Don Mario Castellano, direttore dell’Ufficio Liturgico e dell’Ufficio Pastorale della diocesi di Bari-Bitonto, oltre che cerimoniere del vescovo, mons. Francesco Cacucci, ha tenuto il 18 febbraio 2019 nel convento s. Francesco da Paola in Monopoli due incontri. Durante tali conferenze, don Mario Castellano ha fatto delle affermazioni che hanno lasciato perplessi alcuni fedeli, quelli che hanno una conoscenza più approfondita degli insegnamenti della Chiesa. Al fine di fugare i loro dubbi, questi fedeli hanno presentato alcune delle affermazioni di don Castellano (le trovate riportate in rosso) ad un esperto della materia, mons. Nicola Bux, già consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede e della Congregazione delle cause dei santi sotto i papati di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, consultore della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, e consultore dell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del sommo pontefice. Mons. Bux è stato anche docente a Gerusalemme, Roma e Bari.
Ho ricevuto, e volentieri pubblico, il testo delle affermazioni di don Mario Castellano e delle risposte che mons. Nicola Bux da dato ai quesiti postigli dai fedeli. L’auspicio è che il testo che segue serva di approfondimento per tutti.
CASTELLANO: Vediamo qual’è il significato di Eucaristia, che ha in se stessa e per la nostra vita.
Partiamo dal fatto che la stessa Eucaristia è stata chiamata in modi diversi: cena del Signore, la “fractio Panis” (più antica); questo ci dice che è importante il gesto della frazione del pane.
Una cosa che la teologia ha consolidato è che l’Eucaristia è il “Memoriale della Pasqua”.
Nella storia alcuni hanno privilegiato: Cena del Signore da cui è derivato il “Banchetto”; prima di essere un Banchetto la Cena è:
- CENA : 1° LETTERA S.Paolo Corinzi
- CENA del SIGNORE: versetti 23-26 S.Paolo Corinzi
DON NICOLA BUX:
Come definire questo sacramento
Cristo ha istituito questo sacramento per rendere presente la sua passione e morte, il suo sacrificio sugli altari. Infatti egli dice: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51). Lo ha fatto per rimanere con gli uomini tutto il tempo della loro vita: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”,(Mt 28,20).Lo ha fatto per farsi cibo e bevanda dell’anima, dicendo: “Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà più fame” (Gv 6,35). Lo ha fatto, per visitare l’uomo nel momento della morte e per portarlo in Paradiso. Infatti ha detto: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”. (Gv 6,54).
L’istituzione dell’eucaristia da parte di Gesù, avviene nel contesto della cena pasquale e, soprattutto, sulla croce. Qui si propone una prima questione, che riguarda le caratteristiche del sacramento eucaristico: è una cena o un sacrificio? Così risponde il Catechismo: “La Messa è ad un tempo e inseparabilmente il memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce, e il sacro banchetto della Comunione al corpo e al sangue del Signore”. Non è solo un accostamento, poiché vi è un nesso intimo tra cena e sacrificio. Infatti: “La celebrazione del sacrificio eucaristico è totalmente orientata all’unione intima dei fedeli con Cristo attraverso la Comunione. Comunicarsi è ricevere Cristo stesso che si è offerto per noi”(CCC 1382). Certo, il termine memoriale può essere inteso come ricordo di un fatto passato. Non è così, grazie allo Spirito Santo che ci ricorda ogni cosa (cfr Gv 14,26); l’eucaristia fatta dalla Chiesa rende presente e attuale la pasqua di Cristo e il suo sacrificio offerto una volta per tutte (cfr CCC 1364). Rende presente anche la risurrezione? Col battesimo e soprattutto con l’eucaristia, il cristiano soffre e muore con Cristo, mentre della risurrezione riceve il germe che si svilupperà in pienezza alla fine dei tempi, secondo la parola del Signore: “io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv6,40).Ma finché siamo “nella carne”, noi partecipiamo alla sua passione e attendiamo, nella fede e nella speranza, il giorno della glorificazione.
Inoltre, si tratta di sacro banchetto, o convito, nel quale si riceve Gesù Cristo, si fa memoria della sua passione, il cuore si riempie di grazia: viene dato l’anticipo della gloria futura. Sacro significa che c’è la sua presenza divina e quindi bisogna avvicinarsi con quel timore di Dio, che è uno dei sette doni dello Spirito Santo.
Il sacrificio sacramentale è definito eucaristia, termine greco che vuol dire azione di grazie o benedizione, memoriale e presenza di lui, operata dalla potenza della sua parola e dallo Spirito Santo; il tutto culmina nella comunione. E’ festa in senso spirituale, non mondano: non vive di trovate accattivanti, non deve esprimere l’attualità effimera, non è un intrattenimento che deve aver successo, ma ravvivare la coscienza che il mistero è presente tra noi. E’ festa della fede, in cui deporre, come dice la liturgia bizantina, ogni mondana attitudine, perché “misticamente rappresentiamo i cherubini” (tropario d’offertorio).
Ora, è in voga nei canti, nelle preghiere e nei formulari per l’adorazione eucaristica questa espressione: ‘Gesù Cristo è presente nel pane consacrato‘. Anche Lutero sosteneva che Cristo fosse nel pane. Con linguaggio approssimativo, e carente di dottrina, si aggiunge: ma è un mistero. Cristo non ha detto di essere presente nel pane e neppure: “questo pane è il mio corpo”, ma: questo è il mio corpo”, questo indica il passaggio dal pane, che ha preso nelle mani, al corpo, perché in quel momento viene consacrato, cioè la sostanza del pane si converte – come dice il concilio di Trento – nella sostanza del corpo. Sotto – in senso ontologico e non spaziale – le apparenze o aspetto (species) del pane (oggi si direbbe fenomeno) sta il corpo di Cristo. Non è più pane, ma Cristo. Le specie sulle quali è stato fatto il ‘rendimento di grazie’, dal greco …, sono diventate eucaristiche. Perciò si deve parlare della ‘presenza di Cristo sotto le specie eucaristiche‘.
L’espressione ‘pane consacrato’ va pure spiegata. Anche quando Gesù e, successivamente, Paolo usano espressioni, come: “Chi mangia questo pane” (Gv 6,51) e “il pane che noi spezziamo” (1 Cor 10,16), esse vanno intese in senso metaforico; comunque, quando Gesù afferma di essere “Pane di vita” (Gv 6,26-71) intende parlare della sua persona e della sua vita: il suo corpo e il suo sangue, nel linguaggio concreto semitico. Difficile? Ecco la necessità della catechesi, anche mediante i canti?
Gesù ha istituito questo sacramento quando ha preso il pane, dicendo: “questo è il mio corpo offerto in sacrificio…” e, poi, il calice del vino, dicendo: “questo è il calice del mio sangue, versato…” e ordinando: “fate questo in mia memoria”. Il punto è che le parole consacratorie dichiarano il fine: il corpo è offerto in sacrificio per noi e il sangue è versato per la remissione dei peccati. Perciò, in relazione alla passione di Cristo, in cui il sangue era separato dal corpo, il concilio di Trento definisce la santa messa “vero e proprio sacrificio” di Gesù Cristo. Egli si rende presente sull’altare – alta-res, luogo alto per il sacrificio – in obbedienza alle parole consacratorie del sacerdote, e, a causa della separazione del corpo dal sangue, è nella condizione di vittima immolata (immolatitius modus: cfr Enciclica Mediator Dei Pio XII, n 70). Per questo, l’altare è anche mensa dell’Agnello immolato (cfr Apocalisse5,6), per ricevere il pane, separatamente, come sacramento del corpo e il vino come sacramento del sangue (cfr san Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae III q 74 a.1 sc).
Dunque, quale corpo di Cristo è presente nel sacramento? Quello assunto da Maria nell’incarnazione e trasfigurato con la risurrezione e con l’ascensione: qualcuno direbbe che è meglio non dire ‘carne di Cristo’, ma corpo spirituale o glorioso; però, il Catechismo dice: “La Comunione alla Carne del Cristo risorto, ‘vivificata dallo Spirito Santo e vivificante’, conserva, accresce e rinnova la vita di grazia ricevuta nel Battesimo”(1392). Sant’Ambrogio osserva: “Noi costatiamo che la grazia ha maggiore efficacia della natura…La parola di Cristo…che ha potuto creare dal nulla quello che non esisteva, non può cambiare le cose che sono in ciò che esse non erano? Infatti non è meno difficile dare alle cose un’esistenza che cambiarle in altre …Forse che fu seguito il corso ordinario della natura quando Gesù Signore nacque da Maria?…Ebbene quello che noi ripresentiamo è il corpo nato dalla Vergine…E’ dunque veramente il sacramento della sua carne”(sant’Ambrogio, Sui misteri, nn 52-53; SC 25 bis, 186-187).
CASTELLANO: La teologia ha concentrato tutta l’attenzione sul solo momento della Consacrazione tralasciando tutta la Preghiera eucaristica.
La consacrazione comincia quando il Sacerdote dice: il Signore sia con voi e con il vostro Spirito ecc…
DON NICOLA BUX:
Quando comincia la presenza di Cristo nell’eucaristia
Taluni teologi ritengono che la consacrazione – mediante la quale si opera la transustanziazione – del pane e del vino non avvenga all’istante, ma gradualmente, e che l’intera preghiera eucaristica sia consacratoria.
Che dire di questa teoria? L’idea della consacrazione graduale o progressiva è la conseguenza dell’enfatizzazione del valore della preghiera eucaristica nel suo insieme: un tentativo di avvicinarsi, in modo più completo e ricco, al mistero eucaristico. Con l’espressione: “racconto dell’istituzione”, presente nel cuore della preghiera eucaristica, – ossia la consacrazione del pane e del vino, quando alle parole: “Questo è il mio corpo” e “Questo è il (calice del) mio sangue” (cfr CCC 1353, 1376-1377), il pane cessa di essere pane e il vino cessa di essere vino e diventano il corpo e il sangue, l’anima e la divinità di Cristo – si intende sminuire la presenza reale a favore di altri aspetti, come il memoriale del sacrificio di Cristo, la sua risurrezione e la sua ascensione, il ruolo dello Spirito Santo. Se Cristo non fosse già pienamente presente dal momento della consacrazione, la prescrizione delle rubriche del messale al sacerdote, di inginocchiarsi in adorazione, sarebbe senza senso. Sulla dichiarazione vaticana di validità dell’anafora di Addai e Mari, usata in alcune chiese mediorientali, che – priva delle parole della consacrazione – consacrerebbe in modo ‘diffuso’, senza determinare il momento preciso, c’è ancora molto da discutere. L’idea di una graduale trasformazione del pane e del vino, in eucaristia, non è sostenibile più di quanto chi sostiene che un embrione non sia un essere umano all’atto del concepimento e lo diventi gradualmente.
Sull’istante della consacrazione, come tempo sacramentale, influisce l’idea che il tempo sacramentale sia del tutto diverso da quello fisico; ma l’essere diventato tempo metafisico dipende proprio dal fatto che l’Eterno è entrato nell’istante temporale. Nicola Bux ha scritto che l’insistenza della liturgia odierna sull’evento (cioè sul nunc, ora) è andata a scapito della permanenza del sacro (hic, qui), così anche il rito avviene e non dura; eppure «Il linguaggio della fede ha chiamato mistero questa eccedenza riguardo al mero istante storico e ha condensato nel termine mistero pasquale il nocciolo più intimo dell’avvenimento redentivo» (J.RATZINGER, Davanti al Protagonista, Cantagalli, Siena 2009, p 130). Il rifiuto di tale eccedenza ha, in realtà, portato alla rimozione del segno massimo della permanenza del divino: il tabernacolo, malgrado sant’Ambrogio affermi: «Che cosa è l’altare di Cristo se non l’immagine del corpo di Cristo?» (sant’Ambrogio, De Sacramentis, 5,7; CSEL 73, 61; PL 16, 447, perciò «L’altare è immagine del corpo e il corpo di Cristo sta sull’altare»( Ivi, ,4,7; CSEL 73,49; PL 16, 437 cfr CCC 1383). E allora, che fastidio dà il tabernacolo sull’altare della celebrazione? Bisogna riequilibrare evento e permanenza, riunire hic et nunc.
Inoltre, pur affermando il Catechismo che “La presenza eucaristica di Cristo ha inizio al momento della consacrazione e continua finché sussistono le specie” (CCC 1377), ci sono preti che usano amministrare la comunione con le ostie consacrate durante la messa, e non con quelle custodite nel tabernacolo. Pur, a voler mostrare in tal modo il segno della presenza avvenuta, si può far credere che le ultime siano di seconda categoria, mentre è noto che le ostie, solo quando perdono l’apparenza e il gusto del pane, non contengono più la presenza. C’è una differenza di presenza del Signore?
Queste e altre teorie si possono ritrovare nell’impostazione del liturgista Cesare Giraudo. Egli ama parlare del passaggio avvenuto nel primo millennio, dal metodo patristico a quello scolastico che – egli semplifica – sarebbe più debole perché, invece di partire dai testi liturgici, parte dalla propria testa; anche se non spiega la ragione che ha portato a preferire quest’ultimo, cioè il metodo scolastico. Nella Chiesa non c’è stato, anche, uno sviluppo della teologia sacramentale eucaristica? Di qui la sua valutazione negativa del fare teologia a scuola, dimenticando che, anche nel giudaismo, il servizio liturgico dei sacerdoti era affiancato dall’insegnamento dei rabbi. Se il maestro medievale poteva insegnare ciò che aveva speculato nella sua cella, era perché prima aveva adorato il sacramento: san Tommaso e san Bonaventura non hanno insegnato ciò che avevano adorato in ginocchio? Si può ‘studiare’ Cristo pregando, e pregarlo studiando. Quella che Giraudo chiama lettura ‘statica’ dei padri e che oppone a quella ‘dinamica’ – cosa cambiano questi termini nel dogma eucaristico? – non era che il tentativo di verificare la rispondenza della fede alle esigenze della ragione.
Dunque, sull’inizio della presenza Ambrogio ricorda: “Lo stesso Signore Gesù proclama: ‘Questo è il mio corpo’. Prima della benedizione delle parole celesti la parola indica un particolare elemento. Dopo la consacrazione ormai designa il corpo e il sangue di Cristo. Egli stesso lo chiama suo sangue. Prima della consacrazione lo si chiama con altro nome. Dopo la consacrazione è detto sangue. E tu dici: ‘Amen’, cioè, ‘E’ così’”.(sant’Ambrogio, Sui misteri, n 54; SC 25 bis, 188).
Per questo, a richiamare l’inizio del farsi presente di Gesù Cristo, è lodevole suonare il campanello, come esplicitamente previsto nell’ordinamento generale del messale romano: “Poco prima della consacrazione, il ministro, se è opportuno, avverte i fedeli con un segno di campanello. Così pure suona il campanello alla presentazione al popolo dell’ostia consacrata e del calice, secondo le consuetudini locali. Se si usa l’incenso, quando, dopo la consacrazione, si mostrano al popolo l’ostia e il calice, il ministro li incensa”(OGRM n 150). Malgrado il divieto di liturgisti modernisti, così si fa in molte parti del mondo come nelle liturgie papali, con gioia di ministri e fedeli.
Dunque, dalla storia della liturgia e del dogma eucaristico si apprende che la forma o rito della messa non è il convito: «Eucaristia significa sia il dono della communio in cui il Signore diventa cibo per noi, sia il sacrificio di Gesù Cristo che ha pronunciato il suo sì trinitario al Padre nel sì della croce ed ha riconciliato tutti noi con il Padre in questo “sacrificio”. Tra pasto e sacrificio non si dà contrasto alcuno; nel nuovo sacrificio del Signore essi si intrecciano inscindibilmente».[1]Nelle due forme della messa bizantina, la “divina liturgia di San Giovanni Crisostomo” e quella “di San Basilio”, il concetto di cena o di banchetto è chiaramente subordinato a quello di sacrificio, proprio come nel nostro canone romano.
[1] J.RATZINGER, Davanti al Protagonista,o.c., p 110.
Di denominazioni della messa ve ne sono, basta consultare il Catechismo della Chiesa Cattolica, ma non si può dire che quella di cena e di memoriale sia primaria rispetto a quella di sacrificio, ripresentazione incruenta del sacrificio del Golgota. Il fatto che l’eucaristia sia il sacrificio del Verbo, la parola di Dio fatta carne – in greco Logos, che significa parola e anche “ragione” – ne fa l’offerta razionale (oblatio rationabilis), il culto logico (logikè latria). Davvero, l’eucaristia è l’ingresso della Chiesa nel “culto razionale”.
CASTELLANO: La Preghiera eucaristica dobbiamo considerarla tutta consacratoria.
DON NICOLA BUX:
Una prima osservazione: se tutta l’anafora è consacratoria, allora niente è consacratorio di quella preghiera; bisognerebbe infatti, spiegare perché mai gli studiosi l’abbiano distinta in più parti(prefazio, epiclesi, anamnesi, intercessioni, ecc).
Del resto, nel pensiero dei padri l’epiclesi allo Spirito è operante ed efficace per le parole di Cristo. Alcune testimonianze:
Giovanni Crisostomo:
“Non è l’uomo a far sì che le offerte divengano il corpo e il sangue di Cristo, ma Cristo stesso, crocifisso per noi. Il prete è lì a rappresentarlo e pronuncia le parole, ma la potenza e la grazia sono di Dio. Questo è il mio corpo, egli dice. Questa parola trasforma le offerte”[1].
Tommaso d’Aquino ha portato il suo contributo decisivo:
“…la conversione (eucaristica) di cui parliamo è istantanea. Primo, perché la sostanza del corpo di Cristo, alla quale termina questa conversione, non ammette un più e un meno. Secondo, perché in questa conversione non c’è un soggetto da preparare gradualmente. Terzo, perché viene compiuta dall’infinita virtù di Dio. (…) Perciò si deve rispondere che questa conversione avviene, come si è detto, per le parole di Cristo proferite dal sacerdote, in modo che l’ultimo istante della dizione di quelle parole è il primo istante della presenza del corpo di Cristo nel sacramento, mentre in tutto il tempo precedente c’era la sostanza del pane”[2].
Dunque, il concilio Tridentino non ha dovuto fare altro che registrare un dato: “Nella Chiesa di Dio c’è stata sempre la fede che subito dopo la consacrazione c’è il vero corpo di N.S.G. Cristo e il suo vero sangue sotto la specie del pane e del vino insieme alla sua anima e divinità. Ma il corpo sotto la specie del pane, il sangue sotto la specie del vino in forza delle parole, ecc”[3].
Si obietta da parte di alcuni liturgisti che Tommaso e il concilio di Trento non erano sensibili alla vita liturgica e alla lex orandi e perciò avrebbero avallato una concezione staticadell’eucaristia, mentre attribuendo valore consacratorio all’epiclesi ne riceverebbe impulso quella dinamica. A parte un certo sapore calvinista di tale proprietà attribuita all’eucaristia, si dovrebbe osservare che, nell’economia biblica come in quella liturgica, lo Spirito viene invocato ed effuso prima perché deve condurre a Cristo, proprio come nell’iniziazione sacramentale: dal battesimo alla confermazione e all’eucaristia. In ogni caso, che lo Spirito s’invochi prima o dopo, o prima e dopo, di certo conduce a Cristo e non da un’altra parte e opera una cum Patre et Filio.
Osserva sant’Ambrogio:
“…che dire della benedizione fatta da Dio stesso dove agiscono le parole medesime del Signore e Salvatore? Giacché questo sacramento che tu ricevi si compie con la parola di Cristo…La parola di Cristo, dunque, che ha potuto creare dal nulla quello che non esisteva, non può cambiare le cose che sono in ciò che non erano? Infatti non è meno difficile dare alle cose un’esistenza che cambiarle in altre… Lo stesso Signore Gesù proclama: ‘Questo è il mio corpo’. Prima della benedizione delle parole celesti la parola indica un particolare elemento. Dopo la consacrazione ormai designa il corpo e il sangue di Cristo. Egli stesso lo chiama suo sangue. Prima della consacrazione lo si chiama con un altro nome. Dopo la consacrazione è detto sangue. E tu dici: ”Amen”, cioè, “E’ così””[4].
Si comprende la crescente consapevolezza ecclesiale, culminata nelle definizioni dei concili di Firenze e di Trento, che le parole della consacrazione siano costitutive del gesto eucaristico e necessarie per la fede cattolica[5].
Inoltre, l’elevazione delle specie consacrate, nata dalla pietà medievale, è il segnale che il mistero si è compiuto nella transustanziazione e costituisce anche l’invito all’adorazione. Analogamente le rubriche della liturgia bizantina prescrivono che il sacerdote reciti le parole a capo chino, alzando in modo epicletico e reverente la destra sul pane e dopo segnando con la croce il calice, prima di pronunciare le parole [6]. Se l’invocazione dello Spirito è operante ed efficace, secondo i padri suddetti, con le parole dell’istituzione, non è sostenibile la valenza consacratoria dell’epiclesi.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che “Nel racconto dell’istituzione l’efficacia delle parole e dell’azione di Cristo, e la potenza dello Spirito Santo, rendono sacramentalmente presenti sotto le specie del pane e del vino il suo Corpo e il suo sangue, il suo sacrificio offerto sulla croce una volta per tutte” (1353); inoltre, che “la presenza eucaristica di Cristo ha inizio al momento della consacrazione e continua finché sussistono le specie eucaristiche” (1377). Quindi, si conosce il momento preciso: dopo le parole di Cristo comincia la presenza e quindi l’adorazione. Non è un limite legato alla nozione di tempo fisico: è l’istante di Dio che è diventato tempo sacramentale, da quando egli, l’eterno, è entrato nel tempo fisico e vi si è sottomesso. I teologi contemporanei non ci hanno resi sensibili all’hic et nunc della liturgia? Perché scandalizzarsi allora del momento preciso? Il cristianesimo non è l’evento di un dio mitico senza tempo. Questo noi crediamo e insegniamo.
Resta il confine additato da Paolo VI: “Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica deve mantenere fermo che nella realtà obbiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il corpo e il sangue adorabili del Signore Gesù ad essere realmente presenti dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino”. (Solenne professione di fede, 30 giugno 1968,25: AAS 60(1968), 442-443).
CASTELLANO: Ora indaghiamo sul rapporto inscindibile tra croce–morte-resurrezione e le nostre Messe.
Io non condivido molto il fatto che sull’altare debba stare il Crocifisso d’oro, argento, ottone come vorrebbe un certo pensiero un po’ anzianotto e “non antico” perché si dice che sull’altare si vive la morte di GESU’ non solo ma anche la resurrezione.
Ma se devi mettere una croce deve essere gemmata come facevano gli antichi……
Noi ci ostiniamo a mettere Cristo sulla Croce ma Lui è risorto, non è rimasto neanche nel sepolcro.
Ciò che è importante è ciò che avviene sull’altare: io posso mettermi di spalle, davanti anche tutti attorno all’altare, di fronte dietro, a sinistra, a destra a fare scenette.
L’Altare mi riporta al Calvario non solo ma anche a quel giardino.
Abbiate pazienza, i nostalgici che me la vengano a spiegare questa nostalgia; cosa è più preziosa l’Altare o la Croce che è sull’Altare?
Come si permette (come nella mia amata diocesi vanno in giro a dire) che io non mi devo distrarre, ma devo avere lo sguardo fisso sulla Croce: queste sono storielle.
Ci sia sull’altare solo Pane e Vino. Ripuliamolo da tutti questi fronzoli: merli merletti candele croci fiori.
L’importante è essere attorno all’Altare.
DON NICOLA BUX:
L’altare
Nella tradizione giudaica v’era l’altare dei sacrifici – la parte superiore dove si immolano le vittime – e la tavola dei pani da offrire. Col cristianesimo «L’altare dei sacrifici nel cortile del tempio e la tavola delle offerte all’interno, vengono resi nelle chiese con una composizione sintetica, come nella cappella della Theotokos al Nebo, con il simbolo ebraico che diventa tipo dell’altare cristiano».[7]L’altare rappresenta Cristo, la croce e ad un tempo il suo sepolcro (cfr CCC 1182). Esso è anche la mensa del Signore (cfr Eb 13,10) dalla quale scaturiscono i sacramenti del mistero pasquale. L’altare, come lo stesso tempio, è dedicato solo a lui con tutti i suoi santi e non può essere usato per altri scopi.
E’ la parte più santa del tempio ed è elevato, alta res, posto in alto per indicare l’opera di Dio che è superiore a tutte le opere dell’uomo. Non deve essere poggiato sul piano del pavimento, ma almeno elevato su un gradino, meglio se tre, affinché ricordi il Golgota dovendosi su di esso rinnovare il sacrificio che Gesù compì sulla croce. Per questo è sempre rivestito di tovaglie, preferibilmente di lino o canapa, possibilmente due corte che coprano la mensa e una lunga al di sopra delle altre che scenda ai fianchi fin presso al pavimento; indicano la purezza necessaria per accogliere Dio; nella liturgia romana può esservi davanti anche un paliotto, una stoffa ricamata e ornata, incorniciata in legno o metallo, magari del colore della festa; in quella bizantina l’altare è coperto con un velo, quasi una dalmatica diaconale annodata sui quattro lati, ad indicare Cristo fattosi servo.
L’altare non è innanzitutto una mensa, ma un’ara posta in luogo alto per il sacrificio dell’Agnello: diventa mensa solo dopo essere stato mangiatoia, croce e sepolcro. L’Agnello incarnato, immolato e risuscitato appresta la mensa delle sue carni.
Per la liturgia orientale l’altare non deve essere grande, come nella tradizione latina più antica, perchè è sufficiente che si possa accostare il celebrante per il sacrificio; poi su di esso ardono lampade e in specie ha al centro la croce, l’artoforio(tabernacolo) e l’evangelario.
Ma c’è chi ritiene superato tutto questo. Molte chiese nuove permettono ai fedeli di stare molto vicini all’altare. Altri ritengono che tale impostazione non aiuti a concentrare lo sguardo sul mistero e non comunichi lo stesso senso della presenza divina e dell’adorazione ad essa dovuta.
Nel post-concilio ha prevalso la tendenza ad avvicinare l’altare al popolo. In realtà, non è l’altare che si deve avvicinare al popolo, ma il popolo all’altare: il movimento processionale, come dice il salmo, è andare alla presenza del Signore per offrire i santi doni e comunicarsi a lui.
Pertanto, il cosiddetto altare “verso il popolo” deve stare in secondo piano rispetto alla sede e, ove fosse stato conservato, in rapporto all’altare maggiore o monumentale; inoltre, dopo il motu proprio Summorum Pontificum, si deve prevedere anche la celebrazione su di esso della messa in forma straordinaria che appunto è celebrata ad Dominum. Ma, tenendo conto che in molte chiese antiche o precedenti il Vaticano II l’altare monumentale è rimasto e non deve essere rimosso, vi si può sempre celebrare rivolti ad Dominumdall’offertorio alla comunione.
La Congregazione per il culto divino, con Responsum del 25 settembre 2000, respinge l’interpretazione di un articolo dell’ordinamento del messale (OGMR 299) come obbligante ad erigere altari “verso il popolo” dovunque sia possibile. Inoltre, mi sembra che l’espressione ubi possibile sit sia una aggiunta al n. 262 della prima edizione del 1969; l’avverbio ubinell’edizione del 2002 è diventata ubicumque. Tale differenza d’avverbio fa cambiar il senso e la traduzione nelle lingue correnti, oltre che l’interpretazione dell’intero articolo. Quanto alla convinzione di alcuni, che la questione dell’altare “rivolto al popolo” e del suo posto nel santuario sia stata studiata fin dalla fase preconciliare del Vaticano II e confluita in una Declaratio allegata al n. 128 della Costituzione liturgica, non risulta nei testi ufficiali.
La croce
Sull’altare deve troneggiare la croce col «crocifisso ben visibile allo sguardo del popolo radunato» (OGMR 308): vuol dire che collocarlo sull’altare “verso il popolo” dinanzi al sacerdote che celebra ordinariamente così, per la legge della prospettiva, non ne ostacola la visuale ma dà senso all’altare come luogo del sacrificio di Cristo e all’orientamento interiore ad Dominum della preghiera del sacerdote e dei fedeli. Lo sguardo del sacerdote deve cercare ripetutamente il volto di Gesù Cristo, nel crocifisso sull’altare. C’è per essere guardato! I fedeli imparano da questo a fissare, a contemplare. La croce non è un optional decorativo, ma una icona che è parte integrante della dimensione contemplativa della messa. La croce è la scala del paradiso, al di fuori di essa non c’è altra via per salire al cielo. Perché accantonarla e non tenerla al centro, davanti ai nostri occhi, come fanno i santi?
Quella che si trova sull’altare monumentale, nelle chiese ove fosse conservato, vi deve rimanere: non è un doppione. Male non fa. Gli orientali ne hanno più di una: all’esterno, sull’iconostasi, per tutti e all’interno, sull’altare, per il sacerdote. Ai lati si possono disporre ordinariamente sei candelieri (per la messa vanno accese almeno due); servono ad esprimere onore e rispetto per il Signore e di lui sono un eloquente simbolo, perché ha detto: “Io sono la luce del mondo”; tranne nei tempi penitenziali, si possono collocare anche i fiori, segno di festa e gioia per la felicità che a tutti gli uomini deriva dal sacrificio della messa.
CASTELLANO: Non serve che uno stia di spalle, che uno mantiene il pizzo in alto; queste cose già non servivano a nulla…siamo seri…. perchè io so che ci sono ancora alcuni che vanno in giro ad insegnare, anche qui a Monopoli.
Dobbiamo formarci seriamente su queste cose che vi qualificano…anzi ora voi siete già certificati con questi incontri
Io mi arrabbio con quelli che a distanza di 50 anni dal Concilio Vaticano II non si impegnano a cambiare anzi vogliono tornare indietro.
DON NICOLA BUX:
L’orientamento della preghiera
L’orientamento “verso il popolo” che ha favorito la cosiddetta circolarità nella comunità, non è di tradizione cattolica, nemmeno ortodossa, ma protestante; tantomeno può essere ritenuto un modello classico: in quale liturgia occidentale o orientale si trova? Non è un ritorno alle origini. La ritrovata sensibilità per il simbolismo liturgico, dovrebbe indurre committenti e architetti a valorizzare il rivolgersi del sacerdote a oriente, simbolo cosmico del Signore che viene nella liturgia: dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv17,1). Perché guardarsi reciprocamente, se come popolo di Dio siamo tutti in cammino verso il Signore che viene a visitarci dall’alto? E’così che la Chiesa ha espresso la vera forma della messa, dell’eucaristia pignus futurae gloriae (anticipo della gloria futura), perché sulla terra la salvezza è incompleta. Invece, presentare la celebrazione “verso il popolo” come orientamento verso il corpo sacramentale del Signore, significa che l’atteggiamento della preghiera riguarda solo il prete, reintroducendo così la differenza/separazione tra clero e popolo; ciò inoltre è contraddetto dal decentramento del tabernacolo dove il corpo sacramentale è permanentemente presente.
La croce posta sull’altare da papa Benedetto XVI perché sia guardata da celebrante e fedeli, è un rimedio che rimanda all’antico uso della croce nell’abside orientata a est. Non sostengono i liturgisti che la riforma liturgica ha reintrodotto usi antichi? Ora, si è riacceso il dibattito sulla posizione dell’altare e l’orientamento nella preghier
[1] De proditione Iudae, Homilia I,PG 49, col 380, in particolare 389-390.
[2] Summa Theologiae, III pars, q.75,a.7: ed.Salani,1971, vol XXVIII,p 109-112.
[3] Acta Concili Tridentini, Sessione XIII, cap.3:Denzinger, 1640.
[4] De mysteriis,52.54; SCh 25 bis, 188.
[5] Concilio di Firenze, Decretum pro Armenis;DS 1321; Concilio di Trento, Doctrina de ss.Missae Sacrificio; DS 1740-1: che sottolinea : <uti semper catholica Ecclesia intellexit et docuit> (cap 1).
[6] Cfr lo studio classico di M.Gordillo, L’epiclesi eucaristica.Controversie con l’Oriente bizantino-slavo, in A.Piolanti(a cura di),Eucaristia. Il mistero dell’altare nel pensiero e nella vita della Chiesa, Roma 1957.
[7] M.PICCIRILLO, La Palestina Cristiana. I-VII secolo, Dehon., Bologna 2009, p 13.
La croce posta sull’altare da papa Benedetto XVI perché sia guardata da celebrante e fedeli, è un rimedio che rimanda all’antico uso della croce nell’abside orientata a est. Non sostengono i liturgisti che la riforma liturgica ha reintrodotto usi antichi? Ora, si è riacceso il dibattito sulla posizione dell’altare e l’orientamento nella preghiera liturgica, anche perché non si è mai spento. Chi studia la storia e la teologia della liturgia dovrebbe avere l’onestà intellettuale di considerare le critiche fondate che teologi e periti conciliari come Josef Jungmann, Louis Bouyer, Joseph Ratzinger e recentemente Uwe Michael Lang, hanno mosso alla celebrazione “verso il popolo”: Ratzinger scrisse: «È di assoluta importanza poter guardare il sacerdote in viso, o non potrebbe spesso essere benefico riflettere che anche lui è un cristiano e che ha ogni ragione per volgersi verso Dio con tutti gli altri confratelli cristiani della congregazione e recitare con loro il Padre Nostro? ».[1]Ancora: «La ricerca storica ha reso la controversia meno faziosa, e fra i fedeli cresce sempre più la sensazione dei problemi che riguardano una disposizione che difficilmente mostra come la liturgia sia aperta a ciò che sta sopra di noi e al mondo che verrà».[2]
La Sacrosanctum Concilium non parla di celebrazione “verso il popolo”. L’istruzione Inter Oecumenici, preparata dal Consilium per l’applicazione della costituzione sulla sacra liturgia, ed emanata il 26 settembre 1964, si riferisce alla progettazione di nuove chiese e altari quando recita: «Nella chiesa vi sia di norma l’altare fisso e dedicato, costruito ad una certa distanza dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo» (91). Una possibilità dunque per le chiese nuove, non un obbligo o una prescrizione. Sappiamo poi con quanta foga degna di miglior causa siano stati abbattuti gli altari rivolti ad orientem, cioè al Signore Oriens, splendor lucis aeternae, cercando in modo surretizio di spiegare che erano “di spalle al popolo”. Chi ci ha fatto accorgere che erano tali? L’altare è per il Signore e il sacerdote è rivolto all’altare del Signore.
Quindi, il mutamento di orientamento non è stato approvato nell’aula conciliare ma introdotto da istruzioni postconciliari, presentato come possibilità e non obbligatoria. Il cardinale presidente del Consilium, Giacomo Lercaro, scrisse ai presidenti delle conferenze episcopali: «per una liturgia vera e partecipe, non è indispensabile che l’altare sia rivolto “verso il popolo”: nella messa, l’intera liturgia
[1] Trad. da J. RATZINGER, “Der Katholizismus nach dem Konzil”, in Auf dein Wort hin. 81. Deutscher Katholikentag vom 13. Juli bis 17. Juli 1966 in Bamberg, Paderborn 1966, p 253.
[2] Ivi. Sulla “proposta” di J.Ratzinger della croce sull’altare, mi sembra importante la tesi di licenza di Enrique J.Ybanez Vallejo,discussa presso l’università della S.Croce nel 2009.
della parola viene celebrata dal seggio, dall’ambone o dal leggio, quindi rivolti verso l’assemblea; per quanto riguarda la liturgia eucaristica, i sistemi di altoparlanti rendono la partecipazione abbastanza possibile».[1] A parte l’esigenza di tutelare gli altari quali beni artistici e architettonici. Lercaro non era un tradizionalista, eppure la sua osservazione è caduta nel vuoto. Un pensiero non cattolico, per dirla con Paolo VI, vedeva nel mutamento della posizione del sacerdote il simbolo del cosiddetto spirito del concilio e di una presunta nuova ecclesiologia. Di fatto si scatenò un’euforia che portò a distruggere grandi opere d’arte e a sostituirli con tavoli. Dom Prosper Guèranger aveva osservato: «Il protestantesimo ha distrutto la religione abolendo il sacrificio, per esso l’altare non esiste più; non c’è più che una tavola: il suo cristianesimo si è conservato unicamente nel pulpito. La Chiesa cattolica, senza dubbio, si gloria della cattedra di verità, poiché “la fede viene dall’ascolto”(Rm 10,17) ».[2]
Nel messale di Paolo VI, editio typica III del 2002, le rubriche dell’Orate fratres, del Pax Domini, dell’Ecce Agnus Dei e dei riti conclusivi, recitano ancora: « il sacerdote rivolto al popolo…»: vuol dire che in precedenza il celebrante si trova rivolto nella stessa direzione, ovvero verso l’altare; poi, alla comunione del celebrante la rubrica è: « il sacerdote rivolto all’altare…»: a che servirebbe dirlo qui, se egli fosse già dietro l’altare e di fronte al popolo? Dunque, l’altare può essere rivolto solo al Signore, mentre il sacerdote nella messa si rivolge in prevalenza all’altare e, quando è previsto, al popolo. Nella liturgia orientale è il diacono che fa da tramite tra l’altare e il popolo.
Tralasciamo le conferme a tale interpretazione da parte della Congregazione per il culto divino[3] o le sottili disquisizioni in non poche recensioni dell’ordinamento generale del messale, per far dire ai testi ciò che non dicono. La tradizione cristiana
[1] Trad. da G. LERCARO, “L’heureux développement”, in Notitiae 2, 1966, p 160.
[2] P.GUERANGER, Institutions Liturgiques(1840-1851), Extraits établis par Jean Vaquié, DPF, Chiré-en-Montreuil,1977, I/2,Paris 1878,p 247-248.
[3] Cfr CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Responsa ad quaestiones de nova Institutione Generali Missalis Romani, in Communicationes.Bollettino ufficiale del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi 32, 2000, p 171-172.
d’oriente e d’occidente, prevede la direzione comune del sacerdote e dei fedeli nella preghiera liturgica; quella “verso il popolo” è in rottura con essa.
Allora, rivolgersi a Dio o al popolo? Il vero significato del rivolgersi al popolo da parte del sacerdote quando è all’altare, viene dall’essere stato sin dall’inizio della messa rivolto al Signore. A Bari, nella basilica di san Nicola, l’architrave del ciborio porta l’iscrizione latina rivolta al celebrante che sale all’altare: Arx haec par coelis, intra bone serve fidelis, ora devote Deum pro te populoque (Questa rocca è simile al cielo, entra servo buono e fedele, prega devotamente per te e per il popolo). Fa da contrappunto l’invito inciso sul primo dei gradini ancora al celebrante: sis humilis in ascensu, ecc. (sii umile mentre sali…). Al popolo il sacerdote si rivolge per comunicargli qualcosa da parte del Signore: come potrebbe se prima non è stato rivolto ad Dominum? E’ la verità del segno! Oriente docet.
Dunque non si tratta di essere unilaterali e non tener conto delle tesi contrarie, ma di verificare cosa sia essenziale per tenere insieme la tradizione e ri-orientare la preghiera distratta dei più. Rinunceremo a tale importante simbolo affinché sacerdote e assemblea nella preghiera eucaristica siano rivolti al Signore? Chi lo nega, sostiene che la funzione dell’altare verrebbe a perdere la sua visibilità e centralità sia come luogo d’incontro del sacerdote con i fedeli, sia come mensa eucaristica con i segni di pane e vino che richiamano i gesti dell’ultima cena, compiuti oggi dal sacerdote, restando totalmente invisibili. Ma l’altare, è il luogo d’incontro del sacerdote col Signore: solo lui può salirvi per esercitare la funzione sacerdotale; poi, il pane e il vino consacrati sono visibili al momento dell’elevazione, proprio in base al per ritus et preces, con cui viene massimamente presentato il mistero! L’orientamento esterno esprime l’atteggiamento che tutti i fedeli sono chiamati ad assumere nella preghiera eucaristica di fronte al mistero celebrato.
Chi aveva teorizzato la nuova posizione verso il popolo, è stato Martin Lutero che nel suo opuscolo “Messa tedesca e ordinamento del culto divino” del 1526, sosteneva che così ha fatto Cristo nell’ultima cena. Egli aveva davanti agli occhi le rappresentazioni pittoriche dell’ultima cena comuni ai suoi tempi, come l’affresco di Leonardo da Vinci, ma non corrispondono agli usi conviviali del tempo di Gesù, quando i commensali sedevano o giacevano all’emiciclo posteriore del tavolo rotondo o a forma di sigma, e il posto d’onore era al lato destro, come si nota nelle più antiche raffigurazioni. Anche quando, dal XIII secolo, il posto di Gesù è al lato posteriore del tavolo in mezzo agli apostoli, non si può nemmeno parlare di celebrazione “verso il popolo”, perché il popolo nel cenacolo non c’era.
Qual è la posta in gioco dell’orientamento del sacerdote all’altare? Se si pensa che la preghiera o il sacrificio si rivolge e si offre sempre a Dio volgendo lo sguardo a oriente, è in gioco l’idea di messa come adorazione e sacrificio. Seguendo Lutero, molti teologi e liturgisti cattolici negano o attenuano il carattere sacrificale della messa, preferendo quello conviviale. Eppure lo “spezzare il pane” (fractio panis) nel giorno del Signore, primitivo nome della messa, viene espressamente indicato come un sacrificio dalla Didaché (14,2), testo cristiano dei primi secoli; ora, il carattere sacrificale della messa è ben evidenziato dal volgersi tutti insieme col sacerdote “verso oriente” o la croce dall’inizio della preghiera eucaristica, rispondendo che i nostri cuori “sono rivolti al Signore”. Il fatto che la messa sia anche convito, in specie per quanti sono nelle condizioni di accostarsi, stanno a sottolinearlo i riti di comunione.
Non prescrive l’Ordo Romanus I del VII secolo che al Gloria il pontefice stando al trono si rivolga ad est? Oggi, non usano al vangelo i concelebranti rivolgersi verso l’ambone e alla preghiera eucaristica verso l’altare? Sono indizio dell’esigenza che ha la preghiera di orientarsi alla ricerca del volto di Gesù Cristo, che ci parla e ci guarda dalla croce: anche per questo deve essere al centro.
La riforma promossa dal concilio Vaticano II comincia dalla presenza del sacro nei cuori, dal suo recupero nella realtà della liturgia e del suo mistero, che eccede ogni spazio interiore ed esteriore, contemperando le esigenze di stabilità e di rinnovamento; ciò è visibile specialmente da tre cose: la posizione del sacerdote all’altare e, come vedremo, il posto del silenzio sacro e la partecipazione dei fedeli.
CASTELLANO: Cerchiamo di far entrare i fedeli in questo dinamismo della Pasqua.
L’Eucaristia non è stare fermi, lì fermi ad adorare e a contemplare ma è andare con i nostri piedi sulla Croce.
DON NICOLA BUX:
Alla comunione si va accompagnati dall’antifona di comunione. La processione deve essere lenta per permettere l’atto di riverenza personale, inchino o in ginocchio, al corpo del Signore. Inginocchiarsi è a fortiori coerente con l’analogo gesto compiuto alla consacrazione. La tradizione patristica orientale e occidentale invita ad imitare l’atto di adorazione dei magi. Sant’Agostino dice: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non l’adorassimo».[1]Nella messa bizantina, ciascun fedele deve prostrarsi a terra adorando Cristo realmente presente nei sacri misteri.
Nella forma ordinaria, ricevuta la comunione il fedele risponde “Amen”. Il corpo di Cristo è dato a nostra custodia per la vita eterna. Che cosa potremo rendere al Signore per quanto ci ha dato? Mentre viene amministrata la comunione rimaniamo in ginocchio in segno di adorazione; ci possiamo sedere dopo che il Sacramento viene riposto nel tabernacolo. Si obbietta da taluno che non ha senso stare in ginocchio, in quanto il Signore ce l’abbiamo in noi. Ma la verità del segno, non esige di far corrispondere al gesto esteriore di adorazione quella interiore, nel raccoglimento di noi stessi in lui, nel silenzio orante per ringraziarlo del dono dell’unione intima con lui, sostando in intenso colloquio con lui? Giovanni Paolo II, celebrando secondo il Novus Ordo ha dato l’esempio. E’ l’atteggiamento dell’uomo che si prostra davanti a Dio. Significa la fede nella presenza reale di Gesù Cristo nell’eucaristia.
[1] S.AGOSTINO,Enarr.in Ps.98,9; PL 37,1264.
CASTELLANO: Voi andate a ricevere la Comunione ad un Cristo vivo, non morto che sta sulla Croce e sul sepolcro.
DON NICOLA BUX:
Dice Pascal che il Signore è sulla croce fino alla fine del mondo! Tuttavia, la Lettera agli Ebrei spiega che egli è il sommo sacerdote che intercede permanentemente tra Dio e l’umanità, e allo stesso tempo è vittima immolata, come l’Agnello dell’Apocalisse, quindi è contemporaneamente morto – sulla croce – e vivente. Per questo, ogni anno si celebra il Triduo di Cristo morto, sepolto e risorto, e ogni domenica e in ogni messa si fa lo stesso. E’ il mistero pasquale! Egli misticamente muore e risorge ogni volta. Dunque, non comunicherai se prima non lo avrai adorato:
Come ricevere la comunione
- esame di se stessi
Il riconoscimento adorante della presenza del Signore è la prima delle disposizioni per ricevere la comunione; perciò, la preparazione del sacerdote e dei fedeli alla comunione è esigita dalla purezza necessaria anche esteriore per avvicinarsi a lui. I riti di comunione «dispongono immediatamente alla comunione», ma i fedeli ancor prima devono essere « ben disposti» a riceverla (OGMR 80). Cosa vuol dire? Le buone disposizioni scaturiscono dal discernere che il corpo del Signore non è un pane comune ma un pane di vita, che attende quanti si sono riconciliati col Padre. Non accade a noi di non poterci sedere a mensa con familiari e amici con i quali siamo in grave lite, se prima non ci siamo riconciliati? E poi, mangio il cibo buono se io non sto bene? L’eucaristia è un cibo buono, è antidoto dalle colpe quotidiane e dai peccati mortali:[1]se non sto bene, perchè ne ho commessi, non posso cibarmene. Perciò
la consuetudine della Chiesa afferma, inoltre la necessità che ognuno esamini molto a fondo se stesso, affinché chi sia conscio di essere in peccato grave non celebri la messa né comunichi al corpo del Signore senza aver premesso la confessione sacramentale, a meno che non vi sia una ragione grave e manchi l’opportunità di confessarsi; nel qual caso si ricordi che è tenuto a porre un atto di contrizione perfetta, che includa il proposito di confessarsi quanto prima (RS, 81).
Compiuta la riconciliazione con la penitenza, e ritornati in stato di grazia, i riti di comunione costituiscono la preparazione immediata. Bisogna essere in grazia di Dio. Ma la catechesi odierna è lacunosa su questo punto fondamentale della dottrina cattolica! «L’eucaristia presuppone il battesimo nonché, ripetutamente la confessione. Il Santo Padre(Giovanni Paolo II) lo ha messo in grande rilievo nella sua enciclica Redemptor hominis. La prima proposizione della Buona Novella fu: “Convertitevi”; essa suona così: “Il Cristo che ci invita alla mensa eucaristica è sempre il medesimo Cristo che esorta alla penitenza e che ripete il “convertitevi””(IV,20).Dove scompare la confessione,l’eucaristia non si discerne più e viene così distrutta in quanto eucaristia del Signore».[2]
Per chi non lo sapesse, la prima condizione della comunione è la confessione sacramentale, se si ha coscienza di aver peccato gravemente. L’amore tra Cristo e la Chiesa significata dall’eucaristia, non consente, la comunione, – che vuol dire appunto unione – per esempio, a chi è divorziato risposato o concubino convivente, sebbene continui per il battesimo ad appartenere alla Chiesa, a meno che per motivi irreversibili non accettino di vivere come amici, o fratello e sorella. Sarebbe contraddittoria la “comunione” di chi vive la “divisione” (cfr SCa 29). Incombe in particolare ai vescovi e ai sacerdoti ricordare le disposizioni necessarie, secondo il Catechismo, e in quali situazioni personali sia impedito comunicarsi.
Si potrebbe ripristinare al giovedì santo, come si è fatto con la messa crismale per i sacerdoti, la confessione e riconciliazione dei penitenti, decaduta da più di un millennio al fine di rilanciare la confessione di tutti a Pasqua come condizione prima della comunione.
- riverenza e devozione
La necessità della preparazione per ricevere il Signore Gesù nel suo corpo, sangue, anima e divinità, ha un mirabile esempio in san Francesco d’Assisi che, «preso da grande stupore, si comunicava con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri».
Giovanni Crisostomo indica gli effetti della comunione: «Il sangue di Cristo rinnova in noi l’immagine del nostro Re, produce una bellezza indicibile e non permette che sia distrutta la nobiltà delle nostre anime, ma di continuo la irriga e la nutre».[3]E invita ad accostarsi all’altare devotamente e con le dovute disposizioni: «Non lasciate, ve ne supplichiamo, che siamo uccisi dalla vostra irriverenza, ma avvicinatevi a Lui con devozione e purezza, e quando lo vedete posto davanti a voi, dite a voi stessi: “In virtù di questo corpo io non sono più terra e cenere, non sono più prigioniero, ma libero; in virtù di questo io spero nel paradiso, e di riceverne i beni, l’eredità degli angeli, e di conversare con Cristo».[4]L’eucaristia contiene il “segreto” della risurrezione in quanto farmaco di immortalità e antidoto contro la morte(cfr EE 18); tale antidoto è uno dei frutti della comunione; ma bisogna pregare per riceverne altri, soprattutto di portare il suo vangelo nel mondo, in tutti gli ambienti dove viviamo, con la testimonianza delle opere perché gli uomini rendano gloria al Padre.
Da tale contemplazione il Crisostomo osserva: «Ora, se siamo nutriti da uno stesso pane e diventiamo una medesima cosa, perché non mostriamo anche lo stesso amore, così da diventare anche sotto questo aspetto una cosa sola?».[5]Le conseguenze morali della comunione arrivano fino all’accoglienza dei poveri, perché grazie all’aiuto ad essi prestato, i fedeli possono offrire un sacrificio gradito a Dio.
E veniamo al modo di ricevere la comunione. Tutta la tradizione cattolica e ortodossa la riceve con gesto di adorazione e in bocca.
La congregazione per il culto divino il 7 novembre 2000 ha risposto negativamente a chi chiedeva se il messale di Paolo VI interdica al fedele di inginocchiarsi durante una qualsiasi parte della messa, per esempio dopo l’Agnus Dei e dopo aver ricevuto la comunione, ma prescriva di farlo solo alla consacrazione(cfr OGMR 43); come pure a chi ritiene che prescriva che nessuno possa più genuflettere o inchinarsi in segno di riverenza di fronte al santissimo Sacramento immediatamente prima di ricevere la comunione (cfr OGMR 160-162, 244 e altri).
Poi, tale modo di ricevere il Sacramento non è in contrasto con la processione prevista dal Novus Ordo che prescrive un atto di riverenza al Sacramento, cosa che richiede una breve sosta, e anche di restare «lodevolmente» in ginocchio fino alla comunione (cfr OGMR 43).
La commissione liturgica dei vescovi americani giunse nel 2002 ad emanare il divieto di inginocchiarsi per ricevere la comunione dicendo che «non è lecito…La postura regolare per ricevere la santa comunione dovrebbe essere quella di stare in piedi. Inginocchiarsi non è lecito nelle diocesi americane». Arrivarono molte lettere di protesta alla Santa Sede. Anche perché c’erano preti che intimavano ai fedeli di alzarsi, pena il non ricevere la comunione. La congregazione per il culto divino rispose: «La pratica dell’inginocchiarsi per ricevere la comunione ha dalla sua parte una tradizione di secoli e indica un segno di adorazione…Il fatto che il fedele sia in ginocchio non costituisce motivo per negargli la comunione…Il sacerdote che la nega commette un abuso pastorale». Si è giustificato “teologicamente” lo stare in piedi col fatto che significa la “dignità di figli”, che invece verrebbe meno con l’inginocchiarsi: viene da chiedere: chi l’ha perduta col peccato, non deve riacquistarla proprio con la comunione?
Allora, perché proscrivere l’inginocchiarsi? Che diremmo vedendo la prostrazione triplice degli orientali? Se la processione di comunione è un atto ecclesiale, – non è individualistica – quindi include il previsto atto personale di riverenza, altrimenti sarebbe solo esteriorità. E’ tale dicotomia diventata schizofrenia ad aver condizionato negativamente la riforma liturgica, che pertanto va ricondotta nell’alveo della tradizione.
Nasce infatti la domanda: come si faceva in antico la comunione? In piedi o in ginocchio. In mano o nella bocca? Pensiamo a Pietro che si gettò ai piedi del Signore risorto apparso sul lago di Tiberiade esclamando: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore»(Lc 5,8).Ci riterremo migliori di Pietro? Non metteremo quindi tutta l’attenzione nel ricevere l’ostia in bocca?
San Cirillo di Gerusalemme raccomandava:
«Sii vigilante affinché tu non perda niente del corpo del Signore. Se tu lasciassi cadere qualcosa, devi considerarlo come se tu avessi tagliato uno dei membri del tuo proprio corpo. Dimmi, ti prego, se qualcuno ti desse granelli d’oro, tu per caso non li terresti con la massima cautela e diligenza, intento a non perdere niente? Non dovresti tu curare con cautela e vigilanza ancora maggiore, affinché niente e nemmeno una briciola del corpo del Signore possa cadere a terra, perché è di gran lunga più prezioso dell’oro o delle gemme?».[6]Quindi, già anticamente ci si premurava in questo senso, come ricorda Paolo VI: «Consta che i fedeli si credevano in colpa, e giustamente, come ricorda Origene, se, ricevuto il corpo del Signore, pur conservandolo con ogni cautela e venerazione, ne cadesse per negligenza qualche frammento» (MF, 59). Da questa preoccupazione viene la prassi di dar la comunione come gli orientali sulla lingua o in bocca: «Questo modo di distribuire la comunione, tenuta presente nel suo complesso la situazione attuale della Chiesa, si deve senz’altro conservare, non solo perché poggia su di una tradizione plurisecolare, ma specialmente perché esprime e significa il riverente rispetto dei fedeli verso la santa eucaristia. Non ne è per nulla sminuita la dignità della persona dei comunicandi; tutto anzi rientra in quel doveroso clima di preparazione, necessario perché sia più fruttuosa la comunione al corpo del Signore».[7]
Se in oriente a motivo dei canoni severi la comunione divenne rara, in occidente nel sec XII scomparve quella al sangue di Cristo: lo sancì il concilio di Costanza del 1418.Nel messale di Paolo VI, l’amministrazione sotto le due specie ai fedeli è regolata da norme, in buona parte evase.
Dalla grande riverenza verso il Sacramento, viene la precauzione dell’uso del piattino o del purificatoio, come i bizantini,nella distribuzione della comunione: «E’ necessario che si mantenga l’uso del piattino per la comunione dei fedeli, per evitare che la sacra ostia o qualche suo frammento cada» (RS 93; anche OGMR 160). Si potrebbe qui far cenno alla non opportunità di usare un velo disteso, perché non permette di raccogliere i frammenti.
Gesù è realmente presente anche nei frammenti dell’ostia. Infatti «la presenza eucaristica di Cristo ha inizio al momento della consacrazione e continua finché sussistono le specie eucaristiche. Cristo è tutto e integro presente in ciascuna specie e in ciascuna sua parte; perciò la frazione del pane non divide Cristo» (CCC 1377). La liturgia orientale non vede alcuna differenza tra le parti maggiori e quelle minime dell’eucaristia: anche quelle impercettibili alla vista sono egualmente degne di adorazione. D’altronde, non trattiamo analogamente una pur piccola reliquia di santo? Commenta san Tommaso:
Il sacerdote finalmente tiene congiunte le dita, cioè il pollice e l’indice con i quali ha toccato il corpo consacrato di Cristo, dopo la consacrazione, perché, se dei frammenti ci fossero rimasti attaccati, non vadano dispersi. Ciò rientra nel rispetto dovuto al Sacramento.[8]
Che dire allora della comunione sulla mano concessa per indulto e ormai generalizzata? La costituzione liturgica del Vaticano II non fa alcun cenno. Ancora oggi non la fanno gli orientali, l’hanno proscritta, nonostante talune testimonianze antiche che consentivano di prendere il pane eucaristico dalla mano direttamente con la bocca.
Una signora mi diceva: come posso con le mie mani con cui ho toccato poco prima la moneta dell’offerta, prendere il corpo del Signore? Qualcuno obietta: la bocca è più pura delle mani? Certo, dal punto di vista fisico e quindi anche psichico, come dimostra la nostra accortezza nell’accostare ad essa qualsiasi cosa, mentre con le mani tocchiamo di tutto.
Si tratta dunque di un gesto profano ed estraneo alla tradizione della Chiesa. Anche questo ha contribuito al venir meno della fede nella presenza reale di Cristo. Eppure Paolo VI si aspettava «dalla restaurazione della sacra liturgia…copiosi frutti di pietà eucaristica» (MF, 2). Che è successo? Il pensiero protestante o non cattolico è penetrato nella Chiesa: la messa è vista come cena fraterna e assemblea. Che senso ha inginocchiarsi ad una cena?
Infine, è falso sostenere che la Celebrazione eucaristica non sia un atto di adorazione. Il concilio Vaticano II afferma: “la Messa è – come Liturgia della Parola e del Corpo di Nostro Signore – ‘un solo atto di adorazione’ (Sacrosanctum concilium 56)”.
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