Sodoma "sovranista". Omoeresia e immigrazionismo riscrivono la Bibbia
Il volume della Pontifcia Accademia Biblica Che cosa è l’uomo? riserva una decina di pagine all'omosessualità, dalle quali traspare la narrazione che il peccato contro natura sia da derubricare. Vi si dice che la Bibbia non parla di inclinazione erotica "omo", ma è falso, basta leggere San Paolo. E soprattutto sostiene che Sodoma sarebbe stata distrutta non per gli atti omosessuali degli abitanti, ma per la loro mancanza di ospitalità. L’ossessione immigrazionista diventa criterio esegetico del testo sacro. Ma è una tesi da respingere. Anzitutto iniziando a leggere la Sacra Scrittura e non a interpretarla politicamente.
La distruzione di Sodoma
Una corposa e sistematica revisione della dottrina cattolica sull'omosessualità partendo da una lettura per lo meno parziale della Scrittura. E' quanto emerge dalla sezione dedicata ai rapporti tra persone dello stesso sesso contenuta nel libro Che cosa è l’uomo? redatto dalla Pontificia Accademia Biblica (PAB). Come già scritto il testo viene presentato (vedi qui) come una «lettura antropologica sistematica della Bibbia», commissionata «dal Papa in persona».
Indagheremo qui la sezione dedicata all’omosessualità che occupa circa lo spazio di dieci pagine.
Evidenziamo innanzitutto il seguente passaggio: «Va subito rilevato che la Bibbia non parla di inclinazione erotica verso una persona dello stesso sesso, ma solo degli atti omosessuali» (n. 185). Sul piano scritturistico si potrebbe però citare San Paolo: «Né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio» (1 Cor 6, 10). Questa citazione si offre a due riflessioni.
La prima: per sodomiti Paolo potrebbe intendere sia coloro che compiono atti di sodomia, sia coloro vivono una condizione di omosessualità. Non si può escludere quindi che il testo si riferisca anche all’inclinazione omosessuale.
Seconda riflessione: i termini “effeminati” e “sodomiti” potrebbero sembrare una ripetizione per rafforzare il concetto che coloro che praticano atti omosessuali non «erediteranno il regno di Dio». Ma tale interpretazione difficilmente potrebbe essere accolta, dato che le altre categorie di persone elencate sono assai dissimili tra loro e non c’è traccia di ripetizioni. Dunque Paolo quando usa il termine “effeminati” e “sodomiti” si sta riferendo a due categorie morali differenti: gli effeminati potrebbero essere i transessuali oppure coloro che si comportano da “femmina”, ossia coloro che hanno un orientamento omosessuale (nulla vieta che nel medesimo termine confluiscano entrambi i significati); i sodomiti sono invece coloro che compiono atti omosessuali e, tra questi, anche coloro che non hanno una inclinazione omosessuale (assumono condotte omosessuali ad esempio per vizio). Da qui però un doveroso distinguo. La condizione omosessuale, come quella transessuale (entrambe sempre moralmente disordinate), può essere un habitus che la persona si trova a vivere senza sua colpa oppure può essere l’effetto di atti peccaminosi, ad esempio aver continuato nel tempo ad assumere condotte omosessuali, un effetto verso cui la persona sarà chiamata da Dio a rispondere. San Paolo, se la nostra esegesi fosse corretta, quando parla di effeminati, si riferirebbe a questa seconda ipotesi (sempre che non parli solo di transessuali): l’omosessualità quindi, in questi casi, rivelerebbe a monte scelte che non permettono di entrare nel regno dei Cieli.
Altra prova che anche l’omosessualità può essere condizione colpevole è data da quest’altro passo paolino: «Si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s'addiceva al loro traviamento» (Rm 1, 27). Passo in cui gli atti ignominiosi sono distinti concettualmente dalle passioni e dal traviamento che nel testo paiono potersi qualificare come condizioni meritevoli di punizione.
Torniamo al volume Che cosa è l’uomo?. Al n. 185 e al n. 195 si afferma che la condanna degli atti omosessuali compare poche volte nella Bibbia, quasi a dire che in fondo per Dio i peccati di omosessualità siano questioni bagatellari. Limitatamente a questo aspetto di carattere quantitativo, ad essere coerenti con tale criterio dovremmo concludere che anche il comando di amare il prossimo tuo sia di poco conto, dato che, come riportano i sinottici, Gesù ha espresso questo comando una volta sola. Anche nel nostro codice penale all’omicidio è dedicato un solo articolo. Ma quello basta e avanza. Così è sufficiente una sola parola di Dio per vietare una certa condotta per concludere che è per l’appunto vietata. Il criterio della qualità vince su quello della quantità. Inoltre c’è da aggiungere che il divieto di peccati più generali includono spesso quelli più specifici. E così il sesto comandamento include anche gli atti omosessuali.
Nel n. 186 si ammette che uno dei peccati commessi a Sodoma era legato all’omosessualità. Ma il castigo di Dio pare scagliarsi contro gli abitanti di questa cittadina non perché rei anche di condotte omosessuali, ma perché poco accoglienti verso lo straniero. L’ossessione immigrazionista diventa criterio esegetico del testo sacro. Infatti nel racconto biblico si narra che due stranieri, in realtà due angeli, vengono in città e rischiano di essere brutalizzati. Secondo la PAB in Genesi 19, 1-29 non si condanno gli atti omosessuali in quanto tali, «viene piuttosto denunciata la condotta di un’entità sociale e politica che non vuole accogliere con rispetto lo straniero, e pretende perciò di umiliarlo, costringendolo con la forza a subire un infamante trattamento di sottomissione». Stesso concetto ribadito nel n. 188: «In conclusione, dobbiamo dunque dire che il racconto riguardante la città di Sodoma (così come quello di Gabaa) illustra un peccato che consiste nella mancanza di ospitalità, con ostilità e violenza nei confronti del forestiero, comportamento giudicato gravissimo e meritevole perciò di essere sanzionato con la massima severità, perché il rifiuto del diverso, dello straniero bisognoso e indifeso, è principio di disgregazione sociale, avendo in se stesso una violenza mortifera che merita una pena adeguata». Un caso di porti chiusi ante litteram che merita la pena di morte.
Dunque, a leggere quanto scritto dalla PAB, pare concludersi che, innanzitutto, se lo straniero fosse stato consenziente, nulla quaestio sull’omosessualità. In secondo luogo l’omosessualità da condannare è quella che appalesa non una disordinata inclinazione sessuale, bensì un desiderio di prevaricazione, di non inclusività. C’è invece da sottolineare che, in prima battuta appare curioso che, anche se fosse stata questa l’intenzione degli assalitori, dare cioè una bella lezione agli stranieri, costoro avessero scelto la sodomia come modalità per aggredire gli stranieri e non cazzotti e bastoni. Forse perché gli assalitori erano già avvezzi per conto loro a queste pratiche?
Inoltre, qualora i violentatori fossero stati animati realmente da tali intenzioni (ma il testo in sé rimane oscuro sulle reali motivazioni che muovevano alla sodomia), la corretta ricostruzione sotto il profilo morale dell’accaduto che ci si aspettava dalla PAB sarebbe dovuta essere la seguente: al disordine oggettivo dell’atto omosessuale si sarebbe sommato il fine malvagio di non accogliere lo straniero o, più correttamente, l’atto materiale disordinato omosessuale sarebbe stato informato da un fine illecito che nulla aveva a che fare con l’aspetto erotico, ma che riguardava l’odio verso il forestiero.
Detto tutto ciò, centriamo il punto essenziale della esegesi biblica offerta dalla Pontificia Accademia sul caso Sodoma: per la PAB Sodoma è stata rasa al suolo solo per motivi xenofobi. Ma la presunta intenzione xenofoba di coloro che volevano sodomizzare i due stranieri non è assolutamente attribuibile agli altri abitanti di Sodoma che infatti avevano rapporti omosessuali tra loro e non con i forestieri.
Per la PAB invece non è così perché il peccato di Sodoma è solo il peccato di quei pochi "sovranisti" che volevano abusare dei due stranieri. Infatti la PAB si spinge a dire che «il racconto tuttavia non intende presentare l’immagine di una intera città dominata da brame incontenibili di natura omosessuale» (n. 187). Vero, se ci riferiamo unicamente al brano di Genesi 19, 1-19, falso se andiamo a leggere il capitolo precedente in cui scopriamo che a Sodoma non esistevano nemmeno dieci giusti, perché se fossero esistiti, come è noto, Dio non avrebbe raso al suolo la cittadina (Gn 18, 32). E la decisione di Dio di distruggere la città avviene prima che alcuni tentassero di sodomizzare gli stranieri, dunque l’ostilità verso lo straniero non era il motivo principale della punizione divina. Perciò la città era sì dominata da brame incontenibili di natura omosessuale. Il fatto poi che una intera città era dedita al vizio omosessuale è testimoniato altresì da questo brano del Nuovo Testamento: «Così Sòdoma e Gomorra e le città vicine, che si sono abbandonate all'impudicizia allo stesso modo e sono andate dietro a vizi contro natura, stanno come esempio subendo le pene di un fuoco eterno» (Gd, 7). Perciò, contrariamente a quanto espresso nel volume della PAB, la condanna divina riguarda anche e soprattutto l’omosessualità intesa come disordine dell’orientamento sessuale e si riferisce ad una intera collettività.
E nonostante Dio abbia sterminato l’intera popolazione di Sodoma e Gomorra la PAB riesce a dire che «non troviamo nella tradizioni narrative della Bibbia indicazioni concernenti pratiche omosessuali, né come comportamenti da biasimare, né come atteggiamenti tollerati o accolti con favore» (n. 188). Dunque secondo la PAB, dato che gli atti omosessuali condannati nella Bibbia sono riprovati solo quando manifestano atteggiamenti persecutori nei confronti del diverso, le rimanenti condotte omosessuali assunte non per motivi xenofobi sono moralmente neutre agli occhi Dio, né da condannare, né da tollerare, né da approvare.
Poi la PAB, forse furbescamente, intuisce che è bene dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte e quindi cita il capitolo 18 del Levitico in cui si condanna chiaramente l’omosessualità in quanto pratica erotica, avulsa da fini politici (n. 189). Parimenti non cerca virtuosismi acrobatici per far dire a San Paolo, che condanna l’omosessualità in modo chiaro in Rm 1, 26-27, in 1 Cor 6, 9 e in 1 Tm 1, 10, ciò che non vuole dire. Però, altro colpo al cerchio, contestualizza le parole di San Paolo e quelle degli autori del Vecchio Testamento e quindi le depotenzia, anzi le squalifica facendole perdere di valore: «Certe formulazioni degli autori biblici, come anche le direttive disciplinari del Levitico, richiedono una intelligente interpretazione che salvaguardi i valori che il testo sacro intende promuovere, evitando quindi di ripetere alla lettera ciò che porta con sé anche tratti culturali di quel tempo» (n. 195). Tradotto: il divieto letterale delle pratiche omosessuali significa prendere troppo alla lettera il testo biblico. Inoltre la condanna dell’omosessualità presente nella Bibbia risente dei condizionamenti dell’epoca e perciò è un parere personalissimo di Paolo e degli altri autori biblici, ma non riflette il pensiero di Dio. E come facciamo a scoprire allora il pensiero di Dio? Occorre rivolgersi non di certo alla Sacra Scrittura, bensì alle scienze umane: «Il contributo fornito dalle scienze umane, assieme alla riflessione di teologi e moralisti, sarà indispensabile per una adeguata esposizione della problematica». (n. 195).
In breve il fine della PAB relativamente al tema dell’omosessualità e delle condotte omosessuali pare essere quello né di condannare, né di benedire, ma di posizionarsi in una zona di giudizio colpevolmente neutra.
Tommaso Scandroglio
https://lanuovabq.it/it/sodoma-sovranista-omoeresia-e-immigrazionismo-riscrivono-la-bibbia
La satira del giorno - Vauro e Babbo Natale
Giovanni Zola Sab, 21/12/2019 - 09:22 Fonte:IlGiornale.it
http://www.ilgiornale.it/gallery/satira-giorno-vauro-e-babbo-natale-1802342.html
“Nel fenomeno del ‘transumano’, l’uomo appare contemporaneamente come l’onnipotente tecnico e il prodotto indifeso. . . Il puro potere e la totale impotenza ora convergono in uno e l’uomo diventa il servitore abietto della propria libertà illimitata, un oggetto passivo del potere attivo: uno schiavo della libertà moderna.”
Un interessante saggio della professoressa Margaret Harper McCarthy, pubblicato su The Public Discourse, propostoci da Riccardo Zenobi nella sua traduzione.
Questa settimana la Corte Suprema sentirà il caso Harris Funeral Homes. In quel caso, il direttore dell’azienda funebre è accusato di discriminazione “per motivi sessuali”. Specificamente, è accusato di “stereotipi sessuali”, perché ha licenziato un uomo che ha annunciato che avrebbe iniziato a venire al lavoro in abiti femminili.
Dato il normale significato di “stereotipo”, sia nel parlare comune che nell’interpretazione legale del Titolo VII, ci si aspetterebbe che lo stesso dress code sia il colpevole, funzionando come una rigida restrizione dei sessi, come richiedere alle donne di portare orecchini o trucco al lavoro. Ma, in questo caso, il dipendente non ha chiesto il diritto di rompere “stereotipati” abbigliamenti specifici dei sessi. Al contrario, è ansioso di rispettarlo. Ha detto di volersi vestire da donnea perché lui è una donna. La discriminazione ascritta al datore di lavoro, dunque, è dovuta a qualcos’altro, qualcosa finora sconosciuto nella nostra legge. È dovuto al suo agire in “stereotipiche nozioni su come gli organi sessuali e l’identità di genere dovrebbero allinearsi”, come ha definito la Sixth Circuit Court. Per dirla in parole povere, è dovuto al “punto di vista” del datore di lavoro che il suo dipendente che si dichiara donna effettivamente lo sia. È una cosa che toglie il fiato.
Ciò che è in ballo qui è molto più del diritto di un individuo di esprimersi liberamente o della libertà di un datore di lavoro di avere e agire in base a tali “stereotipi”. Poiché ad ognuno nel luogo di lavoro di quel dipendente sarebbe richiesto di accettare che lui è “una donna”, ciò che è in ballo è se o no la loro – e, per estensione, di ogni persona – pre-ideologica, innata conoscenza di ognuno come ragazzo o ragazza, assimilata quasi letteralmente al seno materno, sarà per una questione del tutto pratica e pubblica ufficialmente rigettata come falsa, uno “stereotipo”.
Al contrario, ciò che è in gioco è se l’alternativa sarà o meno ufficialmente vera per tutti gli scopi pubblici e pratici: vale a dire che l’“identità” di ognuno è arbitrariamente e accidentalmente correlata al suo corpo – come un fantasma ad una macchina – anche se i due sono “allineati” nella maggior parte dei casi, come suggerisce il prefisso alla moda “cis”.
Genere e generazione
Cosa è la differenza sessuale se l’idea che qualsiasi “allineamento” necessario tra le nostre “identità” e i nostri corpi è ora uno “stereotipo”? È la cosa trasparente nella radice della parola che “genere” occupa attualmente: generazione. Essere sessuati – ragazzo o ragazza, uomo o donna – è essere nati da una madre e da un padre, e poi essere capaci di generare insieme con il sesso opposto. È abbastanza chiaro come questo ingrediente essenziale della differenza sessuale raccolga tutti i tipi di affermazioni e richieste, prima ancora della nostra scelta. Essere nato non è solo essere limitato a questo tempo, luogo e circostanze. Ancora più radicalmente, è dovere la propria esistenza ad altri. È essere un erede.
Essere sessuati, dunque, è essere sempre già implicati con il sesso opposto, che è indispensabile fintantoché riguarda la generazione (comunque ognuno senta questo e a prescindere se o no un’unione generativa avviene). Infine, essere una potenziale madre o padre è essere aperti ad un futuro che è qualcosa al di fuori del regno del calcolo e del controllo, un futuro che è “generato non creato”. Data la condizione umana, non ci vuole molto per comprendere la tentazione di affrancarci da queste tre relazioni date, specialmente la prima segnata dalla nostra nascita. Siamo così fin dalle (quasi) origini, quando abbiamo immaginato Dio Padre come un tiranno e noi come gli schiavi. Come moderni, abbiamo tentato di rendere tale “tirannia” la più originale parola sulle cose, con il nostro “stato di natura” deliberatamente costruito, dove ognuno appare dal nulla, non segnato dalla “sfortuna” di essere nato, “come Adamo”. Il “gender” è la più recente versione di questo tentativo, al livello del nostro corpo. È il nuovo costrutto escogitato per sotterrare ancora di più “ogni cosa che ci fa nascere”, nascondendo tutte le sue evidenze corporali. È istituito insieme al “sesso” per suggerire qualcos’altro, un’alternativa.
Genere come scelta
Nonostante tutto il discorrere di persone “born that way” (nati in questo modo, ndr), il costrutto di genere significa liberarci precisamente da come siamo nati. È particolarmente evidente nella più prominente rappresentante della teoria gender, Judith Butler, che palesemente rigetta il bisogno di qualsiasi giustificazione per essere una variante del proprio sesso corporeo. Per Butler, “genere” non è qualcosa che osserviamo in noi stessi, sia nel nostro corpo o nei nostri “sentimenti radicati”. È qualcosa che facciamo a noi stessi. È un atto infondato “performato” su noi stessi, una sorta di auto-creazione ex nihilo. In effetti, è da notare che nonostante i diversi riferimenti “naturalistici” al radicamento profondo durante tutta la vita delle sensazioni del convenuto nel caso Harris Homes, non sono usati nella decisone del Sixth Circuit in suo favore. Al contrario, solo la più volontaristica definizione di “genere” è utilizzata: qualcosa “fluido, variabile, e difficile da definire…[avente]…una genesi profondamente personale, interna, che latita di un referente esterno”. Cosa alla fine importa se qualcosa ha una “profondamente radicata sensazione”? Perché non può essere solo una scelta? È abbastanza che il dipendente abbia dichiarato sé stesso una donna per essere una donna ed essere trattato come tale. “Genere” ha effettivamente vaporizzato il “fissato referente esterno”, tutte le evidenze della nostra nascita.
Benedetto XVI ha assommato questo punto finale della nuova filosofia del sesso, dicendo:
Maschio e femmina come realtà della creazione, come natura della persona umana non esistono più. L’uomo contesta la propria natura. Egli è ormai solo spirito e volontà. La manipolazione della natura, che oggi deploriamo per quanto riguarda l’ambiente, diventa qui la scelta di fondo dell’uomo nei confronti di se stesso. Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per sé autonomamente qualcosa come sua natura.
Annichilire il mondo visibile
Non c’è dubbio sugli obiettivi nichilisti della nuova filosofia del sesso. Tali obiettivi erano già dichiarati all’inizio della rivoluzione sessuale. Questa venne concepita dal suo fondatore, Wilhelm Reich, per essere la più comprensiva della rivoluzioni, perché si ribella contro il principio di realtà in sé, rigettando la “finalistica” nozione di atti sessuali. Ma ora, in aggiunta all’oscuramento dell’oggettiva realtà degli atti sessuali, il “gender” vorrebbe vietarci di vedere cosa siamo – un uomo o una donna – o, in effetti, che siamo qualsiasi cosa. Portando i “vestiti nuovi” del famoso Imperatore in una nuova direzione, l’abito del “gender” vorrebbe rendere invisibili tutte le nude evidenze. Ecco la novità dell’antico tentativo di affrancarci dalle relazioni date nelle quali la differenza sessuale ci annoda. E’, come Hanna Arendt disse, “il licenziamento consapevole [del visibile]”. David Bentley Hart suggerisce una avvincente ragione per questo. Se la modernità è in larga parte post-cristiana, non può semplicemente tornare indietro al paganesimo e alle sue abitudini. Deve andare più indietro. Dato che il Dio cristiano è Colui che Creò tutte le cose, deve tornare indietro tutto, visibile ed invisibile, al solo “altro dio” rimasto: “il Nulla” della soggettività spontanea. Il “gender” è precisamente questo: il tentativo di liberare la volontà da qualsiasi precedente ordine naturale. Ciò non potrebbe essere più chiaramente dichiarato da Butler quando canalizza Nietzsche, dicendo: “non c’è ‘essere’ dietro il fare, l’effettuare, il diventare…l’atto è tutto”. Ma è stato anche in maniera agghiacciante affermato due decenni prima quando la femminista Shulamith Firestone aveva chiesto l’eventuale eliminazione della distinzione sessuale stessa. Non si può, certo, solo volere che la distinzione sessuale sparisca. Ma si può provare a renderla conforme alla nuova volontà “spontanea”. In effetti, se la tentazione di tagliarci fuori da tutto ciò che ci ha fatti nascere prende la sua ispirazione dai movimenti liberazionisti radicali, dipende dalla manipolazione tecnologica della biologia umana per una qualunque speranza di successo. Avremmo potuto immaginare l’eliminazione della distinzione sessuale se non fosse stato per gli interventi pioneristici di John Money nella sua clinica di “riassegnazione sessuale” al John Hopkins? Avremmo potuto immaginare un regime transgender se non fosse stato per la promessa di ulteriori manipolazioni nel campo della biologia riproduttiva? Che Firestone guardasse ad un giorno in cui “i bambini sarebbero nati da entrambi i sessi ugualmente, o indipendentemente da entrambi”, suggerisce altrimenti. È per via della nuova manipolazione della biologia che possiamo pensare addirittura ad una emancipazione dai precedente limiti naturali che abbiamo con i nostri stessi corpi, con i nostri genitori, e con i nostri figli, per stabilire, al loro posto, limiti “intenzionali” arbitrari.
Dato l’assunto che il costrutto di genere esiste in vista della libertà, è sorprendente quanto sia sovversivo il progetto. C’è, certamente, l’ovvia mutilazione dei corpi – chirurgica o quant’altro – che l’operazione di “cambiare sesso” comporta. Forse più importante, comunque, è la mutilazione del soggetto stesso. Judith Butler è in prima linea su questo. Per lei, è precisamente compito del “genere” mantenere “il soggetto” (una parola che mette tra virgolette!) in uno stato di “non identità amorfa” costante al fine di sfuggire alla trappola delle “relazioni di potere”.
I liberal – come Martha Nussbaum, che si oppone alla negazione di Butler della soggettività –sostengono molte delle stesse cause. Anche se lo fanno su basi molto differenti: l’autodeterminazione degli individui autonomi, slegati prima di scegliere. Ma, anche qui, per quanto questi soggetti robusti traccino i propri percorsi, facciano le proprie scelte e scelgano i propri legami, devono astrarsi dall’ordine reale in cui erano sempre già incorporati. Per essere “liberi”, cioè, devono resistere alla loro stessa (data) natura. Devono opporsi a sé stessi. Questo non potrebbe essere più evidente che nei tentativi che stiamo facendo ora per annullarci “transitando” in qualcosa di diverso da quello che siamo – un altro genere, persino un’altra specie.
Il paradosso della libertà
David C. Schindler espone chiaramente questo tragico paradosso della moderna libertà incorporea in Freedom From Reality:
Nel fenomeno del “transumano”, l’uomo appare contemporaneamente come l’onnipotente tecnico e il prodotto indifeso. . . Il puro potere e la totale impotenza ora convergono in uno e l’uomo diventa il servitore abietto della propria libertà illimitata, un oggetto passivo del potere attivo: uno schiavo della libertà moderna.
È sorprendente quanto interesse abbiano avuto nel ventesimo secolo le forme di riproduzione asessuate ed ermafrodite per gli esseri umani. Simone de Beauvoir, che ha seminato i semi iniziali della distinzione “sesso-genere”, e John Money, che per primo ha usato formalmente questa distinzione, erano entrambi affascinati da questa possibilità. È difficile non notare ancora una volta il tragico paradosso. Per essere “liberi” e “sicuri” l’uno dall’altro, sceglieremmo la forma di riproduzione in cui vi è il minor grado di individualità (come ad esempio batteri, protozoi, vermi, lumache). Vengono alla mente le “stanze fertilizzanti” di Brave New World, in cui decine di individui identici vengono prodotti attraverso lo sviluppo di un ovulo fecondato. Vengono in mente anche i “condizionatori” di The Abolition of Man che “ritagliano i loro posteri in qualunque forma piaccia”.
Osservando il destino ironico del progetto gender moderno e postmoderno, che ci dice di sacrificare il nostro sé reale per essere “liberi”, san Giovanni Paolo II ha definito il “sesso sicuro” “estremamente pericoloso”. “È la perdita della verità”, ha detto, “sul proprio io e sulla famiglia, insieme al rischio di una perdita di libertà e di conseguenza di una perdita di amore stesso”.
C’è un altro modo per essere liberi? Se questo ha qualcosa a che fare con la nuda realtà di carne e sangue, speriamo che la Corte Suprema non agisca pericolosamente e non ne tenga conto come di uno “stereotipo”.
Margaret Harper McCarthy è professore assistente di Antropologia teologica presso l’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia dell’Università Cattolica d’America e direttore della rivista Humanum. (leggi di più)
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