La grotta di Betlemme
La grotta di Betlemme

1.
L’espressione si riferisce all’opera di Fukuyama, sul capitalismo democratico come apice definitivo del progresso politico uni-direzionale di tutta l’umanità. Dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, molti hanno creduto di essere oramai di fronte alla “fine della Storia”, cioè di fronte alla prospettiva globalista e capitalista, in modo universale e irreversibile. Molti hanno salutato, a diverso titolo, questo avvenimento e questa prospettiva in senso assolutamente positivo. La fine della Guerra Fredda avrebbe comportato finalmente la realizzazione di una pace mondiale, di una fratellanza mai avuta prima. Le religioni avrebbero operato come fermenti di valori morali di dialogo e condivisione. Il mercato avrebbe garantito la produzione di benessere su scala mondiale e l’opportunità per chiunque di accedere ai beni di servizio generali. Il progresso tecnologico, non più contestualizzato negli armamenti atomici, avrebbe assicurato una sicurezza medica planetaria.
Molti hanno avuto la tentazione millenarista, cioè hanno  sperato nella realizzazione di una età definitiva, di un regno umano ultimo e universale. Il Millenarismo era stata una tentazione cristiana, un’idea di regno di Cristo sulla terra, in senso letterale, una sorta di trasposizione del messianismo ebraico, da immaginare al ritorno di Cristo sulla terra.
Il 1989 offrì a molti la tentazione di un Millenarismo secolarizzato e laico, un regno dell’uomo, reso immortale dalla tecnologia, reso fratello del prossimo dal disarmo nucleare e dalla solidarietà sincretista senza più confini o nazioni o religioni assolute, reso fratello di tutte le forme viventi dall’ambientalismo panteista.
2.
Naturalmente è superfluo dire che le cose sono andate diversamente: è sufficiente riflettere sul terrorismo mondiale o sugli investimenti tecnologici e informatici a vantaggio di plasmare una specie trans-umana, una sorta di uomo-computer (il transumanesimo). È sufficiente riflettere sulle nuove ideologie di massa, come l’ecologismo religioso o il gender, o sulla finanza globale e le invasioni di massa (spacciate per immigrazioni di perseguitati). O ancora sulle sovrastrutture internazionali spesso – e a ragione – percepite come sistemi di regime nei confronti dei popoli, delle nazioni, delle identità culturali e religiose. E si potrebbe proseguire all’infinito.
3.
Qui vorrei riflettere sul senso della storia in generale. Su cosa sia la storia dell’uomo e dell’umanità.
Già solo parlare di senso della storia determina la tesi di credere che la storia abbia un senso, uno scopo globale, universale. Una specie di uni-direzionalità. La storia dei popoli, nell’arco dei secoli, sarebbe contrassegnata da una unica origine e da un unico scopo finale. Questo presupposto è pressoché assente nelle tradizioni asiatiche, in cui la concezione del tempo ciclico determina l’idea anche politica e culturale di ripetizione statica, naturalistica di ciò che è sempre stato. Lo stesso dicasi del pensiero greco: se si fa eccezione di Esiodo sul piano mitologico e Platone su quello filosofico politico, i greci hanno generalmente un’idea di eternità dell’universo, di una ciclicità del tempo. Si tratta di una ciclicità razionale, ma che comunque esclude l’individualità del singolo rispetto al Tutto e al Mondo e l’idea del tempo lineare.
Questo concetto è invece peculiare nel pensiero biblico. In questo senso il giudizio di Löwith (Significato e fine della Storia) sul fatto che il mondo biblico – a differenza di quello greco – è interessato non tanto al “logos dell’universo”, quanto al “Signore della Storia”, è da confermare. La Bibbia afferma l’esistenza esclusiva ed unica del Dio che ha creato l’universo, che si è rivelato ad Abramo, ha indicato la Legge in Mosè, si è Incarnato in Gesù. E di questo Dio ne afferma anche la Provvidenza. La Signoria sulla Storia e sul male. Una Signoria di punizione della ribellione gnostica del primo uomo, una Signoria di Redenzione e Sacrificio, una Signoria della Gloria e del Giudizio finale.
4.
Proprio la tradizione patristica è solita vedere una corrispondenza tra l’opera di creazione e l’opera di salvezza. Come “sei” sono i giorni della creazione, allo stesso modo “sei” sono le età della Storia dell’umanità.
Una Storia di guerra. Perché guerra ha dichiarato Satana all’uomo: ad Adamo, a Israele scelto da Dio perché da quel popolo nascesse il Cristo, a Cristo stesso fino alla Croce, alla Chiesa fino alla “fine dei tempi”.
Qui è importante dare una prima precisazione: la fine dei tempi – ciò che per molti è detta impropriamente “apocalisse” – non è affatto un’età che deve ancora venire. Ma un’età che è già in atto. Da duemila anni.
Perché proprio il Natale ha inaugurato la fine del mondo. Nel senso dell’inizio della fine della storia. La sesta età.
L’incarnazione non cade, cioè, al centro del tempo, ma alla sua fine. E una fine in cui la lotta si fa più acuta. Il tempo della Chiesa è da sempre il tempo dello scontro finale tra Satana – sconfitto dalla Croce, ma ancora con possibilità di azione (feroce perché gli resta poco tempo) – e coloro che sono in possesso della testimonianza di Gesù.
Questo tempo, il tempo del Figlio, è a sua volta contrassegnato da una certa analogia tra il Cristo e la Chiesa, tra la vita pubblica di Gesù e la Chiesa che evangelizza il mondo, tra la Passione di Gesù e la persecuzione anticristica contro e dentro la Chiesa.
Di Pierluigi Pavone