Una riflessione di Giulio Meiattini, teologo, monaco presso l’abbazia della Madonna della Scala di Noci (Ba).
di Giulio Meiattini
In un mio intervento del 9 marzo scorso, apparso su questo medesimo blog, dichiaravo in apertura di entrare con qualche esitazione nel dibattito intorno alla diffusione del nuovo virus, vista la già confusa polemica innescatasi appena due settimane dopo i primi casi registrati in Italia. Scrivevo, allora, che l’eccesso di paura e la volontà di autoassicurazione del presente, che conduceva a un blocco impressionante della vita sociale ed economica, poteva portare a “perdere tutto” in futuro. Quello che posso fare in più, adesso, è aggiungere qualche riflessione, per mostrare come lo scenario stia cambiando, dimostrando che quelle mie previsioni non erano sbagliate. Lo faccio come semplice cittadino, come persona credente che, secondo la nota parola evangelica, cerca di scrutare i segni dei tempi, per orientarsi ed eventualmente orientare.
Cosa sta accadendo di nuovo, in questa fase autunnale della gestione della diffusione virale? A differenza della docile e pressoché unanime obbedienza alle disposizioni governative nel periodo di marzo-aprile scorsi, durante l’estate e adesso, all’inizio del nuovo anno sociale, si sono avute e si stanno avendo delle reazioni popolari significative alle misure restrittive che di nuovo si assumono nel nostro paese e in altre nazioni. La grande manifestazione pacifica del 29 agosto a Berlino è stata forse lo spartiacque simbolico di un cambiamento all’interno dell’opinione pubblica. Si è preso gradualmente coscienza dell’univocità e non completa affidabilità dell’informazione ufficiale riguardo all’entità dell’epidemia e della letalità della malattia, si è compresa la sproporzione di certe misure cautelative rispetto al reale pericolo, si sono visti i danni economici incalcolabili che i lockdown più o meno prolungati e severi hanno prodotto nei paesi colpiti e nell’economia mondiale, danni che le fasce più deboli della popolazione stanno già pagando, con un incremento di 600.000 disoccupati solo in Italia in appena sei mesi e del 45% in più di nuovi poveri che si presentano attualmente ai centri Caritas del nostro paese per la prima volta. Questo non fa certo bene alla salute dei cittadini!
Le manifestazioni spontanee e imponenti di migliaia di persone in questi ultimi giorni lungo le strade di tantissime città italiane contro l’irragionevole disposizione del “coprifuoco” (si valuti bene la parola usata!) e altre misure analoghe, si aggiungono alle affollate proteste a Zurigo, a Londra, a Bratislava, in Israele, in Australia e in numerosi altri paesi del mondo ormai da settimane. Segno di una esasperazione che vuole evitare di giungere alla disperazione. Tutto questo dimostra che qualcosa è cambiato. L’istinto popolare, coadiuvato dalle reti informative alternative, percepisce che troppe cose nella narrazione main stream riguardante l’epidemia non tornano e, soprattutto, che le disposizioni di ulteriori chiusure danneggerebbero così gravemente il sistema economico e la vita sociale, che la cura sarebbe peggiore della malattia.
Chi ancora si uniforma totalmente alla versione ufficiale dei fatti, e si assoggetta di buon grado alle limitazioni suggerite da comitati e governi, è quella fascia di popolazione che si abbevera alla TV nazionale, applica acriticamente protocolli sanitari e, soprattutto, che non vede ancora a rischio lo stipendio mensile. Come giustamente ha affermato di recente in televisione Massimo Cacciari, non possiamo andare avanti pensando che esista solo il Covid, perché ci si può ammalare anche di disperazione, molto più che di malattie virali. Chiudere le scuole ancora per quest’anno, significherebbe compromettere la serietà del percorso di studi di una generazione intera, con ripercussioni serie da qui a dieci o vent’anni; impedire ai commercianti e agli esercenti di lavorare, anche solo per un mese o due, significherebbe condannare al fallimento migliaia di attività, interrompendo in modo traumatico anelli insostituibili nella catena degli scambi e del rapporto produttori-consumatori. L’effetto domino sarebbe devastante per tutti.
Le proteste menzionate sono un indice importante e globale a cui guardare con attenzione. Esse stanno a significare, innanzitutto, che le persone finalmente sono disposte a rischiare, che per salvare il futuro, non solo del proprio lavoro, ma dell’economia del proprio paese, è ragionevole accettare una percentuale di rischio, perché rintanarsi in casa per stare al sicuro ora, significherebbe non avere né casa né pane domani. Non sono segnali di incoscienza collettiva, di superficialità, di “negazionismo”, di anarchia, ma di senso di responsabilità verso la propria famiglia e la collettività. Segno anche di un implicito e sensato ragionamento: meglio un “pericolo probabile” e circoscritto adesso, alla “certezza della rovina” di una società intera in un futuro non lontano.
La società dei nostri padri o nonni, che hanno vissuto a fine anni ’50 la famosa epidemia chiamata “asiatica”, è un metro di confronto molto istruttivo in proposito. Quel virus produsse, secondo dati comunemente condivisi, trentamila morti solo in Italia e circa due milioni in tutto il mondo (queste le stime dell’OMS). I più vecchi oggi la ricordano. La vita però continuò regolarmente, nel lavoro e nella scuola, senza distanziamenti e senza coprifuochi di alcun genere. Era forse una società di incoscienti e irresponsabili? Tutt’altro! Semplicemente gli adulti e gli anziani di allora avevano visto concludersi da poco la seconda guerra mondiale, avevano provato la fame, molti di loro avevano partecipato alla resistenza a loro rischio e pericolo o avevano combattuto al fronte, le condizioni di vita non erano ancora così confortevoli come quelle che sarebbero sopravvenute con gli anni del boom economico, la vita era dura e l’alta mortalità infantile un ricordo ancora fresco. Questa società di adulti (e non di sempiterni adolescenti) aveva ancora una familiarità con la precarietà della vita, con la sofferenza e con la morte. Non era ancora permeata dall’utopia della “sicurezza e salute innanzitutto”. Per questo non si spaventò di quell’episodio epidemico, ma lo sfidò con naturalezza e compostezza, quasi noncuranza, attraversando il dolore e il lutto a testa alta. Le cronache del tempo ne fanno menzione con laconicità, i giornali e la neonata televisione ne davano sobrie ed essenziali notizie. Nessun panico, nessun lockdown, nessun martellamento mediatico, nessuna corsa ai pronti soccorsi per sintomi incerti. In compenso si veniva curati a casa da medici che meritavano questo nome e che non mettevano nessuna mascherina.
Allora possiamo dire che il vero problema non è la mutazione dell’epidemia, ma la mutazione antropologica intervenuta nel frattempo, non è tanto il virus che è più forte, ma noi che ci siamo dimostrati più deboli, nutrendo una paura sproporzionata, anche perché astutamente indotta, come autorevoli osservatori, medici, giornalisti e intellettuali hanno detto e continuano a dire in sempre maggior numero.
Le proteste che si moltiplicano sono perciò un segnale di salute, è la febbre di un organismo ancora vivo che reagisce alla malattia (che non è il covid). Esse dicono di un ritorno di coraggio. Lavoratori, imprese, commercianti, famiglie, sono disposti ad affrontare il rischio, per garantire il futuro loro e dei figli. Essi guardano al domani, e non solo ad assicurarsi il presente (che sfugge anch’esso di mano). Sanno, in qualche modo, che chi vuol salvare tutto e a tutti i costi oggi, senza una qualche scommessa e qualche rischio, è destinato a perdere tutto. Un coraggio che nasce, forse un po’ in ritardo, perché metodi di sicurezza troppo drastici e scientificamente discutibili porterebbero non alla salute ma alla disperazione.
Ancora una volta qui si dà a vedere la parte di verità contenuta nella concezione dialettica della storia: una posizione in sé legittima e vera, se portata all’estremo si trasforma alla fine nella sua negazione. Lo descrivevano, in modo magistrale, Adorno ed Horkheimer nella loro Dialettica dell’illuminismo, evidenziando che l’assolutizzazione della ragione moderna era sfociata nell’arbitrio irrazionale del totalitarismo novecentesco. Lo vediamo anche oggi, in tempi più brevi, quando l’estremizzazione della sicurezza-salute come unico parametro (conservare la nuda vita), si rovescia nella disperazione per la sopravvivenza, e la tesi del diritto assoluto alla salute trapassa nell’antitesi della condanna alla miseria che porta con sé ogni malattia. Queste le contraddizioni della “società sanitaria”, della quale I. Illich segnalava in anticipo i pericoli totalitari nel suo celebre Nemesi medica, mezzo secolo fa.
In fondo, a ben pensare, ci dovremmo tutti accorgere anche della profonda ipocrisia che si nasconde nell’epidemia mentale da covid-19. Perché questi investimenti colossali e questa frenesia per la salute collettiva, quando nell’indifferenza mondiale ogni anno – e non solo nel 2020 – milioni di persone nel mondo muoiono di fame? Si può dunque morire di fame a milioni ogni anno, senza che un telegiornale ne dia notizia e senza che danarosi filantropi pensino a nutrire queste folle di disperati, mentre invece investono su dubbi vaccini. Ma le terapie intensive dei paesi occidentalizzati che si riempiono, queste sì che fanno notizia e sono degne di attenzione ossessiva. Peccato che su questo fenomeno assurdo di egoismo sociale così lampante non si sia soffermata la recente enciclica di Francesco.
Questa è la consapevolezza che comincia a farsi strada e di cui le proteste menzionate sono espressione: la miseria è peggio del covid. Perché il vaccino te lo daranno (anzi, forse te lo imporranno per fare affari), ma il lavoro e il pane (e con essi la libertà) chi te li ridarà?
In piazza contro gli infami
Le proteste in tutta Italia ci dicono principalmente due cose:
La prima del tutto evidente è che Gli italiani si sono stancati di provvedimenti liberticidi senza una logica che ammazzano interi settori dell'economia. I cittadini sono stati obbligati a scegliere tra la paura di un virus di gran lunga più famoso che letale e il non riuscire più a portare a casa il pane.
La reazione è stata immediata, del tutto naturale e pienamente condivisibile.
Vox Italia Tv
Da un articolo pubblicato sul sito del Centro Studi Livatino.
Nella seduta di ieri dedicata al testo unificato Zan sull’omotransfobia, la Camera ha approvato l’emendamento 01.0401 a firma dei deputati Annibali (Italia viva), Bazoli (PD), Conte (Leu), Giuliano (M5S), Bartolozzi (Forza Italia). Come è noto, il t.u. modifica gli art. 604-bis e 604-ter del codice penale, ed estende le fattispecie di reato e l’aggravante ivi previste, aggiungendo alle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi anche gli atti discriminatori fondati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. Si tratta di categorie nuove: perfino la Commissione affari costituzionali ne ha rilevato l’indeterminatezza e la genericità, incompatibili con le caratteristiche di tassatività che deve avere una norma penale.
L’emendamento approvato ne fornisce le “definizioni”. Spiega che “ai fini della presente legge: a) per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico; b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso; c) per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; d) per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”.
Meritano di entrare nella storia del diritto i deputati che hanno proposto e votato una norma nella quale l’applicazione di sanzioni penali fino a 6 anni di reclusione, con la possibile attivazione durante le indagini di intercettazioni e misure cautelari, dipendano dall’interpretazione che p.m. e giudici daranno a espressioni come “aspettative sociali connesse al sesso” o “identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere”.
Merita di entrare nella storia un Parlamento che, mentre l’Italia è ripiombata nella pandemia, le sue piazze vanno a fuoco, e l’economia è al collasso, contingenta i tempi e concentra le energie per inserire nell’ordinamento penale l’attenzione ai “percorsi di transizione” (sessuali o di genere).
È arduo trovare aggettivi: sarebbero tutti inadeguati.
Roma, 28 ottobre 2020
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