Nel trattare le vicende di abusi sessuali imputati a sacri ministri accade talvolta che ai vari gradi della Chiesa si commettano errori di segno opposto. O per eccesso di benevolenza, o per smisurato rigore.
Due casi recenti sono emblematici. Uno in Italia e un altro in Polonia. Entrambi coinvolgono il Vaticano e la stessa persona del papa.
*
Il primo caso è l’improvvisa comparsa, su “L’Osservatore Romano” del 19 giugno, della firma di un sacerdote, Giacomo Ruggeri, presentato come studioso delle “dinamiche dei social media e del digitale nella sfera dell’antropologia, della teologia, della pastorale”.
Il suo contributo, primo di una serie, è a pagina 4 del quotidiano ufficiale della Santa Sede, sotto la rubrica “Ospedale da campo”, che – citando papa Francesco – allinea storie finalizzate a “curare le ferite e riscaldare il cuore dei fedeli”.
Una di queste ferite è appunto affidata alla cura di don Ruggeri, che così la descrive:
“In un tempo caratterizzato dall’estrema cura del corpo, da esibire in ogni dove, ogni volta che prendo in mano lo smartphone non sto accedendo a un oggetto, ma sto entrando in relazione con me medesimo, attraverso vie inedite e non pienamente consapevoli. È quella che definisco la ‘pelle digitale’: si riproduce continuamente nel nutrire la mia persona resa virale nei social, nel fornirgli cibo abbondante a suon di foto, video, post e soprattutto follower”.
È un ripiegamento su se stessi – diagnostica don Ruggeri – che configura una vera e propria patologia, una bulimia digitale che può essere guarita solo “a caro prezzo”, con il silenzio.
Ma chi è l’autore di questo articolo? Giacomo Ruggeri è un sacerdote della diocesi di Pordenone che per vari anni ha svolto il suo ministero in un’altra diocesi, quella di Fano, come parroco e come portavoce del vescovo Armando Trasarti.
Nel 2012 fu arrestato e l’anno successivo processato per atti sessuali commessi in una spiaggia pubblica con una ragazza di 13 anni, atti che lui stesso ammise come “fuori luogo” anche se mossi da “affetto sincero”. Condannato a 2 anni e 6 mesi di reclusione, la sua pena fu ridotta in appello nel 2016 a 1 anno, 11 mesi e 10 giorni, col beneficio dell’esonero dal carcere.
Il vescovo di Fano sospese don Ruggeri da ogni incarico pastorale e a Roma anche la congregazione per la dottrina della fede lo giudicò colpevole, senza però sospenderlo “a divinis” né ridurlo allo stato laicale.
Oggi don Ruggeri è tornato a Pordenone, con il cui vescovo Giuseppe Pellegrini aveva collaborato anni prima a Roma nel servizio nazionale per la pastorale giovanile. E ha preso a scrivere per l’editrice cattolica “Il Pozzo di Giacobbe”, dove cura – come ricorda “L’Osservatore Romano” nel presentare la sua nuova firma – le collane “Discernere hic et nunc” e “Capire il nuovo”, nelle quali figurano per ora soltanto tre libri suoi, tutti dedicati al “discernimento” spirituale in situazioni di crisi, patologie digitali comprese, con una speciale attenzione agli “Esercizi” di sant’Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù.
Ma ora che don Ruggeri scrive anche su “L’Osservatore Romano”, i sostenitori della cosiddetta “tolleranza zero” avranno materia per protestare.
A meno che questo suo benevolo reclutamento da parte del giornale della Santa Sede sia da intendere come uno degli “itinerari penitenziali e di recupero per i colpevoli” raccomandati da papa Francesco nei “Punti di riflessione” da lui offerti al summit vaticano sugli abusi sessuali dello scorso febbraio.
*
Il secondo caso emblematico, più grave, ha per teatro la Polonia e ha avuto un suo momento chiave il 20 febbraio di quest’anno, vigilia del summit sugli abusi, quando al termine dell’udienza generale del mercoledì Francesco ricevette due attiviste della sinistra radicale polacca, Joanna Scheuring-Wielgus e Agata Diduszko-Zyglewska, e assieme a loro il presidente di una fondazione di sostegno delle vittime dei preti pedofili, Marek Lisinski, al quale il papa baciò enfaticamente la mano (vedi foto) dopo aver ricevuto da lui un dossier contro le complicità dei vescovi di Polonia in tali misfatti.
Francesco non sapeva, però, ciò che due successive inchieste indipendenti e “laiche” – una del giornalista Sebastian Karczewski e un’altra del giornale liberale “Gazeta Wyborcza” – avrebbero smascherato in modo inoppugnabile, cioè che Lisinski, presentato al papa come vittima di un prete pedofilo, nascondeva in realtà una storia tutta diversa. Si era fatto prestare dei soldi da un sacerdote, Zdzisław Witkowski, e per non restituire il debito aveva accusato il prete di avere abusato di lui trent’anni prima.
I dettagli della vicenda sono accuratamente riportati su ACI Stampa del 19 giugno in questa corrispondenza da Varsavia di Wlodzimierz Redzioch:
Qui basti dire che Lisinski inoltrò la sua accusa nel 2010 al vescovo Piotr Libera della diocesi di Plock nella quale don Witkowski era incardinato. L’indagine iniziale accertò l’innocenza del sacerdote, ma contro di lui fu scatenata una campagna d’opinione pesantissima, che indusse il vescovo nel 2013 a sospenderlo per tre anni dal servizio sacerdotale e a trasmettere a Roma, alla congregazione per a dottrina della fede, proprio le peggiori accuse contro don Witkowski. Col risultato che nel 2017 la congregazione confermò le sanzioni contro il sacerdote.
Tutto ciò trasformò Lisinski in un campione della guerra contro la pedofilia nella Chiesa, quando in realtà tesseva le sue trame per trarne vantaggi molto materiali.
“Se questi fatti fossero stati rivelati prima, probabilmente non ci sarebbe stato il famoso incontro di Lisinski con Francesco”, scrive Redzioch nella sua corrispondenza da Varsavia. E aggiunge:
“Purtroppo, le rivelazioni giornalistiche hanno gettato un’ombra anche sull’operato della curia di Plock e del vescovo Libera che, applicando acriticamente la regola della ‘tolleranza zero’, non ha fatto niente per capire bene il caso e difendere un sacerdote sicuramente innocente. In questo contesto bisogna indubbiamente collocare la decisione di Libera di lasciare per sei mesi il governo della diocesi e ritirarsi, a partire da luglio, in un convento di camaldolesi per un periodo di ‘penitenza e preghiera per la Chiesa in Polonia e la sua diocesi’. […] Piegarsi al politicamente corretto, assecondare le aspettative dei media, affrettare il giudizio sulla colpa possono soltanto aggravare la situazione e alimentare sempre di più la spirale di bugie”.
----------
L'11 giugno Wlodzimierz Redzioch, 68 anni, l'autore del reportage citato, è stato insignito dalla presidenza dello Stato polaccco del titolo di Cavaliere dell'ordine al merito della repubblica di Polonia.
Settimo Cielo di Sandro Magister 24 giu
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.