ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 10 settembre 2020

Una volta che si è perduta la strada giusta

Concilio Vaticano II / Rinnovamento e continuità. Un contributo di monsignor Pozzo


Cari amici di Duc in altum, nell’ambito del dibattito in corso nel blog sul Concilio Vaticano II, ricevo e volentieri propongo il testo dell’intervento tenuto da monsignor Guido Pozzo presso il Seminario di Wigratzbad della Fraternità sacerdotale San Pietro.

Dal 2013 al 2018 l’arcivescovo Pozzo ho ricoperto l’incarico di segretario della Pontificia commissione Ecclesia Dei, e dal gennaio 2019 è sovrintendente dell’Amministrazione economica della Cappella musicale pontificia “Sistina” e dell’annessa Schola puerorum.
A.M.V.
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Il Concilio Vaticano II: rinnovamento nella continuità con la Tradizione
A cinquant’anni dal suo inizio, il Concilio Vaticano II si colloca all’interno della storia di fede della Chiesa cattolica, in continuità con i Concili che l’hanno preceduto, come un anello di una catena che contribuisce a sviluppare la vita e la dottrina cristiana verso quella méta che solo il Signore della storia e del tempo conosce. Non può mancare, pertanto, l’esigenza di approfondire la chiave ermeneutica del Concilio Vaticano II, considerato che la sua recezione in questi cinquant’anni si è svolta sotto l’influsso di una vulgata, determinata più dal cosiddetto “spirito” del Concilio, che da una attenta lettura e comprensione dei testi conciliari. Lo “spirito” del Concilio è appunto una certa chiave di lettura, che non si fonda sull’intentio docendi del Magistero conciliare, ma sulle posizioni ideologiche di una certa teologia e di una certa pre-comprensione culturale e filosofica che ha accompagnato il contesto dell’assise conciliare e che ha orientato la recezione dei suoi documenti nell’epoca post-conciliare, segnata dal clima della secolarizzazione e del pensiero antropocentrico e storicista. Ecco perché oggi non si può parlare del Concilio Vaticano II e dei suoi insegnamenti senza porre nel medesimo tempo il problema dell’interpretazione, ovvero della giusta e corretta interpretazione del pensiero del Concilio stesso. Merita pertanto una menzione del tutto particolare il discorso alla Curia Romana pronunciato da Benedetto XVI nel dicembre 2005, nel quale, tra gli altri motivi, egli ha scelto di approfondire l’interpretazione del Concilio Vaticano II, in occasione del quarantesimo anniversario della sua conclusione [1].
  1. Ermeneutica della discontinuità ed ermeneutica della riforma nella continuità
La chiave di comprensione di questo discorso sta nella seguente domanda che Benedetto XVI si è posto e ha posto: «Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?… Che cosa è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato?» Benedetto XVI prosegue offrendo anche la risposta a tale quesito: “Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o della sua giusta ermeneutica, della giusta chiave di lettura e di applicazione”. Il motivo della difficoltà della recezione del Concilio è quindi individuato nel fatto che due ermeneutiche o interpretazioni del Concilio si sono trovate a confronto, e anzi hanno convissuto insieme in modo contrapposto. Secondo il Papa emerito, l’una ha causato confusione, l’altra – silenziosamente, ma sempre più visibilmente – ha portato frutti. Come capire e spiegare queste due interpretazioni? Da una parte esiste una interpretazione che Benedetto XVI chiama «ermeneutica della discontinuità e della rottura»; dall’altra parte esiste una interpretazione che viene chiamata «ermeneutica del rinnovamento e della riforma nella continuità».
L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare e presuppone che i testi del Concilio come tali non sarebbero la vera espressione del Concilio, ma il risultato di un compromesso. Occorrerebbe pertanto recuperare lo “spirito” del Concilio, andando avanti, e facendo spazio alle novità. La domanda che però subito sorge è: come definire questo “spirito” del Concilio e quali sono i confini da tratteggiare per sapere quale è la vera intenzionalità del Concilio? In realtà questa ermeneutica presuppone che il Concilio Vaticano II sia stato una specie di Costituente della Chiesa, che avrebbe dovuto rifondare la Chiesa stessa. Al contrario, dice l’attuale Papa emerito, secondo la dottrina di fede cattolica, un Concilio è tale soltanto se rimane nel solco della Tradizione e deve essere letto alla luce dell’intera Tradizione. Anche il Vaticano II è parte della totalità della Tradizione viva della Chiesa. Esso non è una specie di superdogma che toglie importanza a tutto il resto che viene prima, ma è sempre ed essenzialmente una realtà che sta dentro la Tradizione, ma non accanto né tanto meno sopra la Tradizione. Si deve anche aggiungere che tale ermeneutica della rottura è stata sostenuta e agevolata dai gruppi di pressione ideologica dei mass media e da una parte della teologia e degli intellettuali modernisti interni ed esterni al mondo cattolico.
All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma o del rinnovamento nella continuità. Certamente il Concilio Vaticano II non ha voluto semplicemente ripetere materialmente quanto insegnato dalla Tradizione precedente, ma ha segnato uno sviluppo, un approfondimento e una esplicitazione sempre più ampia del patrimonio di fede della Chiesa. Il Concilio rappresenta quindi un momento provvidenziale di crescita dell’intera coscienza della Chiesa, facendo maturare frutti nuovi, in perfetta continuità e fedeltà con la Tradizione. Il Papa emerito riprende testualmente le parole di Giovanni XXIII nell’Allocuzione ben nota in occasione dell’apertura del Vaticano II: “È necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa infatti è il deposito della fede, altra cosa è il modo col quale vengono enunciate le verità, conservando tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (Sanctum Oecumenicum Concilium Vaticanum II, Consitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 865). Benedetto XVI commenta così queste parole: «È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa…il programma proposto da Giovanni XIII era estremamente esigente, come appunto esigente è la sintesi tra fedeltà e dinamica». Ma questo programma «presuppone sempre la trasmissione integra e pura della dottrina, senza attenuazioni né travisamenti».
  1. I nodi fondamentali del Concilio nelle circostanze attuali
Benedetto XVI ha indicato alcuni nodi cruciali che il Concilio ha ritenuto di affrontare e anche ancor oggi si ripresentano in varianti diverse, ma impellenti.
Il primo nodo si riferisce al rapporto tra Chiesa e modernità. Qui si incontra il grande dramma del divorzio tra fede cristiana e cultura moderna.  Il Concilio eredita lo scontro tra la fede della Chiesa con il liberalismo ideologico e con le scienze positive che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà, proponendo di ritenere ormai superflua “l’ipotesi Dio”. Nell’Ottocento sembrava che non fosse possibile nessun accordo tra la fede religiosa e la ragione laica e scientifica. Nel frattempo, però, anche nell’età moderna vi furono interessanti sviluppi. Nel campo politico la rivoluzione americana aveva offerto un modello di stato moderno e liberale ben diverso da quello fortemente ideologico delle tendenze emerse nella Rivoluzione francese. Nel campo scientifico, le scienze naturali cominciavano a riflettere sempre più chiaramente sui loro limiti conoscitivi, riconoscendo di non poter comprendere la totalità della realtà. Nel campo sociale, la dottrina sociale della Chiesa, che si è progressivamente sviluppatasi, era diventata un modello importante distante sia dal liberalismo radicale sia dal marxismo. Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande, che ora attendevano una risposta: innanzitutto occorreva ridefinire in modo nuovo il rapporto tra fede e scienze moderne; in secondo luogo era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno e in terzo luogo era da chiarire il problema della tolleranza religiosa e della libertà religiosa.
Il Concilio ha affrontato questi problemi nella continuità dei principi con la Tradizione della Chiesa, ma in una certa discontinuità nel giudizio sulle situazioni contingenti, proprio perché queste situazioni si erano evolute e quindi non erano più le stesse dei secoli precedenti. È proprio in questo insieme di continuità e novità a livelli differenti che consiste la riforma del Concilio Vaticano II. Bisognava riconoscere che nelle decisioni che la Chiesa ha assunto in passato verso i diversi fenomeni della civiltà moderna, soltanto i principi esprimono l’aspetto permanente. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete che dipendono dalla situazione storica e possono quindi esser soggetti a mutamenti. Le decisioni storiche della Chiesa su situazioni contingenti sono a loro volta esse stesse contingenti.
Tra gli esempi, merita particolare menzione il tema della libertà religiosa, che costituisce un secondo nodo essenziale, anche per le ben note reazioni dei tradizionalisti seguaci di Mons. Lefebvre. Non corrisponde al vero, e sarebbe un segno di quella ermeneutica della rottura che Benedetto XVI respinge, pensare che il Vaticano II con il Decreto sulla libertà religiosa Dignitatis humanae (DH) abbia voluto rinnegare la dottrina del Syllabus di Pio IX. Se infatti la libertà religiosa viene considerata come espressione dell’incapacità dell’uomo di conoscere la Verità e come strumento per canonizzare il relativismo e l’indifferentismo religioso, che sostengono erroneamente che tutte le religioni si equivalgono, poiché ciò che conta sarebbe la credenza soggettiva degli uomini, allora ne consegue che la dottrina sulla libertà religiosa intesa in questo senso è inaccettabile ieri, oggi e sempre. Una cosa totalmente diversa è invece considerare la libertà religiosa come una necessità derivante dalla dignità della persona, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere mai imposta all’uomo dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo con l’esercizio della sua libertà. Il Vaticano II, riconoscendo e facendo suo un principio essenziale dello stato laico moderno (ma non laicista), ha ripreso un aspetto fondamentale del patrimonio della fede della Chiesa fin dal vangelo e dall’antichità cristiana: la professione di fede può essere fatta propria solo con la grazia di Dio nella libertà della coscienza, e mai imposta dallo Stato o dalla società civile. Lo Stato deve invece garantire a tutti la professione della fede e la sua manifestazione pubblica. Nello stesso tempo però il Vaticano II nella Dignitatis humanae riconferma che l’unica vera Religione sussiste nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù affida la missione di comunicarla a tutti gli uomini (DH, n.1), e con ciò nega il relativismo e l’indifferentismo religioso, condannato pure dal Syllabus di Pio IX. Ciò che è cambiato è il giudizio sulle decisioni storiche del passato (non sui principi), anche perché la situazione storica contingente delle società del passato si è evoluta e non è più la stessa dei secoli precedenti. Ciò che DH difende non è la licenza di aderire all’errore né tanto meno il diritto morale di scegliere l’errore in materia religiosa, ma il diritto civile della persona all’immunità dalla coercizione o dall’impedimento in tale materia, entri i debiti limiti stabiliti dall’ordine morale oggettivo e dal bene comune (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2108-2109). Orbene, tale diritto civile della persona non è il diritto condannato dal Syllabus di Pio IX, che invece aveva come oggetto di giudizio il diritto della libertà religiosa inteso dalla Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, nell’epoca della Rivoluzione francese, e che implica una approvazione della diversità delle opzioni religiose in quanto tali. Non c’è quindi alcuna contraddizione a livello dottrinale tra le condanne della libertà religiosa fatte precedentemente dal Magistero e l’affermazione della libertà religiosa fatta dal Vaticano II. Per comprendere tali affermazioni, occorre tenere presente che il significato dell’espressione “libertà religiosa” nell’insegnamento del Magistero prima del Vaticano II è diverso dal significato della medesima espressione usata nei documenti del Vaticano II e del Magistero successivo. Certamente esiste una novità nel Vaticano II rispetto alle affermazioni precedenti del Magistero, in quanto la libertà religiosa dichiarata da DH non era stata prima insegnata espressamente dal Magistero. Questa novità non elimina la continuità dottrinale, perché si tratta di una esplicitazione del contenuto del diritto naturale. La progressiva esplicitazione del contenuto della Rivelazione e della legge naturale è funzione propria del Magistero in ogni tempo. La suddetta continuità dottrinale esige la riaffermazione del quadro integrale della dottrina cattolica sul dovere sociale della religione e sul diritto alla libertà religiosa. Ciò significa quindi che l’insegnamento di DH sulla libertà religiosa deve essere integrato sempre nel contesto globale della dottrina cattolica insegnata dal Magistero costante della Chiesa. Altrimenti si rischia di cadere in una visione parziale e unilaterale, inaccettabile e contraria all’insegnamento cattolico.
In particolare, l’affermazione sulla libertà religiosa, insegnata da DHcioè il diritto all’immunità da coercizione esteriore, entro i giusti limiti, in materia religiosa da parte del potere politico, deve essere accolta insieme alla dottrina del Magistero della Chiesa che condanna il diritto alla libertà religiosa intesa come licenza morale di aderire all’errore (cfr. Leone XIII, Lett. Enc. Libertas) o intesa come un implicito diritto all’errore (cfr. Pio XII, Discorso del 6 dicembre 1953), o a una libertà civile illimitata in materia religiosa o limitata soltanto da un ordine pubblico inteso in senso naturalistico, o a una libertà religiosa senza distinzione. Va anche notato che questa condanna enunciata dal Magistero della Chiesa, specialmente con l’Enciclica di Pio IX Quanta cura e con il Syllabus, si riferiva anche alla concezione presupposta nell’affermazione di quei diritti, cioè il nuovo ordine civile e sociale, fondato sull’indifferentismo e sul relativismo. Il Syllabus condanna pure la proposizione secondo la quale “ogni uomo è libero di abbracciare e di professare la religione che avrà giudicato vera alla luce della sua ragione”[2]. L’approccio soggettivistico alla religione è il fondamento di questa rivendicazione della libertà religiosa, per cui la Chiesa reagisce allo snaturamento e al dissolvimento della vera religione che è quella cristiana. La prospettiva del Concilio Vaticano II nel trattare il diritto alla libertà religiosa è differente. Nel Vaticano II il fondamento della libertà religiosa, come anche della libertà di coscienza, nell’ordine civile e giuridico non è la concezione soggettivistica, agnostica o relativista delle ideologie moderniste, ma è la dignità della persona umana, in quanto essere creato ad immagine di Dio e dotato di intelligenza e volontà. Ciò però deve essere sostenuto insieme con la dottrina cattolica tradizionale secondo cui la ragione non è arbitra del bene e del male, del vero e del falso, e la coscienza non determina la norma morale, ma al contrario la coscienza deve essere rettamente formata dalla verità. Allo stesso modo la nuova prospettiva del Concilio Vaticano II considera una sana laicità dello Stato, intesa non come indifferenza nei confronti della religione, ma come non ingerenza nella sfera delle coscienze e come garanzia dei diritti civili soggettivi delle persone in materia religiosa, entro giusti limiti. Ciò però deve essere sostenuto insieme con l’affermazione della dottrina cattolica tradizionale secondo cui non c’è uguaglianza tra i diritti della vera religione e del vero culto reso a Dio rispetto ai diritti delle altre religioni e degli altri culti. Una cosa è l’affermazione dell’uguaglianza dei diritti delle persone (tesi sostenuta da DH), tutt’altra cosa è l’affermazione dell’uguaglianza dei diritti delle religioni come tali (tesi condannata dal Magistero precedente). Quest’ultimo aspetto invero è taciuto (non negato) nella DH, e quindi dovrebbe essere ripreso ed espressamente riproposto, poiché la stessa DH afferma che essa presuppone la dottrina cattolica insegnata dalla Tradizione e non intende riesporla nella sua interezza.         
Questa disamina circa il tema concreto della libertà religiosa conferma quanto sia indispensabile e impellente procedere ad una ermeneutica corretta dei documenti del Concilio Vaticano II per aiutare a comprendere il significato dei loro contenuti nella linea del rinnovamento nella continuità con la Tradizione. Che interpretare il Concilio e il suo programma di aggiornamento e di rinnovamento ecclesiale secondo una giusta ermeneutica non sia un fatto scontato, anzi costituisca piuttosto un problema cruciale per il mondo cattolico di oggi, ne è prova la situazione piuttosto confusa in cui si trova la teologia, la predicazione e la formazione culturale della coscienza cattolica odierna. A questo riguardo è di interessante rilievo che immediatamente dopo la conclusione del Concilio (1965), la Congregazione per la dottrina della fede ritenne opportuno inviare una lettera circolare ai Presidenti delle Conferenze episcopali[3] circa alcune sentenze ed errori insorgenti sull’interpretazione dei decreti del Concilio Vaticano II, in merito a temi dottrinali fondamentali: la Scrittura e la Tradizione in rapporto alla Rivelazione; l’identità della persona di Cristo; la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia e la dottrina della transustanziazione; il valore sacrificale della Messa; la dottrina sul sacramento della penitenza e alcune interpretazioni erronee e ambigue dell’ecumenismo che favoriscono “un pernicioso irenismo e un indifferentismo del tutto alieno dalla mente del Concilio”. Possiamo quindi concludere affermando che è necessario stabilire la distinzione netta e decisa tra la mens autentica del Concilio Vaticano II e la sua recezione nel modo di presentare, esporre interpretare i documenti conciliari da parte di una certa vulgata, diffusa da teologi, mezzi di informazione, pubblicistica cattolica ecc., all’insegna di una frattura e rottura con la Tradizione e gli insegnamenti del Magistero precedente. Altrimenti, non sarebbero stati necessari i reiterati interventi del Magistero dei Pontefici a denuncia di tale operazione di rottura, per riaffermare invece il principio del rinnovamento nella continuità.    
  1. Il Concilio Vaticano II: Concilio pastorale?
In una conferenza tenuta all’episcopato cileno nel 1988, l’allora Cardinale J. Ratzinger si esprimeva così a proposito del Concilio Vaticano II, della sua natura e della sua recezione: «Da alcune descrizioni, si ha l’impressione che dopo il Vaticano II tutto sia cambiato e che tutto lo sia solo alla luce del Vaticano II. Il Vaticano II non viene trattato come parte di tutta una tradizione vivente della Chiesa, ma quasi come fine della tradizione e come un inizio totalmente nuovo. Sebbene esso non abbia emanato alcun dogma e abbia voluto considerarsi più modestamente al rango di un Concilio pastorale, alcuni lo rappresentano come se fosse per così dire il super-dogma, che rende irrilevante tutto il resto. Questa impressione è rafforzata specialmente dalle procedure adottate. Quello che prima era quanto di più sacro, la forma tramandata della liturgia, appare improvvisamente come quanto di più proibito, quanto di certo va respinto. La critica ai provvedimenti moderni dell’epoca postconciliare non è tollerata, ma laddove sono in gioco le antiche, grandi verità della fede, come ad esempio la verginità corporale della Vergine Maria, la Resurrezione corporale di Gesù, l’immortalità dell’anima e così via, le reazioni o non vi sono affatto o sono estremamente attenuate […]. Di fronte a tutto questo ci domandiamo se poi la Chiesa di oggi sia ancora la Chiesa di ieri, oppure se sotto di essa non sia stata fatta scivolare un’altra Chiesa, senza nemmeno chiederglielo. Possiamo rendere il Vaticano II davvero degno di fede, soltanto se lo rappresentiamo con molta chiarezza così come è: una parte di un tutto e della tradizione della Chiesa e della sua fede»[4].
La questione della natura e finalità del Concilio Vaticano II è una questione che si pose già all’interno dell’assise conciliare, ma sembra tuttora non essere del tutto risolta, anche perché nei documenti del Concilio non si trova una definizione precisa del termine “pastorale”. Possiamo comunque constatare che anche dopo questi cinquant’anni la discussione sul carattere pastorale e/o dottrinale del Concilio Vaticano II lascia ancora delle ombre da dissipare. Possiamo, a mio modo di vedere, con il rischio di semplificare troppo, distinguere due posizioni, entrambe unilaterali e sostanzialmente fuorvianti:
a) La posizione massimalista, che fa del Concilio Vaticano II una specie di meta-concilio o superdogma pastorale, secondo cui la pastoralità sarebbe il principio che sostituisce e relativizza la dottrina e il dogma cattolico della Tradizione. In questo modo, la strada verso il pluralismo indiscriminato e il relativismo e soggettivismo dottrinale è inevitabile e comporta l’autodissoluzione e l’autodemolizione della Chiesa stessa.
b) La posizione minimalista, che sostiene che il Vaticano II è soltanto un Concilio pastorale, non distinguendo la finalità ultima, che è pastorale, e la materia trattata nei singoli Documenti, nei quali vi sono sia testi di carattere dottrinale sia testi di carattere pratico-pastorale. Separando il Magistero passato, che sarebbe dottrinale, dal Magistero presente, che sarebbe pastorale, si introduce di fatto una spaccatura e una divisione nel Magistero stesso, e rimane irrisolta la domanda su quale sia l’istanza che può decidere se l’attuale insegnamento del Magistero è coerente con il precedente insegnamento del Magistero; in altri termini: qual è l’istanza che giudica in modo decisivo sulla continuità del Magistero vivente (presente) con il Magistero passato, non solo dal punto di vista del soggetto, ma anche dal punto di vista dell’oggetto, cioè della res de fide et moribus ?
Rifiutando entrambe le posizioni, cerchiamo di presentare una riflessione che sia coerente con il dato oggettivo del Concilio Vaticano II. Esso espressamente non ha voluto proporre nuove definizioni dogmatiche, ma ha voluto proporre un magistero a carattere prevalentemente pastorale (cf. Discorso di Giovanni XXIII per l’inaugurazione del Concilio, 1962); ciò però non significa che nei suoi documenti non vi sia anche un’esposizione dottrinale in materia di fede e morale. Nei documenti del Concilio Vaticano II vi sono numerosi testi dottrinali, che richiedono l’ossequio interiore dell’intelletto e della volontà (cf. Lumen gentium, 25), e testi di carattere pratico-pastorale, che richiedono un’adesione rispettosa e anche dal punto di vista disciplinare vincolante, ma non necessariamente un ossequio interiore dell’intelletto e della volontà. Da queste premesse derivano alcune conseguenze fondamentali.
“Pastorale” nella coscienza acquisita della Chiesa significa applicazione della dottrina all’azione pratica della Chiesa. La pastorale riguarda l’applicazione della dottrina alla prassi conformemente alle esigenze dei tempi e delle circostanze storiche contingenti.
La differenza tra le affermazioni dottrinali e le affermazioni orientate all’agire concreto conforme ai tempi è sostanziale, poiché le seconde si fondano sulle prime e non possono mai mettersi in contrasto con queste, se realmente si vuole edificare una pastorale cattolica. La pastorale presuppone la dottrina e deve rimanere fedele alla dottrina. La pastorale non può inventare la dottrina. La pastorale, però, può indicare un rinnovamento della prassi cattolica, adattando i modi di presentazione della medesima dottrina alle nuove circostanze storiche (eodem sensu et eademque sententia). In tal senso il Concilio propone una rinnovata prassi pastorale, a motivo del cambiamento delle circostanze storiche e temporali. I principi dottrinali rimangono immutati e permanenti (pur con le esplicitazioni e gli approfondimenti dovuti allo sviluppo omogeneo della dottrina cattolica), ma le applicazioni pastorali sono contingenti, poiché contingente è sempre la situazione storica in cui si incarna il messaggio cristiano.
La pastorale può legittimamente porre nuove domande o nuove istanze alla dottrina, ma non può mutare la dottrina. Il rovesciamento dell’ordine per cui una nuova pastorale diventa criterio e misura di una nuova dottrina è inaccettabile.
In conclusione, possiamo indicare sommariamente i seguenti principi di interpretazione dei documenti del Concilio Vaticano II:
1) Nelle Costituzioni dogmatiche (Lumen gentium e Dei verbum) viene esposta la dottrina della Chiesa cattolica, sia (a) riproponendo definizioni dogmatiche che erano state già precedentemente enunciate dal magistero infallibile, sia (b) insegnando dottrine cattoliche certe, e quindi non più oggetto di discussione teologica (come ad esempio quando si afferma esplicitamente la sacramentalità dell’episcopato come pienezza del sacramento dell’Ordine), sia (c) proponendo insegnamenti autentici che richiedono l’ossequio dell’intelletto e della volontà, anche se non si esige un’adesione di fede o un assenso incondizionato, dato che non si tratta di dottrine proposte come divinamente rivelate né con atto definitivo.
2) Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, nei Decreti e nelle Dichiarazioni talvolta sono presenti insegnamenti dottrinali, ma per lo più sono proposte indicazioni o orientamenti sull’agire pratico, cioè indicazioni, esortazioni e direttive pastorali come applicazione della dottrina, tenendo presenti le circostanze del momento odierno. Nei riguardi di questi orientamenti o indicazioni pastorali, occorre manifestare una adesione sincera, una rispettosa accoglienza, ma non si può escludere che il linguaggio usato, a motivo del fatto che non è dogmatico né definitorio, ma piuttosto esplicativo, didattico, espositivo e argomentativo, possa esporsi a interpretazioni unilaterali o parziali o riduttive del messaggio espresso. In questo contesto è legittimo che tali insegnamenti o direttive possano essere oggetto di ulteriore studio o discussione critica in vista di una precisazione o di un chiarimento o di una spiegazione più completa, ma significa che tali insegnamenti debbono essere rettamente interpretati sub ductu Magisterii, per evitare ambiguità o malintesi che si possono verificare, e di fatto si sono verificati, nell’epoca conciliare e fino ai nostri giorni.  Occorrerà comunque, in tale studio o discussione, applicare alcuni criteri ermeneutici basilari del pensiero cattolico, e cioè che (a) le singole affermazioni devono essere considerate nell’unità globale dell’insegnamento del Concilio; (b) gli insegnamenti del Concilio devono essere letti nella luce della intera Tradizione e del Magistero costante della Chiesa; (c) le singole affermazioni devono essere sempre comprese nel legame interiore con l’integrità e la globalità della dottrina della fede cattolica, nel presupposto che gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, così come di ogni altro Concilio, non sono il tutto, ma sono parte di un tutto, cioè della totalità indivisibile della fede cattolica. Soltanto se ci muove in questa linea, a mio avviso, si eviteranno ambiguità, equivoci, errori, deviazioni, che purtroppo oggi sono ancora molto diffusi, dal retto cammino ecclesiale. Ricordiamo il detto di San Girolamo: «Se ci si allontana dalla retta via, poco importa se si va a destra o a sinistra, una volta che si è perduta la strada giusta».
Mons. Guido Pozzo
Arcivescovo titolare di Bagnoregio
[1] Benedetto XVI, Ad Romanam Curiam ob omina natalicia, 22 dicembre 2005, in AAS 98 [2006], pp.40-53.
[2] Pio IX, Syllabus, n. 15: Denz-Sch 2915.
[3] Sacra Congregatio pro Doctrina Fidei, Epistula ad Venerabiles Praesules Conferentiarum Episcopalium, in AAS 58 (1966), pp. 659-661.
[4] J. Ratzinger, Unità nella Tradizione della fede, Allocuzione ai Vescovi del Cile, 13 luglio 1988, in “Cuaderno Humanitas”, Santiago, dicembre 2008, n. 20, p. 38.
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