Se l’ideologia urta coi fatti, tanto peggio per i fatti. Una partita truccata? Come "l’intellighenzia progressista" grazie alla "chiesa bergogliana" è passata dal marxismo, all’americanismo e oggi all’africanismo e a Pachamama
di Francesco Lamendola
L’Italia sta andando alla deriva e la sua completa rovina è già in vista all’orizzonte. La cosa più triste è che gli italiani hanno fatto tutto da soli, sprecando le loro eccellenti potenzialità e lasciando prevalere la loro componente peggiore. Venti anni fa l’Italia era la quarta potenza economica mondiale; oggi è un Paese sull’orlo del baratro, praticamente in liquidazione, con l’economia sul punto di fallire e i suoi giovani laureati che se ne vanno all’estero, stanchi di questa matrigna che non dà loro alcuna sicurezza, alcuna garanzia, neanche quella minima della serietà e del merito.
Tutto funziona per mezzo di consorterie, di logge massoniche, di corporazioni intoccabili: i posti chiave sono blindati, le carriere sono stabilite in anticipo, la partita è truccata e chi ha talenti, onestà, voglia di fare, è scoraggiato in cento e cento modi. Fare impresa in Italia è diventata una vocazione suicida; fare strada nel mondo del giornalismo, o della politica, o dell’amministrazione, un percorso a ostacoli dove quel che conta veramente è la parola buona degli amici o degli amici degli amici. Lo Stato non ha una sua visione delle cose, si affida ai tecnici, e la sola cosa di cui è fermamente convinto è che bisogna colpire chi produce ricchezza, vedendo in lui un nemico di classe.
L’Italia in vent'anni è passata da quarta potenza economica mondiale a un Paese sull’orlo del baratro!
L’invidia sociale, coltivata gelosamente e quasi scientificamente per tanti anni, sta producendo i suoi amarissimi frutti. Con l’invidia si può perseguitare chi ha dei meriti, ma non si può sostituire la sua intelligenza e la sua capacità imprenditoriale, o la sua competenza e originalità professionale. L’invidia è sterile: permette di togliere a chi ha, ma non permetterà mai di creare nuova ricchezza. Per creare ricchezza ci vuole altro che un magistrato rancoroso o un professore invidioso o un prefetto sospettoso o un ufficio del fisco insaziabilmente rapace: ci vuole capacità. E la capacità è divenuta una merce rarissima; chi ne possiede, se ne va all’estero. L’Italia è finita, a meno che sopraggiunga un miracolo che le permetta di risorgere, di ridare spazio ai meritevoli e ai giovani, di fare piazza pulita dei parassiti, degli invidiosi e degli inutili. Ma come siamo arrivati a questo punto? Le cause sono molteplici e abbiamo provato a individuarle, una per una, in una lunga serie di scritti. Ora vorremmo mettere al centro la causa delle cause, la madre di tutte le altre degenerazioni: l’invidia. Il che ci impone di rispondere a quest’altra domanda: come è accaduto che l’invidia, sterile, sostanzialmente stupida, s’imponesse e divenisse la nota dominante delle classi dirigenti presso un popolo mediamente intelligente, mediamente laborioso, mediamente creativo, come lo è, o lo era, il popolo italiano?
Una partita truccata? Come "l’intellighenzia progressista" grazie alla "chiesa bergogliana" è passata dal marxismo, all’americanismo e oggi all’africanismo e a Pachamama!
Scavando un poco sotto la superficie, ma nemmeno tanto, si scoprirà che invidia fa rima con ideologia. L’Italia è il Paese più ideologizzato al mondo, per la semplice ragione che le sue energie nazionali, dopo la catastrofe del 1943-45, non sono più state rivolte al bene comune, ma al bene individuale, spesso perseguito a danno del vicino o del collega, e sovente al servizio d’interessi stranieri. In questa atmosfera chiusa, claustrofobica e perennemente satura di competizione e di rivalità, si spiegano le straordinarie fortune del solo partito comunista occidentale che abbia sfiorato realmente, per un momento, la concreta possibilità di andare al governo del Paese; e che, non essendoci riuscito in maniera diretta, ci è riuscito travestendosi da ciò che non era e che non è mai stato, e alleandosi con improbabili compagni di viaggio, accomunati dalla medesima ideologia del rancore. In un Paese sano, dove le energie sociali, intellettuali e morali sono lasciate libere di esprimersi nella direzione naturale, che è quella di coltivare il proprio bene individuale nel contesto del bene comune, perché l’uno senza l’altro è impensabile, il Partito Comunista non avrebbe mai potuto arrivare così lontano; se ciò invece è accaduto in Italia, e solo in Italia, è perché l’Italia era un Paese profondamente malato. La sua malattia aveva molti nomi, ma il più grave di tutti era la mancanza di spirito nazionale, di sentimento della comune appartenenza. Fallito il tentativo di unificazione morale operato dal fascismo, hanno ripreso il sopravvento le secolari logiche regionali (la Sicilia voleva addirittura diventare il cinquantesimo Stato degli USA), massoniche, consociative, trasformiste e corporative, nel peggior senso di quest’ultima parola (perché c’è anche un senso nobile, ma questo è un altro discorso). E a ciò si aggiungeva il peso del modo obbrobrioso in cui erano avvenute la sconfitta e la resa (il 25 luglio e l’8 settembre del 1943, il voltafaccia e la fuga del Re e del governo), e lo scheletro nell’armadio della guerra civile: il segreto di Pulcinella di una Repubblica che diceva d’essersi liberata da sé della dittatura, mentre ciò era accaduto per opera delle armi straniere, alle quali era poi rimasta infeudata per sempre, e al prezzo di un odio fraterno che aveva creato una ferita immedicabile, tanto più immedicabile in quanto non poteva neanche essere nominata. Chi erano i fascisti, se non i responsabili di un male permanente, sempre in agguato, sempre pronto a colpire, onnipresente, occhiuto, implacabile; e, al tempo stesso (strano paradosso) un’entità invisibile, inafferrabile, in quanto gli italiani “fascisti” (sebbene il fascismo fosse morto nell’aprile del 1945) non erano veramente italiani, erano degli alieni, un corpo estraneo, individui immeritevoli di partecipare alla vita politica, di avere un loro partito, di aspirare al governo del Paese come tutti gli altri? E se qualcuno li ammazzava, li bruciava vivi nel sonno, come nel rogo di Primavalle del 16 aprile 1973, ebbene, tanto peggio per loro: in fondo se l’erano cercata, avrebbero dovuto semplicemente sparire dalla faccia della terra.
I fanatici del dialogo interreligioso pensano davvero che un cattolico dovrebbe pregare insieme agli stregoni? No: noi non ci stiamo. Civiltà e religioni non sono equivalenti. Si tengano pure gli stregoni; a noi basta Gesù!
La Guerra Fredda ha congelato questa situazione strana, surreale, artificiale, di un Paese che sogna il comunismo dopo aver fatto dell’antifascismo il proprio mito di fondazione, incurante della contradizion che nol consente. Se i progressisti italiani - autonominatisi, come tutti i progressisti del mondo, l’avanguardia della civiltà e dell’etica - non hanno saputo far di meglio, per quasi mezzo secolo, che sognare l’avvento di un sistema politico che in nessuna parte del mondo è andato al potere senza distruggere ogni libertà e ridurre in schiavitù i cittadini, allora è chiaro che nel DNA della Repubblica di Pulcinella c’è qualcosa che non va. Che a sognare il comunismo fossero quattro ragazzi superficiali e ignoranti, come nel ’68, si può ancora capire; ma che il fiore, la crema dell’intellighenzia battesse la medesima strada, sia pure in forme intellettualmente più raffinate, per ben due generazioni, ciò significa che l’Italia difetta di classe dirigente, e che la sua cosiddetta classe dirigente è formata da un’accozzaglia di perdenti, di inutili, di sciocchi, di faziosi, d’incapaci, che mascherano la loro inettitudine e la loro pochezza nascondendosi dietro l’ideologia del rancore e dell’invidia sociale per eccellenza: il comunismo, appunto, in tutte le sue varianti possibili e immaginabili, non escluso il maoismo, il guevarismo, il trotzkismo e Dio sa che altro, e le versioni nazionali di Ceausescu, Enver Hoxha e Kim il Sung. Ma poi il Muro di Berlino è caduto, la Guerra Fredda è finita e la classe dirigente italiana si è trovata nuda di fronte a se stessa, alla propria infingardaggine, al proprio egoismo: ed è cominciata la smobilitazione. Il via lo ha dato la Fiat di Marchionne, lasciando l’Italia per stabilirsi in lidi più ospitali, senza nemmeno ringraziare per gli immensi benefici ricevuti dallo Stato nel corso di almeno un secolo, dittatura fascista compresa. Poi la fuga è continuata, ma alla spicciolata e in forme più discrete, e oggi la realtà è che molti di quelli che ci governano, che firmano gli articoli da prima pagina, che insegnano nelle università, che stabiliscono se possiamo uscir di casa in tempi di pandemia vera o immaginaria, e che decidono la sorte dei nostri sudati risparmi e delle nostre pensioni, sono già, di fatto, personaggi con la doppia cittadinanza, con la casa o l’attico a Londra o a New York, con la cattedra ad Harvard o a Yale, con le amicizie che contano a Washington e a Bruxelles, con la loro sfera d’interessi proiettata ben al di là dei nostri confini; che mandano i loro figli nelle università straniere e che, se devono fare un’operazione, si guardano bene dal servirsi della sanità nazionale, quand’anche fossero ministri della Sanità. Il signor Colao (uomo del Bilderberg) vive da anni a Londra, il signor Saviano ha la casa a New York, e come loro una quantità di tecnici, di amministratori, di professori, di finanzieri, di scrittori, di giornalisti di grido. Parlano per l’Italia, decidono per l’Italia, dicono cosa è bene e cosa è male per gli italiani, dall’immigrazione alle mascherine, ma in Italia non vivono più, ci vengono solo per ritirare lo stipendio e per firmare il foglio di presenza in Parlamento o in qualche commissione o sottocommissione governativa. Di fatto si sentono sciolti dal destino dell’Italia; sanno che, se il Paese andrà in rovina, loro si salveranno; se gli italiani si ridurranno in miseria, a loro non succederà; e se scoppierà una guerra civile, loro se ne staranno alla larga, coi loro conti in banca già messi al sicuro da molto, molto tempo.
Oggi in Italia tutto funziona per mezzo di consorterie, di logge massoniche, di corporazioni intoccabili: i posti chiave sono blindati, le carriere sono stabilite in anticipo, la partita è truccata !
L’invidia sociale, propria dell’ideologia comunista, non basta però, da sola, a spiegare perché le classi dirigenti italiane, a partire dalla classe intellettuale, abbiano sviluppato una così evidente attitudine auto-distruttiva. Ci voleva qualcos’altro, per rendere il cocktail perfetto; ci voleva l’odio di sé e l’esaltazione dell’altro. Da sempre gli italiani sono esterofili; osiamo anzi affermare che una delle ragioni della sconfitta nella Seconda guerra mondiale – o di quel tipo di sconfitta – risiedano nell’anglofilia di buona parte della classe dirigente, finanza, industria, esercito e marina compresi. Dopo il 1945, all’anglofilia si è affiancato, per ovvie ragioni, l’americanismo e per trenta, quaranta anni il mito anglosassone, veicolato dai Beatles e da Hollywood, è stato assicurato. Poi anch’esso ha cominciato ad appannarsi; quando è apparso evidente che quel mito sarebbe rimasto sempre tale, un sogno irraggiungibile per la stragrande maggioranza del popolo italiano, costretta a lottare con le dure necessità della sopravvivenza quotidiana, l’intellighenzia ha cominciato a sostituirlo con un altro: quello primitivista, erede del Buon Selvaggio di Rousseau, specialmente africano. Perché proprio africano? Ma per ovvie ragioni geografiche. L’invasione programmata dalla grande finanza internazionale, dalla sponda Sud alla sponda Nord del Mediterraneo, trovava così il terreno psicologico adatto: il senso di colpa per il passato coloniale (proprio l’Italia, la potenza che meno di tutte ha guadagnato qualcosa dalle sue colonie!); quello per lo sfruttamento postcoloniale (proprio l’Italia, vittima essa stessa del debito creato dalla grande finanza!); e quello per l’appartenenza alla razza bianca privilegiata ed egoista, mentre nel Sud del mondo, come recitano ogni giorno decine e decine di spot televisivi pagati da Soros e Bill Gates, migliaia di bambini rischiano di morire di fame, ecc. (colpevole di tutto questo: la razza bianca, e, chissà perché, l’Italia in modo speciale). Così l’intellighenzia progressista è passata dal marxismo all’americanismo, e infine all’africanismo, nello spazio di neanche mezzo secolo, con la massima disinvoltura e senza mai ammettere di aver cambiato la propria ragione sociale, anzi proclamando la propria cristallina fedeltà ai suoi ideali di sempre.
L'eroina Silvia Romano è andata in Africa come volontaria ed è tornata non solo islamica, ma propagandista dei terroristi islamici che l’avevano rapita e che ogni giorno uccidono persone, incendiano chiese, rendono la vita impossibile alle minoranze cristiane!
Naturalmente ci si può chiedere come sia avvenuto l’ultimo passaggio; in virtù di quali principi, e facendo leva su quali forze, i progressisti di casa nostra abbiamo scoperto che nero è bello, e che la sola cosa giusta e legittima che gli italiani possano fare è di lasciarsi invadere senza batter ciglio da qualche milione di africani islamici, i quali nel giro di una o due generazioni li soppianteranno, visto il loro tasso d’incremento demografico; e che, frattanto, mostrerebbero di essere persone civili se non si opponessero, se non protestassero, se impegnassero le loro ultime risorse non per creare un futuro ai propri figli, ma per spalancare le porte ai migranti/invasori, come quel professore di Treviso che ha lasciato la casa a quei bravi ragazzi venuti dall’altra sponda del Mediterraneo, andandosene a vivere con la moglie ospite di un parroco, e lasciando la casa, frutto del suo lavoro e del suo risparmio, non ai suoi figli, ma ai nuovi arrivati: cosa che gli ha procurato numerosi encomi e attestati di stima e ammirazione da ogni parte, compresa la Presidenza della Repubblica. Il messaggio è stato chiaro: italiani, non smettete di lavorate più per voi stessi, sarebbe egoismo, e anche per i vostri figli, sarebbe familismo amorale; lavorate invece per mantenere gratis quelli che vengono qui in cerca di una vita migliore, cioè, in parole povere, di una vita comoda e senza dover faticare.
L’invidia sociale, propria dell’ideologia comunista, non basta da sola, a spiegare perché le classi dirigenti italiane, a partire dalla classe intellettuale, abbiano sviluppato una così evidente attitudine auto-distruttiva. Ci voleva qualcos’altro, per rendere il cocktail perfetto; ci voleva l’odio di sé e l’esaltazione dell’altro!
Dunque, la domanda è questa: chi o cosa ha favorito l’irresistibile passione degli italiani per la propria autodistruzione e, in modo speciale, per la prona sottomissione all’invasione afro-islamica? Rispondiamo: la chiesa cattolica, o meglio la chiesa bergogliana (le due cose non sono sinonimi, anzi, in verità sono letteralmente opposte), e specialmente alcuni ordini missionari particolarmente attivi in Africa e particolarmente sensibili ai temi della teologia della liberazione e del suo equivalente africano, la teologia della negritudine. È da lì che per anni, per decenni, nella cultura italiana è entrata l’idea, dapprima in forme discrete e quasi subliminali, poi in maniera sempre più esplicita, che nero è bello, che la civiltà cristiana è una non civiltà, che i bianchi sono brutti e cattivi, che gli africani sono molto migliori di loro, che dovremmo imparare da essi, scordarci le nostre radici e farci africani, come la brava Silvia Romano che è andata in Africa come volontaria ed è tornata non solo islamica, ma propagandista dei terroristi islamici che l’avevano rapita e che ogni giorno uccidono persone, incendiano chiese, rendono la vita impossibile alle minoranze cristiane.
La domanda chiave è questa: chi o cosa ha favorito l’irresistibile passione degli italiani per la propria autodistruzione e, in modo speciale, per la prona sottomissione all’invasione afro-islamica? Rispondiamo: la chiesa cattolica, o meglio la chiesa bergogliana!
Ed ecco i presepi fatti con Gesù Bambino nero, con la Madonna nera e islamica, e il signor Bergoglio che definisce Maria una meticcia, il che fa di Gesù un super-meticcio. Ecco il diritto di qualsiasi africano a sbarcare in Italia, a essere accolto, a essere ospitato in albergo e non in una ex caserma (sennò fa lo sciopero della fame), a ricevere un menu vario (sennò butta la pastasciutta sul pavimento), a spacciare droga ai giardinetti mentre lo Stato italiano verifica la legittimità della sua richiesta d’asilo (e guai se qualcuno ci trova qualcosa da ridire, poverino, c’è sempre il prete di sinistra che lo difende, lo giustifica e lo scusa: quello che canta in chiesa Bella ciao, per esempio). E attraverso questo tipo di missionari e di cattolici di sinistra, queste idee sono penetrate, più o meno confusamente, più o meno chiaramente, nella società italiana e sono state adottate, magari senza aver coscienza della loro origine, da gran parte dell’establishment culturale, dal giornalismo alle università, passando ovviamente per la magistratura politicizzata. Ci sarebbe solo un piccolo problema da risolvere: come si può sostenere che la cultura africana sia migliore di quella europea; che i popoli africani vivevano in pace e sereni prima dell’arrivo dei colonialisti bianchi; che l’Africa oggi è ridotta in miseria solo e unicamente per colpa degli sfruttatori bianchi, e non per colpa dei politici africani corrotti, di una indolenza tipica di molte popolazioni, di una crudeltà secolare che rende i membri delle diverse etnie sempre pronti a massacrarsi a vicenda, magari a colpi di machete, come nel terribile genocidio dei Tutsi da parte degli Hutu nel Ruanda del 1994? Gli europei, si sa, sono quelli che hanno distrutto le civiltà altrui; quelli che hanno prodotto i conquistadores e l’Inquisizione; quelli che hanno creato Auschwitz e scatenato le guerre mondiali; mentre il Buon Selvaggio, si sa, non ha prodotto nulla di male, solo cose buone, ecologia, rispetto per l’ambiente, ecc., proprio come insegna la falsa catechesi del falso papa Bergoglio, dalla falsa enciclica Laudato si’ al culto sacrilego della Pachamama, intronizzata in San Pietro… Solo che per sostenere una cosa del genere ci vuole una bella faccia tosta: bisogna semplicemente ignorare i fatti. Ma i fatti non devono permettersi di confliggere con l’ideologia progressista e africanista; se accade, tanto peggio per loro, basta eliminarli dai libri, dai corsi d’insegnamento, dai programmi televisivi e dal cinema (chi oserebbe girare più film come Africa Addio di Jacopetti e Prosperi?).
La memoria corta dei post-comunisti? L’ideologia del rancore e dell’invidia sociale per eccellenza è il comunismo, in tutte le sue varianti possibili e immaginabili, con il Muro di Berlino caduto e la Guerra Fredda finita la classe dirigente italiana si è trovata nuda di fronte a se stessa!
Prima di arrivare alle conclusioni vorremmo chiedere al lettore di accompagnarci nella ricognizione di alcune pagine del diario di un missionario, Francesco Borghero (Ronco Scrivia, 1830-Genova, 1892), inviato nel 1860 dalla Società delle Missioni Africane nel vicariato del Dahomey, non ancora conquistato dagli europei, ove poté vedere coi suoi occhi la vita di quelle popolazioni e lo stile di governo di quel sovrano. Scriveva dunque padre Borghero a proposito dei sacrifici umani (da: F. Borghero, Diario del primo missionario del Dahomey, 1860-1864, a cura di Renzo Mandriola, Bologna, E.M.I,., 2002, pp. 438-39; 439-41; 442; 443-444; 445; 447-449):
SACRIFICI NOTTURNI. (…) Tutti gli abitanti vegliano, in silenzio, dominati da questo terrore notturno, in attesa di questi terribili segni convenzionali. Non si è ancora spento l’eco dei colpi d’arma da fuoco che i carnefici, sotto gli occhi vigili degli stregoni, afferrano le vittime, chiudono loro ogni via respiratoria e appoggiando le ginocchia e le mani sul petto e sulla gola soffocano gli sfortunati che sono stato designati per questo genere di supplizio. Devono morire senza aver ricevuto alcuna ferita perché, dopo la morte, dovranno ancora comparire in pubblico. Nello stesso tempo il Re, nei suoi appartamenti, circondato da una non ben definita folla di persone, si abbandona all’orgia più vergognosa e sfrenata; acquavite donne, danze, buffonate di schiavi, tutto vi trova posto. Poi ancora altri colpi di cannone annunciano che le vittime sono spirate. (…)
SACRIFICI “ALLA TRAPPOLA”. Molto spesso s’incontra la derisione espressa con il sacrificio. Ma qui la derisione cade sulla stessa natura umana. Possiamo vederlo. Il Re, il popolo tutto, sono impegnati nelle feste delle “usanze”, come si chiamano, Gli stregoni emanano le loro prescrizioni, il numero dei sacrifici è fissato. (…) Nel Dahomey si è ideato di simulare la caccia con trappola, ma al posto degli animali si mettono degli uomini: li si lega, li si blocca, ben stretti, li si introduce ancora vivi nelle trappole preparate intorno alla piazza d’armi della capitale, e, tra i fragorosi applausi della folla ebbra di sanguinaria voluttà, li si vede sollevarsi in aria tutto intorno alla piazza. L’uomo arriva in alto ancora vivo, ma sistemato in modo da non potersi più slegare. Sollevato in aria, mezzo strangolato ma ancora in vita, si dibatte con tutte le sue forze, mentre la folla non si sazia di contemplarlo, serrato nella morsa della trappola che il peso del corpo chiude sempre di più. (…) Muore per la tensione esercitata dal peso del suo corpo appeso alla testa. Gli spasimi dell’agonia, i movimenti convulsi degli arti, gli sforzi vani della vittima sospesa in aria, divertono e inducono al riso la folla che non risparmia i suoi sarcasmi. Altre volte l’uomo è appeso alla trappola per il collo e in tal caso muore strangolato. Un’altra maniera consiste nell’introdurre l’uomo per i piedi; tenta allora di raddrizzare la testa in basso e procura il piacere di contemplare le contrazioni del viso e le sue deformazioni durante l’agonia. (…)
Se l’ideologia urta coi fatti, tanto peggio per i fatti? Il senso di colpa per il passato coloniale degli Italiani: come siamo passati dal mito del Buon Selvaggio di Rousseau a quello primitivista del Buon Africano?
SACRIFICI CON L’ALBERO (PER I BIANCHI). Qualche volta gli stregoni richiedono sacrifici di uomini bianchi. Siccome è piuttosto difficile procurarseli e considerato che i feticci dei Bianchi sono più astuti e potenti di quelli dei Neri, si sostituisce il Bianco con un Nero a cui si dà un nome di bianco. Lo si veste all’europea, in abito, cravatta bianca, cappello a cilindro, gli si forniscono delle scarpe e un parasole, distinzione onorifica concessa i Bianchi. Quanto al modo di sacrificarlo, devo subito esprimere un orribile sospetto che ritengono ben fondato: la crudeltà, in questo caso, va unita all’empietà. Il bianco immolato è inchiodato a un tronco d’albero e sta in piedi come se vi aderisse, facendo corpo con l’albero. Io sospetto, dunque, che gli stregoni abbiano inteso con questo riprodurre, per derisione, l’immagine del grande feticcio dei Bianchi: Cristo in croce. (…)
SACRIFICI AL PRECIPIZIO. È uno dei modi più ignobili di sacrificare. (…) Ad un segnale convenuto, le vittime sono portate sulla pedana in grossi panieri e presentate al Re il quale, armato di un lungo martello, infligge loro un vigoroso colpo alla testa. Quindi, una dopo l’altra sono lanciate giù dalla pedana, nello scavo già menzionato. Là una folla infernale le attende. Mezzo morte per la caduta dopo il colpo di martello, le vittime sono trascinate, straziate, malmenate in tutti i modi possibili da questa massa di gente della quale non è possibile dipingere la ferocia. Va osservato che un tempo questi sacrifici erano offerti a una divinità il cui culto è quasi del tutto scomparso nel Dahomey, ma di cui resta la parte più crudele. Si dice che una volta si adorassero i caimani, così numerosi in queste regioni paludose; che in questo scavo ve ne fosse una grande quantità e che le vittime vi fossero lanciate dentro per essere così dilaniate, ridotte in brandelli dai caimani stessi. (…)
SACRIFICI CRUENTI. (…) A volte si organizza una spedizione in grande stile. Il Re siede sul trono; l’esercito lo circonda. I capi, i dignitari, gli stranieri di prestigio sono sotto il loro parasole. Si danza, si beve, si fuma, si canta poi, nel mezzo dello spazio vuoto, arrivano i carnefici. Si portano le vittime alle quali si tronca la testa che viene alzata tutta sanguinante per farla vedere. Si accumulano i cadaveri così decapitati, qualche volta uomini e donne mescolati. Tutto è inondato di sangue. La folla applaude ad ogni testa decapitata che viene alzata. Si conservano, a parte, le teste per scarnificarle e ottenere così il cranio nudo che serve come trofeo. A centinaia sono disposti tutto intorno, sostenuti da aste metalliche piantate sul muro di cinta del palazzo. A volte è una spedizione di donne che si invia al Re defunto; poi viene l’esposizione di teste mozzate. Molto spesso essa ha luogo davanti al palazzo del Re. Vengono sistemate, ancora grondanti sangue, su delle impalcature appositamente costruite e restano in mostra anche intere settimane. Altrove il rituale assume una veste ancora più sacrilega. Si dispongono delle forche che incrociano le strade nei punti dove si deve passare. Si tagliano le teste, si sospendono alle forche stesse e subito inizia un’imponente processione che sfila transitando sotto le forche per dar modo al sangue delle vittime, gocciolando, di cadere sui passanti. In parte il sangue bagna anche la terra che forma così un impasto compatto. (…)
SACRIFICI DELLE DONNE DEL RE DEFUNTO. Non conosco molto i dettagli sul numero e il modo di far morre le donne del Re defunto. Durante le cerimonie e i festeggiamenti del 1860, nel primo anniversario della morte del Re Ghezo si sono valutate a circa 800 le donne immolate intorno alla sua tomba. Non sono in grado di affermare se tale numero sia esagerato, in eccesso o in difetto; tutto è possibile. Vengono sacrificate in due modi. A volte sono disposte sdraiate intorno alla tomba, si fa bere loro del veleno ed esse devono morire sul posto, senza muoversi. A volte, sempre sistemate attorno alla tomba, sdraiate, vengono pugnalate al cuore. Devono ancora spirare sul posto. È probabile che vengano lasciate imputridire, che i resti vegano ritirarti dopo un certo tempo, per far posto a nuovi sacrifici. Ne venivano ancora sacrificate dopo un anno dalla morte del Re. Quanto ho scritto sui sacrifici cruenti non è che una goccia d’acqua rispetto al mare. (…)
SACRIFICI ALL’OLIO DI PALMA. (…) Questi ignobili sacrifici, degni di Nerone, consistono nel legare le vittime legandole su delle travi. Non so se vengano fatte morire su di esse o se siano uccise in precedenza. Una volta a posto s’introduce nella loro bocca quanto più olio di palma è possibile, come in una lampada, vi si adatta uno stoppino e lo si accende. La bocca delle vittime viene così utilizzata come una lampada per terminare i festeggiamenti quando si prolungano nella notte. (….)
Padre Francesco Borghero (Ronco Scrivia, 1830-Genova, 1892), missionario nel Dahomey.
Se l’ideologia urta coi fatti, tanto peggio per i fatti
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