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lunedì 5 agosto 2019

Di lingua e di ceppo germanico

Che cosa direbbe Benedetto XVI al sinodo dell’Amazzonia



La marcia d’avvicinamento al sinodo dell’Amazzonia è sempre più connotata come una battaglia campale con epicentro la Germania e con una posta in gioco altissima: l’essenza della missione di Gesù e quindi anche della Chiesa.
Sono di lingua e di ceppo germanico, infatti, i leader di entrambi gli schieramenti. Da una parte il cardinale Cláudio Hummes e il vescovo Erwin Kräutler, i maggiori promotori del sinodo. Dall’altro i cardinali Gerhard MüllerWalter Brandmüller, critici severissimi dell’impostazione data all’assise. Con papa Francesco che non sta nel mezzo, ma parteggia in pieno per i primi e neppure degna di un cenno d’attenzione i secondi.

Ma c’è anche un altro grande tedesco che di fatto prende parte al conflitto. Il suo nome è Joseph Ratzinger. Lui tace, Ma basta ciò che ha detto e fatto in passato, anche da papa con il nome di Benedetto XVI, per vederlo schierato. Tra i critici più radicali.
Qual è, infatti, la questione cruciale della battaglia in corso? È il primato dato dall’”Instrumentum laboris”, il documento base del sinodo, alla difesa della natura e al benessere materiale delle popolazioni amazzoniche, con le loro tradizioni, rispetto a ciò che nei Vangeli è chiamato “perdono dei peccati” e ha nel battesimo il suo primo sacramento. Non è un caso che il vescovo Kräutler si sia vantato, dopo decenni di “missione” in Amazzonia, dicendo: “Non ho mai battezzato un indio, e neppure lo farò in futuro”.
Ratzinger ha scritto più volte di tale questione capitale. Ma c’è un passaggio straordinariamente semplice e chiaro del suo terzo libro della trilogia su Gesù di Nazaret, quello dedicato ai Vangeli dell’infanzia, pubblicato nel 2012, che merita di essere riportato.
Lì Benedetto XVI prende spunto dall’annuncio dell’angelo a Giuseppe che Maria “darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1, 21), per proseguire come segue.
Sono parole illuminanti, tutte da rileggere con il pensiero alla disputa sull’Amazzonia.
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SALVEZZA SÌ, MA DA CHE COSA?
di Joseph Ratzinger / Benedetto XVI
Il messaggero di Dio, che parla a Giuseppe nel sogno, chiarisce in che cosa consiste questa salvezza: “Egli salverà il suo popolo dai suoi peccati”.
Con ciò, da una parte, è dato un alto compito teologico, poiché solo Dio stesso può perdonare i peccati. Il bambino viene così messo in relazione immediata con Dio, viene collegato direttamente con il potere santo e salvifico di Dio. Dall’altra parte, però, questa definizione della missione del Messia potrebbe apparire anche deludente. L’attesa comune della salvezza è orientata soprattutto verso la concreta situazione penosa di Israele, verso la restaurazione del regno davidico, verso la libertà e l’indipendenza di Israele e con ciò, naturalmente, anche verso il benessere materiale di un popolo in gran parte impoverito. La promessa del perdono dei peccati appare troppo poco e insieme troppo. Troppo, perché si invade la sfera riservata a Dio stesso; troppo poco, perché sembra che non sia presa in considerazione la sofferenza concreta di Israele e il suo reale bisogno di salvezza.
In fondo, già in queste parole è anticipata tutta la controversia sulla messianicità di Gesù: ha veramente redento Israele o forse non è rimasto tutto come prima? È la missione, così come Egli l’ha vissuta, la risposta alla promessa o non lo è? Sicuramente non corrisponde all’attesa immediata della salvezza messianica da parte degli uomini, che si sentivano oppressi non tanto dai loro peccati, quanto piuttosto dalla loro sofferenza, dalla loro mancanza di libertà, dalla miseria della loro esistenza.
Gesù stesso ha sollevato in modo drastico la questione circa la priorità del bisogno umano di redenzione, quando i quattro uomini che, a causa della folla, non poterono far entrare il paralitico attraverso la porta, lo calarono giù dal tetto e glielo posero davanti. L’esistenza stessa del sofferente era una preghiera, un grido che chiedeva salvezza, un grido a cui Gesù, in pieno contrasto con l’attesa dei portatori e del malato stesso, rispose con le parole: “Figlio, ti sono perdonati i peccati” (Mc 2, 5). Proprio questo la gente non si aspettava. Proprio questo non rientrava nell’interesse della gente. Il paralitico doveva poter camminare, non essere liberato dai peccati. Gli scribi contestavano la presunzione teologica delle parole di Gesù; il malato e gli uomini intorno erano delusi, perché Gesù sembrava ignorare il vero bisogno di quest’uomo.
Io ritengo tutta la scena assolutamente significativa per la questione circa la messianicità di Gesù, così come viene descritta per la prima volta nella parola dell’angelo a Giuseppe. Qui viene accolta sia la critica degli scribi che l’attesa silenziosa della gente. Che Gesù sia in grado di perdonare i peccati, lo mostra adesso comandando al malato di prendere la sua barella per andare via guarito. Con questo, però, rimane salvaguardata la priorità del perdono dei peccati quale fondamento di ogni vera guarigione dell’uomo.
L’uomo è un essere relazionale. Se è disturbata la prima, la fondamentale relazione dell’uomo – la relazione con Dio –, allora non c’è più alcun’altra cosa che possa veramente essere in ordine. Di questa priorità si tratta nel messaggio e nell’operare di Gesù. Egli volle, in primo luogo, richiamare l’attenzione dell’uomo al nocciolo del suo male e mostrargli: se non sarai guarito in questo, allora, nonostante tutte le cose buone che potrai trovare, non sarai guarito veramente.
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Il libro da cui è tratto il brano:


Settimo Cielo
di Sandro Magister 05 ago

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