“Nel fenomeno del ‘transumano’, l’uomo appare contemporaneamente come l’onnipotente tecnico e il prodotto indifeso. . . Il puro potere e la totale impotenza ora convergono in uno e l’uomo diventa il servitore abietto della propria libertà illimitata, un oggetto passivo del potere attivo: uno schiavo della libertà moderna.”
Un interessante saggio della professoressa Margaret Harper McCarthy, pubblicato su The Public Discourse, propostoci da Riccardo Zenobi nella sua traduzione.
Dio Adamo ed Eva

Questa settimana la Corte Suprema sentirà il caso Harris Funeral Homes. In quel caso, il direttore dell’azienda funebre è accusato di discriminazione “per motivi sessuali”. Specificamente, è accusato di “stereotipi sessuali”, perché ha licenziato un uomo che ha annunciato che avrebbe iniziato a venire al lavoro in abiti femminili.
Dato il normale significato di “stereotipo”, sia nel parlare comune che nell’interpretazione legale del Titolo VII, ci si aspetterebbe che lo stesso dress code sia il colpevole, funzionando come una rigida restrizione dei sessi, come richiedere alle donne di portare orecchini o trucco al lavoro. Ma, in questo caso, il dipendente non ha chiesto il diritto di rompere “stereotipati” abbigliamenti specifici dei sessi. Al contrario, è ansioso di rispettarlo. Ha detto di volersi vestire da donnea perché lui è una donna. La discriminazione ascritta al datore di lavoro, dunque, è dovuta a qualcos’altro, qualcosa finora sconosciuto nella nostra legge. È dovuto al suo agire in “stereotipiche nozioni su come gli organi sessuali e l’identità di genere dovrebbero allinearsi”, come ha definito la Sixth Circuit Court. Per dirla in parole povere, è dovuto al “punto di vista” del datore di lavoro che il suo dipendente che si dichiara donna effettivamente lo sia. È una cosa che toglie il fiato.
Ciò che è in ballo qui è molto più del diritto di un individuo di esprimersi liberamente o della libertà di un datore di lavoro di avere e agire in base a tali “stereotipi”. Poiché ad ognuno nel luogo di lavoro di quel dipendente sarebbe richiesto di accettare che lui è “una donna”, ciò che è in ballo è se o no la loro – e, per estensione, di ogni persona – pre-ideologica, innata conoscenza di ognuno come ragazzo o ragazza, assimilata quasi letteralmente al seno materno, sarà per una questione del tutto pratica e pubblica ufficialmente rigettata come falsa, uno “stereotipo”.
Al contrario, ciò che è in gioco è se l’alternativa sarà o meno ufficialmente vera per tutti gli scopi pubblici e pratici: vale a dire che l’“identità” di ognuno è arbitrariamente e accidentalmente correlata al suo corpo – come un fantasma ad una macchina – anche se i due sono “allineati” nella maggior parte dei casi, come suggerisce il prefisso alla moda “cis”.

Genere e generazione


Cosa è la differenza sessuale se l’idea che qualsiasi “allineamento” necessario tra le nostre “identità” e i nostri corpi è ora uno “stereotipo”? È la cosa trasparente nella radice della parola che “genere” occupa attualmente: generazione. Essere sessuati – ragazzo o ragazza, uomo o donna – è essere nati da una madre e da un padre, e poi essere capaci di generare insieme con il sesso opposto. È abbastanza chiaro come questo ingrediente essenziale della differenza sessuale raccolga tutti i tipi di affermazioni e richieste, prima ancora della nostra scelta. Essere nato non è solo essere limitato a questo tempo, luogo e circostanze. Ancora più radicalmente, è dovere la propria esistenza ad altri. È essere un erede.
Essere sessuati, dunque, è essere sempre già implicati con il sesso opposto, che è indispensabile fintantoché riguarda la generazione (comunque ognuno senta questo e a prescindere se o no un’unione generativa avviene). Infine, essere una potenziale madre o padre è essere aperti ad un futuro che è qualcosa al di fuori del regno del calcolo e del controllo, un futuro che è “generato non creato”. Data la condizione umana, non ci vuole molto per comprendere la tentazione di affrancarci da queste tre relazioni date, specialmente la prima segnata dalla nostra nascita. Siamo così fin dalle (quasi) origini, quando abbiamo immaginato Dio Padre come un tiranno e noi come gli schiavi. Come moderni, abbiamo tentato di rendere tale “tirannia” la più originale parola sulle cose, con il nostro “stato di natura” deliberatamente costruito, dove ognuno appare dal nulla, non segnato dalla “sfortuna” di essere nato, “come Adamo”. Il “gender” è la più recente versione di questo tentativo, al livello del nostro corpo. È il nuovo costrutto escogitato per sotterrare ancora di più “ogni cosa che ci fa nascere”, nascondendo tutte le sue evidenze corporali. È istituito insieme al “sesso” per suggerire qualcos’altro, un’alternativa.

Genere come scelta


Nonostante tutto il discorrere di persone “born that way” (nati in questo modo, ndr), il costrutto di genere significa liberarci precisamente da come siamo nati. È particolarmente evidente nella più prominente rappresentante della teoria gender, Judith Butler, che palesemente rigetta il bisogno di qualsiasi giustificazione per essere una variante del proprio sesso corporeo. Per Butler, “genere” non è qualcosa che osserviamo in noi stessi, sia nel nostro corpo o nei nostri “sentimenti radicati”. È qualcosa che facciamo a noi stessi. È un atto infondato “performato” su noi stessi, una sorta di auto-creazione ex nihilo. In effetti, è da notare che nonostante i diversi riferimenti “naturalistici” al radicamento profondo durante tutta la vita delle sensazioni del convenuto nel caso Harris Homes, non sono usati nella decisone del Sixth Circuit in suo favore. Al contrario, solo la più volontaristica definizione di “genere” è utilizzata: qualcosa “fluido, variabile, e difficile da definire…[avente]…una genesi profondamente personale, interna, che latita di un referente esterno”. Cosa alla fine importa se qualcosa ha una “profondamente radicata sensazione”? Perché non può essere solo una scelta? È abbastanza che il dipendente abbia dichiarato sé stesso una donna per essere una donna ed essere trattato come tale. “Genere” ha effettivamente vaporizzato il “fissato referente esterno”, tutte le evidenze della nostra nascita.
Benedetto XVI ha assommato questo punto finale della nuova filosofia del sesso, dicendo:
 Maschio e femmina come realtà della creazione, come natura della persona umana non esistono più. L’uomo contesta la propria natura. Egli è ormai solo spirito e volontà. La manipolazione della natura, che oggi deploriamo per quanto riguarda l’ambiente, diventa qui la scelta di fondo dell’uomo nei confronti di se stesso. Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per sé autonomamente qualcosa come sua natura.

Annichilire il mondo visibile


Non c’è dubbio sugli obiettivi nichilisti della nuova filosofia del sesso. Tali obiettivi erano già dichiarati all’inizio della rivoluzione sessuale. Questa venne concepita dal suo fondatore, Wilhelm Reich, per essere la più comprensiva della rivoluzioni, perché si ribella contro il principio di realtà in sé, rigettando la “finalistica” nozione di atti sessuali. Ma ora, in aggiunta all’oscuramento dell’oggettiva realtà degli atti sessuali, il “gender” vorrebbe vietarci di vedere cosa siamo – un uomo o una donna – o, in effetti, che siamo qualsiasi cosa. Portando i “vestiti nuovi” del famoso Imperatore in una nuova direzione, l’abito del “gender” vorrebbe rendere invisibili tutte le nude evidenze. Ecco la novità dell’antico tentativo di affrancarci dalle relazioni date nelle quali la differenza sessuale ci annoda. E’, come Hanna Arendt disse, “il licenziamento consapevole [del visibile]”. David Bentley Hart suggerisce una avvincente ragione per questo. Se la modernità è in larga parte post-cristiana, non può semplicemente tornare indietro al paganesimo e alle sue abitudini. Deve andare più indietro. Dato che il Dio cristiano è Colui che Creò tutte le cose, deve tornare indietro tutto, visibile ed invisibile, al solo “altro dio” rimasto: “il Nulla” della soggettività spontanea. Il “gender” è precisamente questo: il tentativo di liberare la volontà da qualsiasi precedente ordine naturale. Ciò non potrebbe essere più chiaramente dichiarato da Butler quando canalizza Nietzsche, dicendo: “non c’è ‘essere’ dietro il fare, l’effettuare, il diventare…l’atto è tutto”. Ma è stato anche in maniera agghiacciante affermato due decenni prima quando la femminista Shulamith Firestone aveva chiesto l’eventuale eliminazione della distinzione sessuale stessa. Non si può, certo, solo volere che la distinzione sessuale sparisca. Ma si può provare a renderla conforme alla nuova volontà “spontanea”. In effetti, se la tentazione di tagliarci fuori da tutto ciò che ci ha fatti nascere prende la sua ispirazione dai movimenti liberazionisti radicali, dipende dalla manipolazione tecnologica della biologia umana per una qualunque speranza di successo. Avremmo potuto immaginare l’eliminazione della distinzione sessuale se non fosse stato per gli interventi pioneristici di John Money nella sua clinica di “riassegnazione sessuale” al John Hopkins? Avremmo potuto immaginare un regime transgender se non fosse stato per la promessa di ulteriori manipolazioni nel campo della biologia riproduttiva? Che Firestone guardasse ad un giorno in cui “i bambini sarebbero nati da entrambi i sessi ugualmente, o indipendentemente da entrambi”, suggerisce altrimenti. È per via della nuova manipolazione della biologia che possiamo pensare addirittura ad una emancipazione dai precedente limiti naturali che abbiamo con i nostri stessi corpi, con i nostri genitori, e con i nostri figli, per stabilire, al loro posto, limiti “intenzionali” arbitrari.
Dato l’assunto che il costrutto di genere esiste in vista della libertà, è sorprendente quanto sia sovversivo il progetto. C’è, certamente, l’ovvia mutilazione dei corpi – chirurgica o quant’altro – che l’operazione di “cambiare sesso” comporta. Forse più importante, comunque, è la mutilazione del soggetto stesso. Judith Butler è in prima linea su questo. Per lei, è precisamente compito del “genere” mantenere “il soggetto” (una parola che mette tra virgolette!) in uno stato di “non identità amorfa” costante al fine di sfuggire alla trappola delle “relazioni di potere”.
I liberal – come Martha Nussbaum, che si oppone alla negazione di Butler della soggettività –sostengono molte delle stesse cause. Anche se lo fanno su basi molto differenti: l’autodeterminazione degli individui autonomi, slegati prima di scegliere. Ma, anche qui, per quanto questi soggetti robusti traccino i propri percorsi, facciano le proprie scelte e scelgano i propri legami, devono astrarsi dall’ordine reale in cui erano sempre già incorporati. Per essere “liberi”, cioè, devono resistere alla loro stessa (data) natura. Devono opporsi a  stessi. Questo non potrebbe essere più evidente che nei tentativi che stiamo facendo ora per annullarci “transitando” in qualcosa di diverso da quello che siamo – un altro genere, persino un’altra specie.

Il paradosso della libertà


David C. Schindler espone chiaramente questo tragico paradosso della moderna libertà incorporea in Freedom From Reality:
Nel fenomeno del “transumano”, l’uomo appare contemporaneamente come l’onnipotente tecnico e il prodotto indifeso. . . Il puro potere e la totale impotenza ora convergono in uno e l’uomo diventa il servitore abietto della propria libertà illimitata, un oggetto passivo del potere attivo: uno schiavo della libertà moderna.
È sorprendente quanto interesse abbiano avuto nel ventesimo secolo le forme di riproduzione asessuate ed ermafrodite per gli esseri umani. Simone de Beauvoir, che ha seminato i semi iniziali della distinzione “sesso-genere”, e John Money, che per primo ha usato formalmente questa distinzione, erano entrambi affascinati da questa possibilità. È difficile non notare ancora una volta il tragico paradosso. Per essere “liberi” e “sicuri” l’uno dall’altro, sceglieremmo la forma di riproduzione in cui vi è il minor grado di individualità (come ad esempio batteri, protozoi, vermi, lumache). Vengono alla mente le “stanze fertilizzanti” di Brave New World, in cui decine di individui identici vengono prodotti attraverso lo sviluppo di un ovulo fecondato. Vengono in mente anche i “condizionatori” di The Abolition of Man che “ritagliano i loro posteri in qualunque forma piaccia”.
Osservando il destino ironico del progetto gender moderno e postmoderno, che ci dice di sacrificare il nostro sé reale per essere “liberi”, san Giovanni Paolo II ha definito il “sesso sicuro” “estremamente pericoloso”. “È la perdita della verità”, ha detto, “sul proprio io e sulla famiglia, insieme al rischio di una perdita di libertà e di conseguenza di una perdita di amore stesso”.
C’è un altro modo per essere liberi? Se questo ha qualcosa a che fare con la nuda realtà di carne e sangue, speriamo che la Corte Suprema non agisca pericolosamente e non ne tenga conto come di uno “stereotipo”.


Margaret Harper McCarthy è professore assistente di Antropologia teologica presso l’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia dell’Università Cattolica d’America e direttore della rivista Humanum. (leggi di più)