Ieri Annarosa Rossetto nel suo articolo ha espresso grandi dubbi sulle affermazioni che mons. Paglia ha fatto sulla presenza di un sacerdote durante un suicidio assistito. Oggi rilancio un articolo di C.C. Pecknold, pubblicato sul Catholic Herald, che stigmatizza sia l’approccio di mons. Paglia alla questione sia l’abuso della parola “accompagnamento” che fa correre il rischio di trasformarla in un potente cavallo di Troia per l’introduzione di quanto è stato sempre estraneo all’insegnamento perenne della Chiesa. 
Ecco l’articolo nella mia traduzione.

Accompagnamento è stata una parola d’ordine del pontificato di Papa Francesco. E’ una parola che normalmente significa quella parte musicale che dà supporto armonico ad una melodia. Mentre un accompagnamento può essere semplice o complesso, il suo compito principale è quello di sostenere l’esecuzione centrale – per elevarla e perfezionarla. In questo senso, è una bella metafora della presenza pastorale in mezzo alla vita delle persone.
Eppure il termine può essere abusato.
Martedì scorso, all’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, è stato chiesto a un simposio di due giorni sulle cure palliative se un sacerdote potesse essere presente durante un suicidio assistito da un medico. Paglia è stato veloce a rispondere che sarebbe stato disposto ad essere presente in modo pastorale durante il suicidio, e che avrebbe tenuto la mano della persona perché “Il Signore non abbandona mai nessuno”.
L’Arcivescovo Paglia ha insistito sul fatto che essere presente pastoralmente non implica un sostegno alla pratica. Piuttosto che pensarla come una contraddizione, o un messaggio misto, Paglia ha detto che “accompagnare, tenere la mano di qualcuno che sta morendo” è il “grande dovere di ogni credente”.
La questione dell’accompagnamento è sorta perché i vescovi svizzeri avevano recentemente emanato direttive che dicevano esattamente il contrario riguardo alla cura pastorale nei casi di suicidio assistito. I vescovi svizzeri hanno dichiarato esplicitamente che, mentre gli operatori pastorali dovrebbero essere attivamente presenti nelle cure palliative, non dovrebbero mai essere presenti durante un suicidio assistito, perché questo darebbe un tacito sostegno ad un atto intrinsecamente cattivo.
Paglia respinge il consiglio delle direttive del vescovo che recita: “Lasciate andare le regole. Credo che nessuno dovrebbe essere abbandonato”. Mentre ha insistito sul fatto che è una “società crudele” che giustifica l’eutanasia, il presidente della Pontificia Accademia per la Vita ha ribadito che opposizione all’eutanasia non significa opposizione all’accompagnamento.
Comprendo perfettamente il desiderio pastorale di accompagnare qualcuno anche nei momenti più difficili. Eppure l’accompagnamento deve mantenere il suo significato armonico. L’accompagnamento deve seguire la logica della carità e della verità – altrimenti non sarà altro che un “bronzo che risuona” o un “cembalo che tintinna” come dice l’apostolo Paolo ai Corinzi.
L’autentico accompagnamento è la presenza della vera carità. Non sta a guardare mentre qualcuno si uccide nella disperazione. Può un sacerdote essere presente ad un suicidio assistito? Non per tenere la mano che non possono. Non cooperare materialmente in un atto intrinsecamente cattivo – un sacerdote non può, non deve accompagnare le persone in atti di grave peccato.
Un adeguato accompagnamento sacerdotale deve essere in armonia con la verità, perché solo allora un sacerdote può portare la vera carità a una persona sofferente. Non si tratta di “regole” come sembra pensare l’Arcivescovo Paglia. Si tratta del rapporto tra parole e azioni. Un sacerdote non accompagna adeguatamente nessuno se ciò che fa contraddice ciò che dice, o viceversa. Nessuno pensa che la presenza di un sacerdote durante un aborto o un matrimonio omosessuale sia una “parola d’ordine” – proprio perché le persone giustamente prendono la presenza sacerdotale come una tacita benedizione dell’atto stesso. Lo stesso vale per il suicidio assistito da un medico.
Thomas Petri, O.P., professore di Teologia morale presso la Dominican House of Studies di Washington, D.C. ha offerto una risposta di gran lunga migliore alla domanda se un sacerdote possa accompagnare qualcuno che sceglie l’autodistruzione come atto finale della propria anima.
Non ti terrò la mano e non ti accompagnerò mentre ti impicchi. Non starò a guardare mentre ti spari da solo. Al contrario, giuro a Dio Onnipotente che farò tutto ciò che è in mio potere per impedirti di suicidarti, anche se è legale per te farlo“.
Questo è il vero accompagnamento – in armonia con la verità e l’amore. Questo è un sacerdote che difende la dignità umana. Piuttosto che rinnegare con riluttanza una cultura della morte tenendosi per mano, il vero accompagnamento predica Cristo crocifisso.
È vero quello che dice l’Arcivescovo Paglia: il Signore non abbandona mai nessuno in questa vita presente. Gesù Cristo è veramente Dio con noi! Dio si è fatto carne! Dio presente nel tempo. Ma la presenza di Dio non è accettazione sentimentale dei nostri peccati. Dio non si fa carne per confermarci, ma per metterci di fronte a quella realtà eterna che solo può guarire.
Flannery O’Connor una volta ha osservato che in un’epoca senza fede la “tenerezza” viene tagliata fuori dalla persona di Gesù Cristo che è la fonte di ogni tenerezza. Scrive: “quando la tenerezza si stacca dalla fonte della tenerezza, il risultato logico è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi della camera a gas”. Il suo punto non è che la tenerezza conduce alla camera a gas. Il punto di O’Connor è molto simile a quello di Petri. L’unico vero accompagnamento, l’unica vera tenerezza, si affianca non per cooperare con il nostro peccato, ma per salvarci da esso.
Di Sabino Paciolla