ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 25 maggio 2019

"No" to theologian

Nell’Eucaristia c’è una componente erotica. Parola di un “teologo cattolico”


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Una lettrice che si è imbattuta in un incredibile articolo sull’Eucaristia me lo segnala chiedendomi come sia possibile essere arrivati a tal punto.
Nell’articolo, intitolato Eucaristia. Corpo, pasto ed eros (titolo che di per sé mette una certa inquietudine), l’autore, teologo cattolico che insegna in un seminario, scrive fra l’altro: «Spesso nella tradizione abbiamo rischiato di porre talmente tanta enfasi sull’idea che quel pane e quel vino non sono più tali ma corpo e sangue di Gesù e sul fatto che i sensi non devono ingannare anche se vedono solo pane e vino che abbiamo rischiato di pensare in modo un po’ magico alla realtà della presenza del corpo di Cristo (…) Noi viviamo di simboli. E il corpo di Gesù non è altro rispetto a un buon pane spezzato».

E ancora: «La messa è un pasto ritualizzato (…) Ma non possiamo dimenticare che a messa ci sediamo a tavola con altri. Anche la dimensione comunitaria non è di poco conto. La prima cosa che accade partecipando all’eucaristia è che ci si ritrova: la celebrazione inizia proprio con l’atto di radunarsi».
E infine: «“Prendi, questo è il mio corpo” è una frase che senza nessuna difficoltà potrebbe essere contestualizzata in quello che un uomo dice alla sua donna o viceversa. Scrive T. Radcliffe [padre Timothy Radcliffe, domenicano inglese, ndr]: “Vorrei parlare dell’ultima cena e della sessualità. Può sembrare un po’ strano, ma pensateci un momento. Le parole centrali dell’ultima cena sono state: ‘Questo è il mio corpo, offerto per voi’. L’eucarestia, come il sesso, è centrata sul dono del corpo (…) Comprendiamo l’eucarestia alla luce della sessualità e la sessualità alla luce dell’eucarestia. C’è dunque una componente erotica dell’eucaristia che non deve essere trascurata. Tra due amanti c’è un codice del corpo che eccede l’ordine delle parole”».
Ho letto e riletto. È scritto proprio così.  Ho provato imbarazzo per quell’autore, e poi, esattamente come la lettrice, mi sono chiesto: ma è possibile? Ma questa non è apostasia e blasfemia? Com’è possibile, soprattutto, che tali tesi siano sostenute da un teologo cattolico che insegna in un seminario? E com’è possibile che nessuno gli abbia revocato il permesso di insegnare o, per lo meno, che non gli sia stato chiesto di rendere conto di certe tesi?
Queste le domande. Di fronte alle quali, anziché proporre una mia risposta (non ho alcun titolo in proposito, se non quello di semplice battezzato che istintivamente avverte repulsione per certe idee) ho preferito chiedere aiuto a un religioso e teologo del quale mi fido, una persona saggia, preparata e certamente di retta dottrina.
Qui propongo a tutti la sua riflessione, che mi sembra molto chiara ma, purtroppo, è senza firma, perché il mio amico, pur non essendo certamente un pusillanime, non può permettersi, al momento, di esporsi alle rappresaglie di coloro che grondano misericordia da tutti gli artigli.
***
Caro Valli, sì, siamo a questo punto. Ma non da adesso e non solo in casi che sembrano eccezioni estreme, come quello che le è stato segnalato e che lei, a sua volta, ha voluto sottopormi. Leggendo non mi sono per nulla meravigliato. Ho svolto il mio curriculum di studi teologici negli anni Ottanta e poi nei primi Novanta. Nelle “pontificie” università romane erano già allora ben riconoscibili segnali di sgretolamento. Ma erano un po’ dissimulati, o comunque tollerati, in nome dell’apertura a orizzonti nuovi (guai pronunciare il termine “ortodossia”: si veniva presi in giro), oppure si faceva finta di non accorgersi. Per esempio si sapeva che quel tal professore non sosteneva teorie cattoliche o ortodosse, ma si glissava e si taceva per timore di non si sa che cosa. Sa che mi disse un rettore magnifico di una di queste “pontificie” accademie, quando gli segnalai che io, al posto suo, avrei avuto un problema di coscienza a permettere al professor N.N. di insegnare? Mi rispose, quasi a scusarsi: «Ma tanto chi lo capisce?». Io però avevo capito benissimo! Questo le può dare un piccolo segnale del problema già allora in incubazione avanzata.
Personalmente non mancavo di far presente all’uno o all’altro docente certe loro posizioni “anomale”, obiettando quando se ne presentava l’occasione. Ma non ero troppo preoccupato, perché il magistero era ancora chiaro e interveniva, quando ce n’era bisogno. In realtà il fiume carsico era molto più forte e imponente di quanto pensassi allora. Adesso lo vedo. Nei seminari e nelle facoltà teologiche, negli ultimi quasi sessanta anni si è insegnata una teologia senz’altro piena di stimoli e di sforzi coraggiosi, e anche di acquisizioni indubbiamente positive, ma troppo spesso debole, imprecisa, e non di rado anche eterodossa. I preti, i vescovi e i teologi di adesso (anche il papa!) sono figli di questa teologia cresciuta molto, ma in modo disordinato, cercando di metabolizzare Kant, Hegel, Heidegger, Gadamer, ma senza avere uno stomaco abbastanza forte. Ne è derivata, mediamente, una formazione sbilenca e fumosa, che ha privilegiato eccessivamente la prassi, la pastorale, le emozioni, l’irenismo, e ha perso il rispetto per il rigore della distinzioni e la contemplazione della verità, perché questo è “astratto”. Ma non ci si accorge che seguendo questa strada si è destinati a essere superati già domani o dopodomani. L’errore ha vita breve, anche se fa tanto rumore per dissimularsi. Chi si ricorda più, oggi, di tutti i flirt fra cristianesimo e marxismo negli anni ’60 e ’70? E’ archeologia. E’ rimasto però un certo orizzontalismo, che perdura nella riduzione, oggi endemica, del cristianesimo a solidarietà, tolleranza, benevolenza. E’ quella teologia liberale contro cui Newman nell’800 e Barth nel ‘900 hanno reagito, ma che è ancora vivo e vegeto, e che è parente della piaga del liberismo globalista. Questo tipo di teologia, che non è tutta la teologia attuale (per fortuna), è colonizzata dalla cultura egemone. Ma bisogna solo aver pazienza. Il diavolo si scava la fossa da solo: “Cadano nella fossa che hanno scavata”.
Non aggiungo altro. Mi ha dato l’occasione di un piccolo sfogo.
***
Ecco, questa la risposta del religioso. Con una mia brevissima chiosa. È certamente vero che il diavolo si scava la fossa. Ma il mio timore è che, a forza di essere pazienti, ci stiamo cascando dentro tutti quanti.

2 commenti:

  1. Questo succede quando la dimensione sacra e trascendentale viene smarrita, purtroppo da molti pastori in primis, e non si riesce più ad elevare il pensiero oltre ...la cintura. Solo una persona molto sciocca, superficiale e limitata (o in totale malafede) può sostenere quando scritto in quell'articolo delirante. Purtroppo, non sappiamo più staccare gli occhi dalla terra e queste sono le conseguenze. Quanto allo sciagurato che sostiene tali scelleratezze, fino a pochi anni fa sarebbe subito stato licenziato, defenestrato e sospeso a divinis, come merita.

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  2. Direi proprio totale malafede!
    Mala fides currit!

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