ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 10 marzo 2020

Il pifferaio magico della modernità

COME TORNARE A CRISTO?


Il problema è sempre quello:"Come tornare a Cristo?". E come superare la diffidenza e il "Nichilismo universale" degli uomini moderni verso il cristianesimo: con la comunicazione indiretta del "Metodo socratico" di Kierkegaard?
di Francesco Lamendola  

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La civiltà moderna sta agonizzando, distrutta dalle sue insanabili contraddizioni: consumata nella sua stessa hybris, nella sua stessa tracotanza, nella sua stessa mancanza di senso del limite. Aveva promesso la felicità come un diritto garantito a tutti quanti, ma non è stata capace di assicurare nemmeno una vita dignitosa alla maggioranza degli esseri umani, né sul piano materiale, né, tanto meno, su quello spirituale. Ha prodotto solo rovine e infelicità: una turba senza radici, senza legami, senza identità, senza amor proprio, senza rispetto di sé. Una turba confusa, disperata, che dopo tanto essersi arrabattata inseguendo quel miraggio di benessere che avrebbe dovuto preludere alla felicità completa e definitiva, si ritrova sprofondata in un abisso di angoscia che pare non aver mai fine. Si tratta, perciò, di recitare il de profundis su questa civiltà che ha fallito, e poi di rimboccarsi le maniche e ripartire: di sgombrare le macerie e gettare le fondamenta di un’altra città, di un’altra visione della vita. 

Ma da dove incominciare, su che cosa far leva, visto che la modernità ha distrutto anticipatamente ogni strada percorribile, ha stabilito il nichilismo universale e ha, per così dire, avvelenato i pozzi dietro a sé prima di lasciare il campo, in modo che le nuove generazioni non potessero trovare più nulla per vivere, neppure un goccio d’acqua per dissetarsi nella calura afosa di questo amaro crepuscolo? Con il nulla non si può costruire nulla. Il nostro problema più immediato, pertanto, è ricostruire innanzitutto un orizzonte di speranza. La prima cosa di cui v’è bisogno, perché l’abbiamo perduta, è la voglia di ricominciare, di tornare a vivere e non più solamente sopravvivere, di lasciare qualcosa di buono ai nostri figli e ai nostri nipoti. Qualcosa per cui valga la pena di lottare, di mettersi in gioco, spezzando il cerchio stregato della nostra apatia e del nostro scoraggiamento, entro il quale siamo come paralizzati, siamo come ipnotizzati da un senso di totale e irreparabile fallimento. In altre parole siamo passati bruscamente dalla tracotanza della hybris, dalla cieca fiducia nel progresso e nella scienza, dalla voluttà del benessere facile e a portata di tutti, alla depressione cronica, all’auto-disprezzo e al segreto desiderio di morte, il che mostra ad abundantiam quanto fossero fragili e precarie le basi del nostro precedente modo di vivere, di sentire e di pensare, e che noi credevamo tanto solide da pretendere che il mondo intero prendesse esempio da noi, che eravamo i migliori di tutti, i campioni dell’umanità futura, emancipata dalle fatiche e dalle pene della condizione pre-moderna.

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Il problema è sempre quello:"Come tornare a Cristo?".

Siamo convinti che il punto sul quale far leva per rialzarci in piedi sia lì, sotto i nostri occhi, per il semplice fatto che è sempre stato lì, solo che lo avevamo nascosto sotto spessi strati d’illusioni e di menzogne: e quel punto è Gesù Cristo. È stato il cristianesimo a fare di noi dei popoli civili, a dare alle nostre famiglie, nel corso delle generazioni, la giusta prospettiva per costruire qualcosa invece del nulla. Tutto ha incominciato ad andar male quando abbiamo voltato le spalle a quella inesauribile ricchezza e siamo andati dietro al pifferaio magico della  modernità, che, ingannandoci, ci ha condotti fin oltre l’orlo del precipizio. Adesso dobbiamo risalire, il che è difficile sia materialmente che spiritualmente; ma non è impossibile: perché si tratta di riscoprire un tesoro dimenticato, ma che era già nostro: quello custodito tanto amorevolmente dai nostri avi, e grazie al quale i nostri popoli hanno creato una vera civiltà, splendida di opere d’arte e di pensiero, ma soprattutto ricca di fermenti spirituali, perché capace di porsi in un giusto equilibrio fra la vita di quaggiù e la nostra patria vera, che è di lassù. L’eccessivo attaccamento alla dimensione terrena porta al materialismo, al relativismo e al nichilismo; l’ossessione della nostra patria finale porta al disprezzo del presente e alla trascuratezza dei nostri doveri, qui e ora, verso noi stessi e verso le future generazioni. Noi dobbiamo reimparare a vivere, come i nostri nonni, con un giusto amore per le cose terrene, per gli affetti familiari, per la santità del lavoro, e la necessaria e benefica tensione verso la dimensione spirituale, che ci apre alla luce di Verità che, sola, ci può illuminare il cammino anche nei momenti più bui e nei tratti più impervi del nostro pellegrinaggio.

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 Come superare la diffidenza e il "Nichilismo universale" degli uomini moderni verso il cristianesimo: con la comunicazione indiretta del "Metodo socratico"?

Ma come si fa a tornare al cristianesimo? Ci si può forse immergere due volte nella stessa acqua? E noi, che non siamo più quelli di allora; noi, che siamo così cambiati; noi che la modernità ha trasformato quasi in un nuovo tipo antropologico, foderato di scetticismo e d’incredulità, come faremo a ritrovare quella Verità che i nostri nonni sapevano accogliere in tutta umiltà e semplicità, e ciò valeva anche per le persone colte? Il problema del ritorno al cristianesimo diventa, a questo punto, e come bene aveva visto Kierkegaard già centottanta anni fa, il problema di come trasmettere, come annunciare, come comunicare il cristianesimo agli uomini moderni, vale a dire agli uomini infettati dal virus della modernità.
Ci sia consentito riportare quel che scrive Ettore Fagiuoli a proposito di questo aspetto del pensiero di Kierkegaard, che poi è, a ben guardare, l’aspetto centrale e decisivo (in: Guido Boffi e altri, Dal senso comune alla filosofia. Profili, Firenze, Sansoni, 2001, vol. 2, pp. 301-302):
In questa desolante situazione c’è bisogno per Kierkegaard di un risveglio cristiano. Egli pone a se stesso un’opera titanica e quasi irrealizzabile: reintrodurre il cristianesimo nella cristianità. Ma come esprimere questo compito? La via che a tutta prima sembra più semplice è la COMUNICAZIONE DIRETTA: comunicare direttamente la verità. La comunicazione diretta è “comunicazione di sapere”, vale a dire presuppone un comunicante che sia in possesso di un determinato sapere che, come oggetto della comunicazione, viene comunicato a un ricevente. L’importante in questa comunicazione è l’oggetto – in questo caso la DOTTRINA cristiana. Il comunicante, il ricevente e la riflessione sulla comunicazione stessa passano in second’ordine. Tuttavia proprio questa è la situazione della cristianità e in genere dell’età moderna, dove tutti sono impegnati nel comunicare di più, nell’arricchire a dismisura l’apparato di studi su un argomento.

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La filosofia moderna il filosofo danese Soren Kierkegaard è dominata dall’ipocrisia della chiacchiera: parole e parole per fare finta che i concetti siano chiari, ma nulla può essere chiaro quando si sono voltate le spalle alla verità; resta solo l’omologazione di un pensiero disonesto, tale cioè che si auto-inganna deliberatamente!

Bisogna allora seguire un’altra strategia. Come Socrate che fingeva di non sapere nulla per costringere l’interlocutore a dare ragione delle proprie opinioni, e per farlo giungere da sé a una nuova consapevolezza, così Kierkegaard si propone di essere un nuovo Socrate. Un SOCRATE CRISTIANO che sia primitivo nel senso già detto e sia capace di ingannar per portare alla verità. Egli non comincerà col professarsi cristiano mediante la comunicazione diretta, dirà invece: io non sono cristiano, tu lo sei, dunque dimmi cos’è  la realtà cristiana.
Questa è per Kierkegaard la comunicazione indiretta. In essa l’importante non è il sapere come nella comunicazione diretta, ma realizzare nell’esistenza ciò che si dice. Qui comunicare vuol dire esistere, esistere come singolo, “reduplicare” nell’esistenza la comunicazione. Dunque la riflessione si sposta dall’OGGETTO della comunicazione al COME della comunicazione, alla comunicazione in quanto tale. Si deve riflettere sul MODO di comunicare che possa meglio favorire l’azione. Questo tipo di comunicazione Kierkegaard la chiama comunicazione di potere, comunicazione indiretta, comunicazione d’esistenza. Nella comunicazione indiretta risiede la ragione profonda della pseudonimia. Grazie a essa è sempre un singolo a esprimersi, ossia una persona che dice io e che reduplica nella sua vita ciò che dice. Un esteta (il personaggio A nella prima parte di “Aut-Aut”) parla di estetica, un uomo etico (il magistrato Wilhelm nella seconda parte di “Aut-Aut”) parla di etica, un pensatore (Climacus nelle “Briciole di filosofiche” e nella “Postilla”) di filosofia, un cristiano eminente (Anti-Climacus nella “Malattia per la morte” e nell’”Esercizio del cristianesimo”) del cristianesimo. Inoltre spesso nella comunicazione indiretta degli pseudonimi non è dato sapere se quanto si afferma è, per esempio, scherzoso o serio, oppure un attacco o una difesa del cristianesimo; né l’enigma può essere sciolto ricorrendo alla persona dello pseudonimo, perché costui è una persona inesistente, un nessuno. Così sarà il lettore a dover scegliere in base al proprio animo. L’opera diventa uno SPECCHIO che riverbera l’immagine di chi legge.

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 Come comunicare il cristianesimo agli uomini moderni, vale a dire agli uomini infettati dal virus della modernità? Dobbiamo riscoprire un tesoro dimenticato, ma che era già nostro: quello custodito tanto amorevolmente dai nostri avi, e grazie al quale i nostri popoli hanno creato una vera civiltà, splendida di opere d’arte e di pensiero, ma soprattutto ricca di fermenti spirituali!

Il problema è sempre quello: come tornare a Cristo?
di Francesco Lamendola

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VIRUS: LA MASCHERA E IL VOLTO

                                           
I carnefici travestiti da salvatori contano sulla nostra paura? L’Italia chiude: la sanità italiana è "Al collasso" in pochi anni per il dogma dell’austerità hanno chiuso molti ospedali e i risultati sono sotto gli occhi di tutti 
di Roberto Pecchioli 

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Voglia Dio che abbiano ragione loro. Che chiudere l’Italia serva davvero a ridurre l’epidemia del Covid19 e lo stato d’eccezione passi in fretta. Ai nonni e ai padri chiesero di andare in guerra, a noi di rimanere sul divano. Il sacrificio è accettabile, va affrontato con una parola inconsueta da mezzo secolo: disciplina. Sino a ieri era vietato vietare. Da oggi il Sessantotto – contagio ben più potente e persistente del Corona Virus- va in soffitta. Vietare si può, forse si deve e la personalità autoritaria, con buona pace degli autentici untori della nostra civiltà, i professori della Scuola di Francoforte, è invocata dal popolo per affrontare l’emergenza. Misure forti, chiedono tutti: eccole. Se saranno efficaci, lo scopriremo vivendo, o morendo.
Epperò… continuiamo a non credere alle versioni ufficiali: mentre i concittadini si dotano di mascherine e si mettono più o meno disciplinatamente in fila davanti a farmacie, supermercati e banche, il non detto prevale sulla verità. Un barlume di sincerità è uscito dalla bocca di un illustre virologo; abbiamo imparato a conoscerli per nome e a sperare che siano stregoni, sciamani, non semplici scienziati alla ricerca di terapie. Le misure pesanti sono state chieste, diremmo invocate dai clinici e dagli operatori della sanità. Il sistema non è in grado di reggere se il contagio avanza. Mancano posti letto, strumenti, strutture. Il secondo paese manifatturiero d’Europa si arrende a un’infezione per mancanza di mezzi, nello stesso momento in cui afferma di avere il miglior sistema sanitario d’Europa.
In Italia ci sono circa 191 mila posti letto pubblici, 3,6 ogni mille abitanti, contro i 4,7 della media dei paesi OCSE, i 5 della Francia e gli otto della Germania. Di questi, solo poco più di cinquemila sono di terapia intensiva. Non c’è bisogno di commenti: migliaia di malati in più all’improvviso, in un contesto senza una terapia certa, portino al collasso e al caos, trascinando con sé il panico popolare. Chi scrive teme di sfiorare la paranoia, o la sindrome ossessiva, ma non riesce a pensare se non nei termini di Catone, il senatore romano che terminava invariabilmente i suoi interventi, su qualsiasi tema, chiedendo che Cartagine fosse distrutta. Delenda Carthago. La nostra Cartagine è la globalizzazione neoliberista, la prigione soffocante del debito, il monetarismo dei banchieri, sostenuti dai loro sgherri di Bruxelles e, ahimè, di Roma.

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Voglia Dio che abbiano ragione loro. Che chiudere l’Italia serva davvero a ridurre l’epidemia del Covid19 e lo stato d’eccezione passi in fretta!

Si potrà, in qualche modo, uscire dal tunnel del presente contagio, ma domani un altro problema, un ulteriore dramma ci crollerà addosso se non cambieremo il sistema e riprenderemo in mano il nostro destino. Il mondo-mercato è un inferno, il bene comune non è una partita doppia, banchieri e padroni universali sono nemici dei popoli. I loro servitori politici, un giorno, dovranno essere trattati per ciò che sono: collaborazionisti del nemico. In queste settimane è servito chi, con l’espressione furba e lo sguardo di chi ha capito tutto, si vanta di non occuparsi di politica e di economia. Sono la politica, l’economia e la finanza a occuparsi di noi.
Al tempo del virus, il potere lavora con più lena, certo che il suo sporco lavoro riuscirà. La sanità italiana è al collasso: in pochi anni, per il dogma dell’austerità e la riduzione della spesa, hanno chiuso decine e decine di ospedali, i posti letto sono drasticamente diminuiti e il sistema si chiama “azienda sanitaria”. Azienda: deve fatturare, non curare. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. L’Italia è un paese farsesco, dove la situazione è sempre grave, ma non seria. Decreti di enorme impatto sulla vita di tutti vengono improvvidamente rivelati da portavoce governativi del calibro di Rocco Casalino, un reduce del Grande Fratello televisivo. Se sono in ginocchio Lombardia e Veneto, le regioni più produttive e serie della nazione, si trema all’idea della propagazione del contagio al Sud, dove i Pronto Soccorso sono devastati da mascalzoni in cerca di vendetta per la morte di un giovane rapinatore.
Il desiderio più vivo è davvero di blindarsi in casa muniti di provviste, specie di camomilla a prova di telegiornale, e riprendere in mano l’amato Tolkien, Il signore degli anelli. Dice Frodo Baggins al saggio Gandalf: avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni. Anch’io, risponde il membro del Bianco Consiglio che combatte l’Ombra nella Terra di Mezzo, ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato. In attesa che la Compagnia dell’Anello parta per combattere gli oscuri signori di Mordor e riconquisti l’Anello del potere, non ci resta che rimanere nei ranghi e sperare in Giuseppe Conte. Il ministro della salute, Speranza di nome, è sparito. Aria di otto settembre, la storia si ripete in forma di farsa dopo la tragedia, come sapeva Marx.  
Se le dimissioni da cittadino di questa nazione amata e ridicola avessero senso, sarebbe il momento giusto. Sono in fiamme le carceri, i detenuti evadono a frotte perché i decreti governativi limitano le visite. Le sommosse fanno morti e feriti, ma, state certi, i rivoltosi non bramano di abbracciare madri e fidanzate, ma di essere riforniti di droga e pasticche. Hanno assaltato le infermerie e saccheggiato gli psicofarmaci. Nella confusione da epidemia, gli italiani hanno appreso che esiste, tra i tanti enti dannosi, il Garante dei detenuti. Se ne avvertiva davvero la mancanza: burocrazia, uffici, cartigli, un pezzetto di potere. Il conto è a carico di Pantalone.
La gente è nel panico: nessuno parla d’altro che del Corona Virus, tra mascherine, distanze di sicurezza, zone rosse e appelli delle autorità. O mentono per difetto, e i contagiati sono ben più numerosi delle poche migliaia segnalate dai bollettini quotidiani, o l’irresponsabilità e l’imperizia gridano vendetta. Il livello delle classi dirigenti è rivelato non solo dall’impotenza- davanti alla natura scatenata, i decreti valgono quanto le “grida” manzoniane, cioè nulla- ma anche delle risse da ballatoio. Perfino i virologi si accapigliano in televisione. Chi ha superato gli “anta” ricorda l’allarme del colera negli anni 70, tra Napoli e la Sicilia. Fu affrontato con maggiore compostezza e minore isteria. Non parliamo della temibile “asiatica” della fine degli anni Cinquanta, con oltre dieci milioni di ammalati. Nell’era virtuale, la realtà sconcerta, non ci siamo più abituati, è dura rendersi conto di non essere spettatori di una fiction televisiva; il male fa capolino proprio nella nostra casa.

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I carnefici travestiti da salvatori contano sulla nostra paura? L’Italia chiude: la sanità italiana è "Al collasso" in pochi anni per il dogma dell’austerità hanno chiuso molti ospedali e i risultati sono sotto gli occhi di tutti!

VIRUS. LA MASCHERA E IL VOLTO
di Roberto Pecchioli

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