.
Chiariamoci: se vi aspettate un film scritto da Evola o da Ignis-Musmeci Ferrari Bravo e non transigete minimamente su questo aspetto, evitate di andare a vedere il film. Ma partendo da posizioni più realiste si arriva comunque alla conclusione che Rovere ha delle lacune gravissime che avrebbero potuto essere colmate davvero con poco, anche solo con una semplice lettura di un libro dumeziliano di facile lettura e reperibilità come La Religione Romana Arcaica. Le divinità romane non esistono.
Niente Giove, niente Marte o Venere, soprattutto niente Vesta nonostante il termine vestale sia usato costantemente e nonostante, soprattutto, il Fuoco Sacro abbia una centralità cardinale nel film. Purtroppo si parla solo in termini troppo generici di “il Dio” e “la Dea”, in una semplificazione che troppo ricorda alcuni blog new-age e neo-paganeggianti della rete. Cosa che risulta abbastanza evidente nell’invocazione iniziale alla “Triplice Dea” (sic) affinché sia lei a far nascere il Sole (sic), roba insomma da matriarcato wicca. “Il Dio” poi è il fuoco stesso: non è il fuoco ad essere la presenza visibile e fisica della divinità ma è proprio il fuoco materiale ad essere dio, in un eccesso di primitivismo quasi animista e africano. Cosa che si nota anche nell’eccessivo senso di superstizione e timore verso il sacro mostrato dai personaggi del film, quasi da uomini appena usciti dalle caverne che non da Latini o Italici dell’ottavo secolo.

Risultati immagini per il primo re vesta
La Vestale di Alba ha poi un ruolo troppo da strega che un po’ rovina il personaggio. Soprattutto nella scena dell’aruspicina in cui è la Vestale (sic) a leggere il futuro da un fegato d’agnello trasformandosi in una specie di Sibilla Cooman di Harry Potter che in estasi fornisce la profezia riguardante i due fratelli e un re. O nelle scene in cui davvero sembra una strega che lancia maledizioni con gesti davanti al fuoco.
L’impressione è che Rovere abbia del tutto snobbato questo aspetto, cosa gravissima per un film sulle origini di Roma. La mancanza degli Etruschi, come dicevamo, ha anche avuto l’effetto di eliminare del tutto non tanto la scena dell’ispezione del volo degli uccelli quanto il rito stesso di fondazione della città. Che poi sarebbe bastata anche la sola presenza di un aratro e di un solco anche per richiamare il tutto, senza aver per forza bisogno di evocare Rumon o chissà cosa. Un altro aspetto che fa decisamente storcere il naso è l’eccessivo “spartachismo” dei futuri Romani.
Si punta troppo sul loro essere schiavi liberati, reietti, scarti di altre città in cerca di riscatto. Eppure…

In conclusione
Eppure nonostante queste gravissime pecche, se ci si estrae un attimo dal purismo oltranzista, il film ha molti elementi validissimi anche dal punto di vista spirituale. La scena della ri-accensione del Fuoco è a dir poco evocativa, così come la captio della futura Vestale. L’importanza del Fuoco Sacro, al di là dell’aspetto fin troppo material-animistico del culto, porta ad almeno due battute da parte di Romolo che lasciano a bocca aperta per il profondo significato che recano.
La stessa caratterizzazione dei due gemelli, cosa che preoccupava non poco visto che si parlava di “punto di vista di Remo” e che quindi faceva temere un Remo buono e Romolo cattivo o addirittura a un “Dio cattivo” con Romolo suo fanatico seguace, è invece molto buona. L’ascesa e caduta di Remo così come la parallela discesa e ascesa di Romolo ha degli elementi molto “tradizionali” – dalla hybris che cresce in modo maniacale e demonico nell’inizialmente pio Remo alla complementare presa di coscienza da parte di Romolo dopo che è quasi sceso agli inferi – anche se probabilmente non sono stati inseriti in maniera consapevole da Rovere.
Anche il concetto di pietas seppur mai definito nel film con questo nome, risulta evidente in tutto il film, così come la impietas che porta alla naturale caduta di un capo. Forse Romolo è addirittura reso troppo pius, quasi a sembrare più un Numa Pompilio che un Romolo, ma nel contrasto tra i due fratelli alla fine è una caratterizzazione filmicamente efficace.
Degna di nota poi tutta la sequenza finale, dal “compimento della profezia” fino alle ultime parole di Romolo che decreta la nascita di Roma, sequenze che indubbiamente fanno vibrare. E poi la sequenza post-credits con la mappa che mostra l’espansione di Roma ha il suo perché.
Insomma, se non ci si pone in maniera togata o troppo fanatica, cosa che inevitabilmente porterebbe al gridare al sacrilegium, il film nel suo mix di cose positivissime, gravi mancanze e spunti degni di nota può essere considerato più che buono.
Parafrasando Christopher Nolan, non il capolavoro che speravamo ma sicuramente un film di cui avevamo bisogno. Sperando che, nei suoi limiti ma anche nelle sue grandezze, “Il Primo Re” possa essere simbolicamente una prima pietra di fondazione che innalzi il cinema italiano facendoci uscire dalla palude della melensa, mediocre e noiosissima cricca dei Virzì, Ozpetek, Muccino, Rubini e compagnia cantante, portandoci a un futuro che con i Rovere, i Mainetti e forse i Sollima avrà da dire il suo anche davanti alle grosse produzioni hollywoodiane ed Hbo.

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