Dallo spazzolone al liquidator: la svolta modernista dei preti
La Chiesa cattolica sta cambiando. Dalla benedizione con la pistola ad acqua alla corsa in chiesa: i frutti (eccessivi) del Concilio Vaticano II?
La Chiesa cattolica sta cambiando. Dalla benedizione con la pistola ad acqua alla corsa in chiesa: i frutti (eccessivi) del Concilio Vaticano II?
La Chiesa cattolica sta cambiando.
Nel corso della pandemia da Sars-Cov2, l'Ecclesia ha rinunciato alla presenza fisica tra i fedeli, preferendo assecondare la scienza: è una novità storica assoluta. Ma pure il culto e la liturgia, nonostante le avvisaglie del cardinale e prefetto della Congregazione per il Culto e per la Disciplina dei Sacramenti Robert Sarah, sembrano andare incontro a prassi mai osservate sino a questo momento. Non è la prima tappa ma l'ennesimo passaggio di un processo che parte da lontano.
Partiamo dalla prima considerazione, citando le parole dell'antropologo Roberto Libera, che abbiamo intervistato per InsideOver: "La Chiesa nel passato era un punto centrale di azione e reazione a queste calamità. Vale pure per i santuari mariani, che alcune volte sono nati proprio come risposta culturale alle calamità. La Madonna in processione per le strade serviva a purificare. Ecco, c’è un cambiamento antropologico della presenza della Chiesa tra i fedeli: un cambiamento epocale. In questa circostanza (quella del 2020, ndr), la presenza fisica della Chiesa è mancata". Una svolta senza precedenti: su questo punto non esistono molti dubbi. Questa è la prima pandemia post-conciliare. Forse, per comprendere il perché di certe novità conviiene tornare al 1962, anno d'inizio dell'appuntamento voluto da Papa Giovanni XXII. Una lettura di questo tipo, però, rischia di essere troppo semplicistica.
Se non altro perché anche le Messe, dunque le benedizioni e persino le modalità di distribuzione dei sacramenti, sembrano subire le conseguenze di una rivoluzione copernicana che riguarda modifiche tenute insieme da uno "spirito" e non dalle norme in materia. Qualcuno lo chiama "spirito del Concilio". "Tutto questo dipende dalla stagione del post-concilio, non dal concilio", esordisce padre Ariel Levi di Gualdo. "Va detto che il Vaticano II è stato un concilio pastorale che ha sfornata una mole di documenti che molti non hanno letto e che ha usato un linguaggio nuovo, dal quale, volendo, alcuni tirano fuori ciò che non è mai stato scritto.
Tutte queste cose nascono da ciò che molti ritengono "lo spirito del concilio", quasi come se il Vaticano II avesse detto: fate quel che volete e come volete. Cosa assolutamente non vera". Ci sarebbe insomma la tendenza a creare una sorta di "concilio personale", che alcuni ecclesiastici declinano come credono.
Per i tradizionalisti la disamina è palese: si tratta della scia lunga del Concilio Vaticano II. Troppo semplicistico? Peter Leick, nel sempre più progressista contesto ecclesiastico teutonico, ha benedetto i fedeli mediante lo spazzolone. Sì, proprio quello che dimora nei bagni di ogni abitazione. Qualcuno, negli ambienti, ipotizza che si sia trattato soltanto di uno spot. Ma l'immagine rimane. Non che la scelta del parroco Leick sia legata al "concilio interno" dei vescovi tedeschi ma, volendo approfondire i contesti teologici, non si può non notare come la Germania sia più aperta, in ogni caso, alle novità.
Un caso isolato? Non proprio. Il blocco delle celebrazioni eucaristiche ha costretto i sacerdoti a confrontarsi con la modernità. Lo streaming è diventato protagonista e, visionando certe immagini, il popolo si è accorto di come il ceto ecclesiastico non fosse sempre preparato. Non che sia un obbligo essere al passo con i tempi. Ma è spesso l'esagerazione a fare notizia. Circola, ormai da tempo, la foto di un sacerdote che battezza mediante una pistola ad acqua. I social network occidentali hanno ospitato quella immagine con continuità. La prima Messa post quarantena in Francia è stata officiata all'interno di un drive-in.
Pure questi episodi dipendono dallo "spirito del concilio"? "Per "spirito del concilio" - ha continuato padre Ariel Levi di Gualdo - si intendono coloro che, invece di attenersi ai documenti e alle discipline del Vaticano II, si sono creati un concilio loro personale, traendo dai documenti ciò che in essi non è contenuto e stabilito". Il consacrato presenta quello che definisce "esempio eclatante": "La riforma liturgica. Nessuna delle cose aberranti che oggi vediamo fare in molte chiese è frutto della riforma liturgica, perché il tutto nasce dall'arbitrio di singoli sacerdoti che, nonostante una riforma liturgica che ha dato delle linee ben precise, si sono sentiti autorizzati a fare le loro riforme personali, sostenendo che fossero frutto di un non meglio precisato "spirito del concilio".
Nei documenti ufficiali, quindi, non sono contenute delle libertà che invece qualche sacerdote si prende volentieri: "Nel testo della Sacrosanctum Concilium (il documento della riforma liturgica, ndr) non si parla affatto di togliere di mezzo gli organi o il canto gregoriano - ha insistito il padre, che abbiamo voluto interpellare sul tema - , ma si raccomanda l'uso dell'organo e la cura del canto gregoriano, pur potendo inserire a giudizio del vescovo diocesano canti idonei, accompagnati anche da altri eventuali strumenti, purché consoni alla liturgia". E ancora: "In questo documento, non è certo indicato l'abbattimento delle balaustre; nel documento non c'è alcun cenno neppure vago al fatto che i vecchi altari potessero essere manomessi per ricavare 'banconi-bar'".
Quale conclusioni possono essere tratte? Siamo sempre dalle parti di un ragionamento già esposto nel recente passato. Una parte di Chiesa, quella che guarda alla visione dell'emerito Ratzinger e del cardinale Sarah, invita a non aver timore di rappresentare una "minoranza creativa".
La Chiesa deve rimanere se stessa, insomma, anche rinunciando a potenza e numeri. Altri, invece, pensano che l'adozione di costumi e comportamenti considerati in linea con la contemporaneità possa evitare una crisi storica, che riguarda pure le vocazioni.
https://www.ilgiornale.it/news/dallo-spazzolone-liquidator-chiesa-sempre-pi-moderna-1867180.html
Come combattere la buona battaglia, nonostante tante incomprensioni
Cari amici di Duc in altum, vi propongo la lettera che ho ricevuto da un gentile lettore del blog: Franco Gerevini, che è diacono. Una lettera piena di passione per la Verità e per la Chiesa. Un testo nel quale, penso, molti potranno riconoscersi. Alla fine ci sono alcuni complimenti per me. Sento di non meritarli, ma sarei falso se dicessi che non mi fanno piacere. Mi aiutano ad andare avanti.
A.M.V.
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Caro Valli, dopo aver seguito con molto interesse nei giorni scorsi la diretta web della presentazione del suo nuovo libro Non avrai altro Dio, ho avuto modo di riflettere su quanto è stato detto da lei e da monsignor Bux. Mi piace condividere con lei alcune di queste mie riflessioni, che sono frutto delle esperienze di questi ultimi anni e non pretendono di valere anche per altri; tuttavia potrebbero, forse, servire ad alcuni come stimolo.
È evidente che come credenti stiamo attraversando un periodo molto particolare e inquietante, al punto che persone normalmente miti e schive, lontane per natura dalla polemica, si espongono direttamente per dire che nella Chiesa “c’è qualcosa che non va”.
E chi si espone rischia. Per questo è appropriato parlare di “battaglia” (anzi di “buona battaglia”), perché rischia solo chi combatte.
Il rischio, per noi che crediamo, è strettamente connesso alla categoria della testimonianza. In questi tempi duri noi siamo chiamati, in virtù del nostro Battesimo e della nostra Confermazione, a essere testimoni, cioè “martiri” della fede in Gesù Cristo e nella sua Chiesa.
Il nostro martirio consiste nella possibilità di perdere, a causa dell’opera di testimonianza, magari non la vita fisica, ma forse prerogative, incarichi, occasioni di lavoro, visibilità, ruoli, amicizie… Sono tutti ambiti certamente importanti della nostra vita, ma noi – con san Paolo – osiamo ripetere: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?” (Rm 8,35).
Io sono un semplice diacono permanente, senza alcun incarico a livello parrocchiale o diocesano. Non temo di perdere alcunché, salvo la comunione con la Chiesa (e questa sarebbe davvero una sventura da evitare a tutti i costi, perché extra Ecclesiam nullus omnino salvatur, come scrissero i Padri del Concilio Lateranense IV nel 1215).
Con tutti i miei limiti, dovuti soprattutto al mio caratteraccio e ai miei peccati personali, cerco di dare testimonianza alla Verità “tutta intera”, obbediente allo Spirito Santo (cf. Gv 16,13).
Ciò che maggiormente mi addolora è che nell’ambiente ecclesiale questo mio desiderio di testimoniare la Verità viene spesso scambiato per arroganza o disubbidienza. Certo, non aiuta il fatto che il mio carattere sia particolarmente infiammabile (cosa che, mi rendo conto, indispone facilmente l’interlocutore), ma ho sperimentato che in ambito clericale è sufficiente anche solo accennare frasi del tipo “sul suo blog Aldo Maria Valli sostiene che…” oppure “però Amoris laetitia…” oppure “la Comunione in ginocchio è meglio…” per vedersi immediatamente bloccare da silenzi, ostentata indifferenza, sorrisi di compatimento ed essere rapidamente liquidati come intolleranti fondamentalisti, che da quel momento non hanno più facoltà di parola.
Al di là dell’ostilità, ciò che mi sorprende e addolora è che non viene quasi mai colto il motivo per cui sono spinto a parlare, che è solo il desiderio di evidenziare le contraddizioni di alcune affermazioni, che oggi tutti acriticamente considerano vere, rispetto al Vangelo e al Magistero perenne della Chiesa. Per esempio, la frase della Dichiarazione di Abu Dhabi secondo cui “Il pluralismo e le diversità di religione (…) sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani” è evidentemente inconciliabile – come lei evidenzia nel suo nuovo libro – con la Scrittura (si veda il mandato missionario di Mc 16,15-16) e con duemila anni di Magistero (basta prendere in mano, per esempio la Dei Verbum, la Redemptoris missio, la Dominus Iesus).
Si tratta di affermazioni false e pericolose, che non solo non confermano la fede dei fratelli, ma anzi rischiano di indebolirla ulteriormente.
La loro pericolosità è aumentata dal fatto che sono mescolate ad affermazioni vere e condivisibili: per esempio, per tornare alla Dichiarazione di Abu Dhabi, immediatamente prima della frase sopra citata si legge: “La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione”. E chi sarebbe tanto pazzo da non sottoscrivere questa affermazione?
Non è in gioco soltanto la fede dei semplici, ma di tutti. Vorrei raccontarle un episodio che ancora mi addolora a distanza di anni. Durante un ritiro spirituale di diaconi diocesani un nostro formatore, un famoso anziano monsignore, entusiasta sostenitore di quest’ultimo pontificato ma non di quelli precedenti, ebbe a dire apertamente, superando Karl Rahner a sinistra: “Non penserete ancora che la verginità di Maria sia una questione fisica, vero? Si tratta evidentemente solo di una verginità spirituale”. Nessuno di noi disse nulla. Io ingenuamente pensavo che ognuno di noi avesse interiormente liquidato l’affermazione per quello che era, cioè una farneticazione di un relitto sessantottino, ma dopo l’incontro un mio confratello più anziano, un santo, ingenuo, caritatevole e devoto diacono, mi chiese sconvolto: “Ma è vero quello che ha detto monsignore?”. Dovetti tranquillizzarlo: “No, sta’ sereno: molti papi e Concili hanno detto e ripetuto che Maria era vergine prima, durante e dopo il parto. La sua verginità è certo spirituale, morale, psicologica ma sicuramente anche e soprattutto fisica. Le affermazioni di monsignore sono una sua personale opinione che contrasta con l’insegnamento della Chiesa”.
In questi anni mi sto rendendo conto che la parresia, cioè il “parlare chiaro”, che tutti in teoria raccomandano, viene però accolta e apprezzata solo se ciò che si dice è conforme al mainstream ecclesiastico; diversamente, rappresenta una sorta di autocondanna per chi osa esprimersi chiaramente.
Spaventa la superficialità di giudizi che scattano automaticamente se vengono pronunciate parole “tabù” (basta provare a chiedere al proprio parroco: “Che cosa pensa della Messa in latino?”…). Spaventa la sbrigativa etichetta squalificante di “disobbedienza” messa sopra affermazioni anche solo leggermente critiche nei confronti di questo pontificato, che davvero – non si può fingere che non sia così – causa sofferenze e difficoltà non solo a me ma anche a molti altri cattolici.
Noi che critichiamo alcune affermazioni di questo papa non vogliamo essere come quelli che da sinistra contestavano duramente san Paolo VI, san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI; noi amiamo la Chiesa e consideriamo con serietà ciò che dice il papa. È proprio perché lo prendiamo seriamente che pensiamo sia nostro dovere esercitare il diritto-dovere di critica che è proprio di ogni battezzato. D’altra parte il Codice di diritto canonico è chiarissimo: “In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, i fedeli hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità delle persone” (212 §3).
In questo modo noi vogliamo combattere la “buona battaglia”: con amore, rispetto e carità, ciascuno con i propri mezzi e i propri talenti, tenendo presente “l’utilità comune e la dignità delle persone”, ma con franchezza. D’altra parte lo stesso papa Bergoglio ha detto più volte: “Non è peccato criticare il papa” (per esempio il 21 maggio 2018 alla Cei).
È molto più faticoso esercitare la critica che essere degli yes-men. Per criticare bisogna approfondire, studiare, pregare, soffrire, vincendo anche la propria repulsione a essere tra quelli che obiettano al papa o al proprio vescovo e temperando il proprio parlare con la carità. Ciò è molto duro per un laico ma lo è forse di più per un membro del clero, soprattutto per un sacerdote o per un vescovo che hanno molto più da perdere (si veda il caso del bresciano don Gianluca Loda).
Molte cose non mi piacciono di questa Chiesa (che però rimane sempre la mia amata madre), soprattutto il fatto che si sia appiattita su argomenti e parole del mondo. Il papa e i nostri vescovi parlano quasi solo di migrazioni e di ambiente perché questi sono gli argomenti che piacciono alla gente che piace e sui quali essi non hanno responsabilità diretta (e perciò sono meno attaccabili). Più scomodo sarebbe parlare della salvezza dell’anima, dei Novissimi, della tutela della vita, della difesa della famiglia naturale (non “tradizionale”), dell’unicità salvifica e della regalità sociale di Gesù Cristo, della centralità dell’Eucaristia.
I nostri pastori, invece, parlano spesso con le parole del mondo: fanno propri termini quantomeno equivoci come “omofobia”, “transfobia”, “riscaldamento globale”, “ecosostenibilità”, “antisovranismo” che hanno una connotazione chiaramente ideologica e che (per fortuna) non tutti i credenti digeriscono con facilità.
Mi si dice che molti vescovi, sacerdoti e diaconi non concordino con questo “nuovo corso” ecclesiastico imbevuto di ideologie mondane, ma tacciano per non apparire disubbidienti (e per non perdere privilegi e sostentamento). Io non conosco molti vescovi, ma qualche prete e diacono sì, e non mi sembra che siano poi molti quelli che “si ribellerebbero se potessero”. Ma forse io sono un po’ pessimista…
Caro Valli, la ringrazio per la passione con cui combatte la “buona battaglia”. La sua riconosciuta professionalità e onestà intellettuale è un’arma che dota la sua penna di autorevolezza. La esorto a continuare in verità e carità. Io, nel mio piccolo, la sosterrò con la preghiera e con interventi consentiti dalla mia limitata competenza e influenza.
Ad maiorem Dei gloriam.
Franco Gerevini, diacono
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