ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 25 aprile 2019

Nostri fratelli in Cristo (non in Maometto)

San José Vaz e la strage islamica di Pasqua



(di Cristina Siccardi) Mentre lo Sri Lanka e i cattolici piangono il sangue versato dei martiri assassinati in più chiese, durante la Messa della Santa Pasqua, sangue preannunciato dall’incendio di Notre Dame di Parigi, i funzionari à la page della Chiesa interreligiosa, ecclesiastici e laici, si sono affrettati nel “rassicurare”, come ha fatto Andrea Riccardi, che «la chiesa di Sant’Antonio, a Colombo, non solo è un santuario molto caro alla pietà dei cattolici dell’intera isola […] C’è devozione anche da parte di musulmani, indù e buddisti alla statua del santo, in un luogo dove si conserva la memoria di un evento miracoloso. La chiesa è santuario nazionale, ma anche un luogo di convivenza multireligiosa […]» (Corriere della Sera, 21 aprile 2019).

Tutti insieme, cristiani, musulmani, indù e buddisti a venerare sant’Antonio… ma poi arrivano i terroristi, che non compiono atti religiosi, bensì solo politici (come se l’Islam, per i musulmani praticanti, non fosse politica e religione un tutt’uno) e, non potendo affermare, come in questo caso, che si tratta dell’iniziativa di “lupi solitari”, si afferma testualmente: «È un fatto che le chiese cristiane, negli ultimi anni, sono divenute un obiettivo per chi cerca, con il terrorismo, di seminare divisioni e di attirare la pubblica attenzione». Intanto il «jihad inferiore» prosegue la sua marcia.
San José Vaz (1651-1711), apostolo dello Sri Lanka, non la pensava come la Chiesa interreligiosa di oggi e non perché visse fra il 1600 e il 1700, bensì perché la Fede in Cristo è sempre uguale a se stessa nei suoi principi e, quindi, nella sua dottrina, e proprio per questo non è soggetta a mutazioni genetiche, in quanto la sua genesi è in Cristo, l’ α e l’ω.
L’oratoriano Vaz è stato il primo indiano ad essere elevato all’onore degli altari il 21 gennaio 1995 da Giovanni Paolo II e canonizzato da Francesco il 14 gennaio 2015, il quale, durante il suo viaggio interreligioso proprio in Sri Lanka, ha posto subito le cose in chiaro, esaltando del santola «missionarietà non aggressiva, a servizio dei poveri» (come se esistesse o sia esistita una missionarietà bellicosa nella Chiesa) e specificando che «la Chiesa in Sri Lanka non chiede altro che la libertà di portare avanti la sua missione per dare un contributo ancora maggiore alla pace, alla giustizia e alla riconciliazione nella società srilankese».
Chi fu veramente san JoséVaz, un funzionario dello Stato Vaticano oppure un missionario ricolmo di santo zelo? Originario di Benaulim, in India, José si trasferì all’Università dei Gesuiti in Goa per la formazione umanistica e dopo al Collegio domenicano di San Tommaso d’Aquino per la filosofia e la teologia, infine fu ordinato sacerdote nel 1676. Si dedicò all’apostolato in Goa, ma aspirò ad entrare in un ordine religioso.
Nell’aprile 1709 un documento, conservato nell’archivio degli Oratoriani di Roma, firmato dai Padri Giovanni da Guarda e Antonio de Attaide, dell’Oratorio di Lisbona, attesta che «nell’India Orientale, in Goa, è stata eretta dall’autorità Regia e Ordinaria e confermata da S. S. Clemente XI la Congregazione dell’Oratorio del nostro S. Padre Filippo Neri». San José fu l’anima di quell’Oratorio generoso di vocazioni e che convertì molti indiani, e proprio quando ormai esso era avviato al meglio, poté dedicarsi alla sua massima aspirazione: divenire missionario nell’attuale Sri Lanka, a quel tempo sotto il dominio olandese, che perseguitava ferocemente i cattolici.
Rivelò il suo desiderio a Padre Pascoal, a cui chiese di sostituirlo: portare la buona Novella della Vite là dove veniva calpestata e sterminata nei suoi tralci, quella senza compromessi e senza sconti; portare Cristo alle genti, proprio come san Paolo o san Francesco Saverio, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, senza Buddha e senza Maometto.
Arrivò sull’isola come clandestino a causa della persecuzione contro i cattolici, allora come oggi. Vestito da schiavo e da mendicante, ricco solo del suo essere ministro di Cristo, non trovò più sacerdoti: tutti martirizzati oppure espulsi. Le chiese erano state profanate o distrutte, mentre i fedeli, minacciati di morte, erano stati uccisi o dispersi per scampare dalla morte. Poteva essere scoperto, ma iniziò subito la ricerca dei credenti, la maggior parte dei quali aveva assunto esteriormente gli usi calvinisti per scampare al pericolo.
La strategia che Padre José adottò fu assai temeraria: si mise al collo la corona del Rosario e bussò di porta in porta, chiedendo l’elemosina. Buddisti e induisti non se ne curavano, ma qualcuno iniziò ad accorgersi di quel segno della pietà cattolica e prese ad avviarsi la rievangelizzazione di Ceylon. Si fermò nel più sicuro villaggio di Jaffna, per due anni, dove svolse segretamente il suo ministero, celebrando di notte la Santa Messa, confessando e dirigendo le anime. Tuttavia, il rifiorire della cattolicità nel Paese fece sorgere i sospetti nelle autorità olandesi che proposero un premio in denaro a colui che avesse consegnato il missionario.
Nessun Giuda si presentò, mentre padre José venne fatto fuggire nel piccolo regno di Kandy, rimasto indipendente. Intanto il Governo olandese martirizzò molti fedeli oppure li incarcerò fino alla loro morte. A Kandy regnava il buddista Vilamadharma Surya, il quale venne informato da agenti calvinisti sull’esistenza di padre José Vaz, presentato come pericolosa spia dei portoghesi, cosicché, il sovrano, quando giunse sul suo territorio il missionario oratoriano, lo fece imprigionare.
Il Re, tuttavia, rimase affascinato dalla spiritualità e dalla santità del sacerdote e gli divenne amico, stessa ammirazione e stima provò il figlio Narendrasinha, che gli succedette al trono. Fu così che il santo missionario, che tradusse anche nelle due lingue locali, il tamil e il singalese, le preghiere cattoliche e il catechismo, riuscì a compiere un apostolato straordinario dapprima in solitudine e poi con l’aiuto dei confratelli, che lo raggiunsero nel 1697.
Prima del suo dies natalis, lasciò una missione di 70.000 ferventi cattolici, 10 missionari, 15 chiese, 400 cappelle. Quest’uomo di Dio riuscì, con coraggio e ardore, a ristabilire in Ceylon il faro della Chiesa. Nella notte del 15 gennaio, ricevendo il Santissimo,disse ai suoi confratelli: «Ricordate che non si può facilmente compiere al momento della morte quello che si è trascurato di fare per tutta la vita».
Con il nome di Gesù sulle labbra il missionario alter Christus spirò. I cattolici – nostri fratelli in Cristo (non in Maometto) – che hanno versato il loro sangue nel giorno della Santa Pasqua per la loro Fede, la Nostra Fede, sono i figli non già di coloro che non credono più nella Verità della religione rivelata, bensì di quei padri ammaestrati dall’apostolo san José Vaz. (Cristina Siccardi)

Massacro in Sri Lanka: evitare di chiamare con il loro nome sia le vittime che i carnefici non ci salverà

Un nuovo gruppo jihadista, o più probabilmente nuovo solo nella sigla, legato o ispirato all’Isis, sarebbe il responsabile del massacro di Pasqua a Colombo, capitale dello Sri Lanka: quasi trecento morti ammazzati e centinaia di feriti in una serie coordinata di esplosioni che hanno devastato chiese e alberghi che ospitavano cristiani in preghiera e turisti. Niente di particolarmente sorprendente, purtroppo, bensì solo l’ultimo di una lunga serie di attacchi contro i cristiani, una vera e propria guerra di religione, una jihad in corso da anni in tutti i continenti, dal Medio all’Estremo Oriente, dall’Africa al Sudamerica. Stavolta, complici le dimensioni dell’attacco e il numero di vittime, ma anche la penuria di notizie durante le festività pasquali, l’eccidio ha trovato spazio nelle headlines di grandi network e giornali.
È sintomatico dell’epoca in cui viviamo che per evitare di affrontare le scomode verità del nostro tempo si tenti di aggirarle, di ingannarle, semplicemente cancellando dal nostro vocabolario le parole che vi fanno riferimento e che le descrivono. Non poteva non accadere anche alla strage di cristiani nello Sri Lanka.
E non è un caso che proprio i due maggiori leader della cultura politica liberal, l’ex presidente Usa Barack Obama e l’ex segretario di stato, candidata a succedergli, Hillary Clinton, abbiano persino coniato una nuova e beffarda espressione pur di evitare di pronunciare la parola “cristiani”: vittime degli attacchi a Colombo, hanno scritto in due tweet guarda caso a distanza di poche ore tra di loro, sarebbero stati dei fantomatici “Easter worshippers” (“devoti della Pasqua”), quasi fosse un nuovo e misterioso culto, un po’ esotico – qualcuno potrebbe pensare che si stia parlando degli indigeni dell’Isola di Pasqua. E se “Easter worshippers” sono le vittime, perché non chiamare i carnefici “Ramadan worshippers”?
Ma attenzione: non siamo di fronte solo all’ennesimo esercizio di politicamente corretto. Se così fosse, avremmo letto e ascoltato simili espedienti linguistici anche per la strage nelle moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda. Invece, nei loro tweet di allora, gli stessi Obama e Clinton esprimevano solidarietà alla “comunità musulmana” e parlavano di lotta all'”islamofobia”. In modo simmetrico, oggi sarebbero dovute arrivare solidarietà alla “comunità cristiana” e condanne della “cristianofobia”. 
Ci troviamo quindi di fronte a una pulizia del pensiero che va ben oltre l’obiettivo del politicamente corretto di neutralizzare il linguaggio. Ad essere epurati dal nostro discorso pubblico e politico sono le identità e i riferimenti propri di una specifica cultura, quella occidentale, che ritornano solo quando c’è da criminalizzarla. Se le vittime sono tali in quanto di religione cristiana, la loro identità “cristiana” va taciuta, nascosta, così come l’appartenenza islamica dei carnefici. Viceversa, come nel singolo caso di Christchurch, nessun indugio a identificare nei musulmani le vittime (e a indossare il velo come gesto di vicinanza) e nell’uomo bianco cristiano il carnefice.
Non chiamare le cose e i fatti con il loro nome è il primo passo della negazione. E dalla negazione della realtà, e della propria identità, non può scaturire alcuna analisi corretta, figuriamoci una politica efficace… Non c’è lògos, non c’è dialogo. È questo il “nemico interno” più pericoloso per l’Occidente: il disarmo culturale preludio del disarmo politico e militare.
Per fortuna c’è chi si oppone al discorso antioccidentale della politica e dei media liberal. La lotta al “terrorismo islamico radicale” che ha colpito lo Sri Lanka “è anche quella dell’America”, ha sottolineato ieri il segretario di stato Usa Mike Pompeo. Come dimostrano le parole dell’arcivescovo di Colombo, il cardinale Malcolm Ranjith, si possono esortare le comunità cristiane e i cittadini a non “farsi giustizia da soli”, senza per questo negare o tacere il fatto che il “vile attacco” fosse “principalmente diretto contro i cristiani”.
Flebile e formale, quasi gelida, si leva la condanna del capo della Chiesa cattolica. Eppure, anche prima del massacro dello Sri Lanka non mancavano certo buone ragioni per dedicare la Via Crucis di quest’anno alla “passione” dei cristiani perseguitati e massacrati in tutto il mondo, ma soprattutto in Oriente, invece che ai migranti. La persecuzione e il martirio delle minoranze cristiane d’Oriente non sono certo novità che scopriamo con la strage di Colombo. Proseguono da anni, da decenni anzi, e sono ben documentati nel recente libro di Giulio Meotti “La Tomba di Dio”. Un problema che “va molto oltre l’Isis” e “purtroppo c’è questa tendenza, quando si parla di persecuzione dei cristiani, a omettere la matrice islamista”, ha spiegato Meotti a Radio Radicale. Per esempio, “la scomparsa delle più antiche minoranze cristiane che parlano ancora la lingua di Gesù non ha generato emozioni nell’opinione pubblica occidentale, sempre pronta a mobilitarsi per altre cause. Nessuno in Occidente è sceso per strada con cartelli, il martirio dei cristiani orientali non ha interessato le autorità e i principali media”.
Senso di colpa, quasi che difendendo i cristiani al di fuori dei Paesi occidentali si peccasse di colonialismo? Per timore di alimentare una guerra di religione? Oppure, a causa di un Occidente che ha perso di vista le proprie radici culturali e religiose? Un po’ tutti questi motivi insieme, secondo Meotti: certamente i cristiani d’Oriente visti come i “resti del colonialismo occidentale”; “una secolarizzazione della mentalità occidentale per cui tendiamo a non preoccuparci per le vittime religiose se non quando si tratta di musulmani”. In Occidente è diventato “facile mobilitarsi per l’Altro per eccellenza, mentre quando l’Altro siamo noi siamo più pigri”.
Quando il Papa emerito Benedetto XVI, con la lezione di Ratisbona, ricorda Meotti, “indicò nell’Islam un problema nella sua intolleranza nei confronti delle altre fedi, fu notoriamente linciato, non solo nelle piazze del mondo islamico ma anche da tanti benpensanti occidentali”. Ma come vediamo in questi giorni, quel problema non si può eludere solo negandolo ed esorcizzandolo attraverso la pulizia e la polizia del linguaggio.
  Fonte

Le stragi terroristiche contro i Cristiani dello Sri Lanka

Dal sito della Diocesi di Trieste la condanna, senza se e senza ma, dall'inaudita strage di cristiani del giorno di Pasqua nello Sri Lanka per mano delle bestie infernali=terroristi islamici che ha provocato oltre 310 morti, 500 feriti.
L'immagine a sinistra è quella della statua di Gesù Risorto venerata nella chiesa-santuario di Sant'Antonio nella Capitale Colombo. Il sangue dei fedeli massacrati dalla terribile esplosione
provocata dai terroristi islamici si è riversato sulla statua del Cristo Risorto.

Le stragi terroristiche nella Domenica di Pasqua

La Diocesi esprime la sua fraterna vicinanza e l’assicurazione della propria preghiera ai cristiani dello Sri Lanka e condanna fermamente gli atti di terrorismo islamo-jihadista che hanno insanguinato il Paese asiatico, colpendo soprattutto i cristiani che, nel giorno di Pasqua, si trovavano raccolti nelle chiese a celebrare la risurrezione del Signore Gesù.
Atti di morte mentre si celebrava la vita e l’amore divini. 
I kamikaze che si sono immolati in nome di Dio per uccidere 
altri uomini non hanno compiuto altro che atti di profanazione e di bestemmia. 
Definire «martiri» questi mostri che sono morti compiendo atti terroristici è stravolgere il concetto di martirio, che è testimonianza di chi si fa uccidere per non rinunciare a Dio e al Suo amore e non di chi uccide in nome di Dio. 
Quale segno di speranza ci resta la statua del Cristo Risorto, rimasta ritta all’interno di una delle chiese attaccate: essa si presenta macchiata con il sangue dei nuovi martiri cingalesi che, con il dono della loro vita, hanno offerto la più eloquente e convincente testimonianza di quanto la fede in Cristo promuova la vera umanità nella fraternità e nella pace.


JIHAD
Pugnalati per strada, gli attentati islamici invisibili

Due aggressioni all'arma bianca, a Torino e a Roma, entrambe compiute da immigrati musulmani che inneggiavano Allah e insultavano la fede cristiana. Non è solo "opera di balordi", è micro-terrorismo.


Due fatti criminali, a meno di 48 ore uno dall’altro, inducono a ritenere che l’Italia non venga più risparmiata dal terrorismo islamico “fai da te”, quello caratterizzato da attacchi sporadici con coltelli o armi improvvisate nel nome di un ideale islamico.

Il primo episodio è accaduto il 21 aprile a Torino e ha visto protagonista il senegalese di 26 anni Ndiaye Migui che ha aggredito due poliziotti al grido di “Allah akhbar”. Destinatario da alcuni mesi di due provvedimenti di espulsione, uno del questore di Cuneo e un altro del questore di Torino, Migui qualche settimana fa era stato arrestato per resistenza al pubblico ufficiale, ma l'udienza di convalida si era conclusa con la sua scarcerazione benché, a quanto pare, avesse rifiutato di farsi identificare.

L'Associazione Nazionale Funzionari di Polizia ha rilevato un aumento degli episodi di violenza nei confronti degli appartenenti alle forze dell'ordine e ha invitato a valutare strutture e modalità di contenimento dei soggetti con problemi psichiatrici. E' stato il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, a dare notizia dell'aggressione avvenuta nei pressi di un edificio abbandonato in cui il senegalese aveva trovato un riparo di fortuna. Intervenuti su segnalazione di un vigilantes, anche lui ferito, i poliziotti sono stati colpiti con una sbarra di ferro alla testa e a una mano: aggressione che ha determinato questa volta l'arresto con l'accusa di tentato omicidio. "Nessuna tolleranza per balordi e violenti che attaccano le forze dell'ordine", ha sottolineato il ministro Salvini, mentre la viceministro dell' Economia, Laura Castelli, ammette la necessità di "intervenire con maggiore incisività sul fenomeno delle aggressioni al personale della Difesa e di Pubblica Sicurezza".

Non sono mancate ovviamente le speculazioni politiche con l'assessora ai Diritti della Regione Piemonte, Monica Cerutti, che ha invitato a contrastare "il clima d' odio che può fare presa sulle persone fragili e insicure" puntando il dito contro il decreto sicurezza che, "anziché favorire l'inclusione degli stranieri li caccia nell'irregolarità". Chissà quanti italiani hanno voglia di includere nella propria comunità un senegalese che aggredisce a sprangate al grido di “Allah akhbar”.

Il secondo episodio è accaduto invece a Rona, zona stazione Termini, il 23 aprile. Un marocchino ha aggredito ferendolo alla gola con un coltello, un georgiano pare per rubargli una catenina d’oro con un crocefisso, offendendolo per la sua fede cristiana. Il georgiano si è presentato dai poliziotti a piazza dei Cinquecento, dicendo di essere stato aggredito poco prima a bordo di un bus da un marocchino che, al culmine della lite, l'aveva accoltellato alla gola. Inseguito dai poliziotti, l'uomo – che nel frattempo si era liberato del coltello da cucina con cui aveva ferito il georgiano - è stato bloccato in via Cavour. Il marocchino è stato arrestato per tentato omicidio mentre il georgiano, che ha avuto una prognosi di 21 giorni, ha raccontato agli agenti che l'aggressore, appena ha visto il crocefisso lo ha attaccato al grido "cattolico di m...".

Le indagini sono ancora in corso ma i due episodi potrebbero indicare che l’Italia sta diventando anch’essa un obiettivo per il terrorismo islamico, almeno quello fai da te basato su aggressioni compiute da musulmani con coltello e altri oggetti con lama o contundenti che imperversa in molti paesi europei (Francia, Gran Bretagna, Germania, Svezia…). Una minaccia da non sottovalutare e che sarebbe pericoloso attribuire a gesti criminali privi di paternità ideologica, come si sta facendo in gran parte d’Europa.

Meglio non dimenticare che l’uso di armi bianche o improprie (coltelli da cucina, auto, veleni, accette, spranghe…) per “colpire gli infedeli nelle terre dei crociati” venne teorizzato e diffuso sulle reti e sui social jihadisti nell’estate 2014 da Mohamed al-Adnani, capo della propaganda dello Stato Islamico ucciso due anni dopo da un drone statunitense in Siria. Da allora in Europa Occidentale (non in Mitteleuropa o in Europa Orientale dove i governi non hanno mai accolto migranti illegali nè rifugiati islamici) investimenti con auto o camion e accoltellamenti al grido “Allah akhbar” si sono moltiplicati a dismisura e ora sembrano diffondersi anche in Italia.

Salvini ha scritto a prefetti e questori "per aumentare controlli e attenzione nei luoghi di aggregazione di cittadini islamici, per prevenire ogni tipo di violenza contro cittadini innocenti". "Il ministro dell'Interno ha il dovere di garantire la sicurezza e di non sottovalutare questi fenomeni” ha risposto il ministro alle critiche del PD che lo ha accusato di strumentalizzare i fatti.

Gianandrea Gaiani

http://www.lanuovabq.it/it/pugnalati-per-strada-gli-attentati-islamici-invisibili
Il mio anello in argento, con la croce in rilievo
Fra vile occultamento e rischio di coltellate, io ho fatto la mia scelta

Regina dei martiri, regina dei confessori della fede, ho deciso di farmi un anello. Non un anello di pura vanità, non un anello d’oro, non un anello griffato: un anello di testimonianza e dunque un anello con croce. Seguendo San Paolo (“Non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo”) e il cambiamento che ha portato noi cristiani a essere minoranza ovunque. Non solo in paesi remoti ma anche, a forza di stendere ponti verso le maomettane sponde, a Roma. Dove alla stazione Termini i cattolici e pure gli ortodossi possono scegliere fra vile occultamento e rischio di coltellate. Regina dei martiri, regina dei confessori della fede, per confessarsi, mostrarsi amici di tuo figlio il crocefisso al collo non basta, se come nel mio caso risulta quasi sempre invisibile (sono freddoloso, solo in piena estate porto la camicia sbottonata). Per questo devo farmi urgentemente un anello. Penso che sarà d’argento con la croce in rilievo perché di questi tempi anche l’effetto tirapugni può far gioco (“Un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui”, scrive San Tommaso). Ora pro me e per il mio orefice.


Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.