L’ANALISI/4
Sulla rugiada e la traduzione delle preghiere eucaristiche
L’introduzione di nuove preghiere eucaristiche, oltre al Canone romano, risale alla riforma postconciliare, con cui sono state superate le norme sul silenzio e il latino. Le revisioni delle PE nel Messale italiano 2020 sono in gran parte felici e più fedeli all’originale latino. Il termine “rugiada” nella PE 2 è divenuto motivo di discordia, ma ha il suo fondamento nelle Sacre Scritture e nella tradizione.
Il Messale del 1962, l’ultimo “prima del Concilio”, prevedeva il Canone o Preghiera Eucaristica (da ora in avanti: PE) in lingua latina e annotava che dopo il Sanctus il sacerdote “dicit secreto”, cioè pronunciava sottovoce le parole e dunque non era udito dal popolo.
Il Canone non era in origine sottovoce e un sermone dell’epoca di sant’Agostino, rivolgendosi ai ragazzi, nomina «quelle cose che accadono nelle sante preghiere che voi siete prossimi a udire, e cioè il fatto che (gli elementi) attraverso la parola diventano il Corpo e il Sangue di Cristo» (PL 46,836). Un secolo dopo, il 26 marzo 565, l’imperatore Giustiniano ordina che vescovi e preti pronuncino le parole della PE «non in segreto, ma con una voce tale che possa essere udita dal popolo fedelissimo» (Righetti, Storia liturgica III, p. 346). La disposizione testimonia che si stava diffondendo proprio ciò che si intendeva evitare. Il silenzio nella PE cominciava ad affermarsi sino ad imporsi del tutto con gli albori del Medioevo.
Ad oggi le Premesse del Messale “dopo il Concilio” spiegano che «tra le parti proprie del sacerdote, occupa il primo posto la PE, culmine di tutta la celebrazione» e le parole presidenziali vanno proferite «a voce alta e chiara» di modo che «siano ascoltate da tutti» (OGMR 30.32). Dunque si è prodotto un ribaltamento e sono cadute due barriere: il silenzio e la lingua latina. Da qui l’esigenza di tradurre la PE e di rivedere le traduzioni.
UN PERCORSO TORTUOSO
La prima “nuova Messa” del 7 marzo 1964 prevedeva ancora la PE in latino, tuttavia il nuovo contesto al cui interno era pronunciata innescò l’avvio a due impulsi di cambiamento.
Il primo fu di tradurre la PE nella lingua parlata. Scrive Annibale Bugnini, l’indiscusso (e amato e odiato) regista delle prime fasi della riforma postconciliare: «Se tutta la Messa si fosse celebrata nella lingua materna e il Canone fosse restato in latino, sarebbe stato come spalancare all’ospite tutte le porte di casa, ma chiudergli il cuore. Nel cuore c’è la vita; nel Canone, il mistero» (La Riforma liturgica, CLV Ed. liturgiche, Roma 1997, p. 121).
Il secondo impulso di cambiamento fu di comporre altre PE. Si tentò di riordinare il testo del Canone romano, ma il 20 giugno 1966 Paolo VI stabilì: «Si lasci immutata l’anafora attuale; si compongano o si cerchino due o tre anafore da usarsi in particolari determinati tempi» (ivi, p. 444). La strada era aperta e si arrivò ad altre tre PE, promulgate con il Decreto Prece eucharistica del 23 maggio 1968 (EV 3/420-421) con possibilità di essere usate dal 15 agosto 1968.
Poiché il movimento verso la composizione di ulteriori PE cresceva e in modo selvaggio, la Sacra Congregazione per il culto divino, con la Lettera Eucharistiae participationem del 27 aprile 1973, stabilì: «Non è sembrato conveniente in questo momento concedere alle conferenze episcopali la facoltà generale di far comporre o di approvare nuove PE» (nn. 5.6: EV 4/2482). Ma il divieto era “per il momento” e si garantiva che la Sede Apostolica «non rifiuterà di considerare le richieste legittime [delle conferenze episcopali] e [le] giudicherà benevolmente» (EV 4/2483): il muro nasceva già con delle brecce e ci si domanda se si trattò di un atto di buon governo.
In seguito per l’Anno Santo 1975, con le Norme Postquam de precibus dell’1 novembre 1974 (EV 5/626-632), furono promulgate due PE per la riconciliazione ad experimentum per tre anni (EV 5/629), poi divenute stabili, e, alla stessa data, tre PE per le Messe con i fanciulli (EV 5/633-657). Arrivarono anche le PE per un Sinodo svizzero: il primo avvio di redazione si ebbe nel 1972; dal 1974 in poi molte aree linguistiche chiesero di adottarle e fu loro concesso (la concessione per l’Italia è del 5 gennaio 1980); i testi furono poi tradotti in latino come edizione tipica approvata con il Decreto Prex eucharistica del 6 agosto 1991 (EV 13/435-446).
Così il Messale latino in vigore (2000) ha quattro grandi PE, due PE per la riconciliazione e quattro formulari delle già PE svizzere (le PE per i fanciulli si sono felicemente perse per strada). È da qui che sono partiti gli addetti ai lavori per il Messale italiano 2020.
UN RITOCCO DI FONDO ALLE PREGHIERE EUCARISTICHE SVIZZERE
La già PE svizzera è ora PE per le Messe “Per varie necessità” (pp. 497-513), un formulario unico differenziato in quattro Prefazi iniziali e in quattro diversi testi per le intercessioni finali.
Sino a ieri la richiesta al Padre di mandare lo Spirito Santo sul pane e sul vino era «perché il tuo Figlio sia presente in mezzo a noi con il suo Corpo e il suo Sangue»; oggi invece è per «santificare il pane e il vino perché questi doni diventino per noi il Corpo e il Sangue del Signore nostro Gesù Cristo». La modifica risale alla Santa Sede, che ha corretto il testo iniziale esplicitando la trasformazione dei doni - “diventino/fiant” - e mettendo in luce la transustanziazione che latitava nel testo originale, pure approvato e usato sino a ieri. Deo gratias, ma viene da domandarsi come mai il testo primitivo fu approvato così in fretta e usato per anni.
MOLTI RITOCCHI FELICI
I ritocchi in conseguenza della revisione della traduzione delle PE nel Messale italiano 2020 sono numerosi e per lo più positivi in quanto anche nelle sfumature riportano il testo italiano più vicino all’originale latino. Un lavoro buono e costruttivo, di cui bisogna dare atto a chi ci ha messo mano. Ecco di seguito qualche esempio scelto fra tanti.
Nel Prefazio della PE 4, Dio è nel regno non più “di luce infinita”, ma «di luce inaccessibile» e viene ampliato secondo l’originale il fatto che noi, «voce di ogni creatura che è sotto il cielo, confessiamo il tuo nome ed esultanti cantiamo».
Nelle PE 2 e 3, la ripresa dopo il Santo, da “Padre veramente santo” è diventata «Veramente santo sei tu, o Padre», ristabilendo così il legame tra il Prefazio e quanto lo segue.
Nella formula consacratoria delle PE 1, 2 e 3, la sequenza non è più “Dopo la cena, allo stesso modo” Gesù prese il calice, ma, sul calco del latino: «Allo stesso modo, dopo aver cenato»; anche la PE 4 è stata ricondotta a questa formula, ma perdendo qualcosa dell’originale. Gesù non “si consegnò volontariamente alla morte”, ma «consegnò se stesso alla morte» (PE 4) e similmente nella PE 2 “offrendosi liberamente alla sua passione” è diventato «consegnandosi volontariamente alla passione».
“Il memoriale del tuo Figlio, morto per la nostra salvezza” è diventato «il memoriale della passione redentrice del tuo Figlio» (PE 3), Figlio non più “dilettissimo” ma «amatissimo» (PE 2). Noi che celebriamo questo mistero siamo un popolo radunato non “da un confine all’altro della terra”, ma «dall’oriente all’occidente» (PE 3), espressione più vicina al latino «a solis ortu usque ad occasum». E perché non tradurre “dal sorgere del sole al suo tramonto”?
Nella PE 1, la richiesta di “accettare questi doni, di benedire queste offerte” viene meglio formulata con «accettare e benedire questi doni, queste offerte». I “presenti” di “Ricordati di tutti i presenti” diventano, con più fedeltà al latino “omnium circumstantium”, «tutti coloro che sono qui riuniti»; infine “tutti i santi” sono resi come l’originale: «tutti i tuoi santi».
Ma ahimè, nelle PE 2, 3 e 4 l’originale latino prega per l’ordine episcopale e per “universo clero / totius cleri” e “clero” era scandalosamente rimasto nel Messale 1983 (PE 3 e 4). Ora la revisione rende “clero” con «i presbiteri e i diaconi», evitando così una parola odiosa, scappatella che volentieri si perdona per la bellissima correzione nella PE 4 dove “coloro che mangeranno/berranno il pane e il calice” sono diventati, come il latino “qui ex uno pane participabunt et calice”, «tutti coloro che parteciperanno a quest’unico pane e a quest’unico calice».
LA RUGIADA DELLA DISCORDIA
Nella PE 2 la richiesta al Padre: “Santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito” è diventata: «Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito», traduzione letterale di: «Haec ergo dona, quaesumus, Spiritus tui rore sanctifica».
Sebbene l’espressione latina figuri nel Messale dal 1968, ora, tradotta per la prima volta alla lettera, è stata percepita da alcuni come linguaggio strano e irrispettoso e in altri ha destato sospetti di allusioni alla Massoneria o alla galassia New Age.
La questione è sottile. La nuova PE 2 assume, con qualche adattamento, un testo della Tradizione Apostolica di sant’Ippolito del 215 circa, che prima delle parole dell’istituzione non ha l’epiclesi, cioè la richiesta al Padre di inviare lo Spirito a consacrare/trasformare i doni. Bisognava provvedere a un’epiclesi nuova e i redattori, per esplicita ammissione, si sono ispirati a «un’epiclesi consacratoria del Missale Gothicum gallicano (sec. VII/VIII) e nella Liturgia ispanica antica» (V. Raffa, Liturgia eucaristica. CLV Ed. liturgiche, Roma 2003, p. 729); lì si chiede a Dio che effonda la rugiada del suo Spirito: «et Spiritus Sancti tui rore perfundas». E anche la tradizione italica nel Sacramentario Veronense chiede a Dio di infondere sui fedeli «la rugiada della tua benedizione/rorem tuae benedictionis infunde» (mense julio XL n. 642).
È vero, le immagini dello Spirito sono il vento, il fuoco e la colomba, ma Gesù parla di «fiumi di acqua viva» che sgorgheranno da chi crede in Lui e che sono il dono dello Spirito Santo (Gv 7,37-39). Dunque, se lo Spirito è anche acqua, perché non può essere rugiada? Che autori antichi siano ricorsi a questo termine, si spiega con il contesto agricolo, che percepiva la rugiada come benefica, sostitutiva della pioggia e generatrice di fecondità. Ne parla l’Antico Testamento, dove la rugiada è la benedizione di Isacco a Giacobbe (Gen 27,28); il fluire delle parole di Mosè (Dt 32,2); l’immagine della generazione del Messia (Sal 110,3), del resto di Giacobbe (Mi 5,6) e della tenerezza di Dio (Os 14,6); addirittura «rugiada luminosa» (Is 26,19).
In conclusione, anche se è legittimo valutare che i redattori avrebbero fatto meglio a non rimettere in circolo questa immagine, non c’è nessun equivoco o cedimento. Si tratta solo di riacquisire un’immagine che la civiltà urbana ci ha fatto perdere, ricordando che ancora oggi molti oranti usano il testo della sequenza Veni Sancte Spiritus, dove è scritto: «Lava quod est sordidum, riga quod est aridum / Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido». Lì nessuno protesta: perché protestare per la rugiada? Attenzione: difendere la tradizione con ragioni insostenibili danneggia la tradizione!
Riccardo Barile
https://lanuovabq.it/it/sulla-rugiada-e-la-traduzione-delle-preghiere-eucaristiche
Caliari: Neanche il Gloria si Salva dal Religiously Correct della CEI.
4 Dicembre 2020 2 Commenti
Marco Tosatti
Cari Stilumcuriali, Gian Pietro Caliari ha rivolto la sua attenzione alla versione rivista – ahimè – del Gloria, e ci ha offerto questo piccolo saggio, di cui lo ringraziamo veramente di cuore. Buona lettura.
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Vide, o homo, quid pro te factus est Deus:
doctrinam tantae humilitatis agnosce.
di Gian Pietro Caliari
In un Natale di molti secoli fa, il Vescovo d’Ippona, Sant’Agostino così esortava i suoi fedeli, ma non solo: “Vide, o homo, quid pro te factus est Deus: doctrinam tantae humilitatis agnosce”.
“Osserva, uomo, che cosa è diventato per te Dio: sappi accogliere l’insegnamento di tanta umiltà” (Sermo 188, In Natali Domini, III, 3).
E si chiedeva ancora: “Quali lodi potremo dunque cantare all’amore di Dio, quali grazie potremo rendere? (Ibidem, I, 2).
Non c’è alcun dubbio che ogni volta che, nelle liturgie cattoliche, risuona il Gloria in excelsis Deo non sia evocato il Mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, dove la Maestà Divina si svela nell’Agnello immolato che “è degno di ricevere la gloria, l’onore e la potenza” (Apocalisse 4, 11).
Il suo incipit, infatti, riproduce lo stesso annuncio angelico che risuonò alla nascita di Gesù Cristo quando una schiera angelica lo proferì a un gruppo di pastori “presi da grande spavento” per quello che stavano vedendo ed era stato loro appena annunciato: “E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis” (Luca 2, 13-14).
Il Gloria in excelsis Deo, proprio per questo, è noto anche come Laus Angelorum(Lode degli Angeli) o Grande Dossologia, che esprime con precisa potenza teologica e letteraria ciò che i Padri Conciliari al Vaticano II intendevano dover essere la liturgia cattolica: “Nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo; insieme con tutte le schiere delle milizie celesti cantiamo al Signore l’inno di gloria” (Sacrosantum Concilium, 8).
Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto il Giovane, scrivendo all’imperatore Traiano, nella seconda metà del I secolo d.C., descrive che i cristiani “essent soliti die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere – erano soliti radunarsi ogni giorno prima dell’alba e dire un inno a Cristo quasi – fosse – un dio” (Litterae X, 97).
Plinio il Giovane nulla scrive di preciso su quello che dicessero o cantassero i primi cristiani, ma nella liturgia bizantina verso il termine dell’Ὀρθρός (orfròs), l’ufficio che i monaci cantano prima dell’alba, troviamo un Inno, che echeggia ampiamente il Gloria latino e che è introdotto da questo versetto: “Δόξα σοι τῷ δείξαντι τὸ φῶς” (Dòxa soi tò deìxanti tò fòs); “Gloria a te che ci mostrasti la luce”.
Il Liber Pontificalis riporta come ottavo successore dell’Apostolo Pietro il nome di San Telesforo. Si tratta di una Papa di origine greca (natione Grecus) e che era stato anche monaco (ex anachorita) e che durante il suo Pontificato, dal 127 al 137, stabilì fra le altre cose che: “siano celebrate di notte messe del natale del Signore” (natalem Domini noctu missas celebrarentur et ante sacrificium hymnus diceretur angelicus, hoc est: Gloria in excelsis Deo) e “prima del sacrificio sia detto l’inno angelico che è: Gloria in excelsis Deo” (Liber Pontificalis, texte, introduction et commentaire, par L. Duchesne, Paris, 1886, vol. I, p. 345).
Il testo originale greco di quest’Inno ci è tramandato dal Codex Alexandrinus dell’inizio del quinto secolo. Questo codice raccoglie i testi dell’Antico Testamento, nella versione greca dei Settanta, e quelli del Nuovo Testamento nel loro originale greco.
Al termine del Libro dei Salmi, il Codex raccoglie quindici Odi – o Inni – di cui il Gloria in excelsis Deo è l’ultimo (cfr. F. M.T. Ryan, The Gloria in Excelsis Deo; Sources, Theology and Significance For The Roman Rite, in: Ephemerides Liturgicae 133, 2019, p. 223).
A differenza, dunque, di altri Cantici e Inni – per lo più inseriti nella Liturgia Horarum all’ora di Vespri – il testo del Gloria non è direttamente derivato dagli scritti neo-testamentari, eppure – assai significativamente – lo troviamo trasmesso proprio insieme al corpo dei testi dell’Antico e del Nuovo Testamento.
La prima versione latina dello stesso Inno ci viene, invece, tramandata dall’Antifonario di Bangor del settimo secolo e dal Liber Sacramentorum Augustodunensis dell’ottavo secolo.
Queste due prime versioni latine convergono specularmente col testo greco del Codex Alexandrinus e lo riproducono letteralmente (cfr. Ibidem, pp. 223-224).
Che l’Inno Angelico sia, poi, da subito considerato di grande importanza per la liturgia romana, ci è poi dimostrato dall’insieme di norme liturgiche che ne regolano l’uso in maniera assai meticolosa.
Oltre alle indicazioni già presenti nel Liber Pontificalis riguardo a Papa Telesforo, fin dall’ottavo secolo, i rituali prevedono che il Gloria sia cantato solo nelle domeniche e nelle feste dei martiri, dopo il Kyrie eleison, ma esclusivamente quando alla celebrazione è presente il Vescovo.
I semplici preti potevano, invece, cantarlo nel giorno della Pasqua: “Item dicitur Gloria in Excelsis Deo, si episcopus fuerit, tantummodo die dominico, sive diebus festis; a praesbyteris autem minime dicitur nisi solo in Pascha”.
Poi si dice il Gloria in Excelsis Deo se c’è il Vescovo, nello stesso modo nel giorno di domenica sia nei giorni di festa; dai presbiteri non sia affatto detto se non solamente nella Pasqua (cfr. Jean Deshusses (ed.), Le sacramentaire grégorien, ses principales formes d’après les plus anciens manuscrits, Fribourg, 1992, vol. 2, p. 85).
Un’altra norma liturgica, sempre nell’ottavo secolo e in uso nella sola diocesi di Roma, concede ai preti novelli di poter cantare il Gloria quando celebrano la loro prima Messa: “Et cum pervenerit ad ecclesiam, ponitur sedes latus altaris et habet ibi licentiam sedere eodem die et in vigilia paschae tantum et dicere Gloria in excelsis Deo”.
Dopo esser giunto in chiesa, si pone nella sede a lato dell’altare e lì avrà il permesso di sedere in quel giorno come nella vigilia di Pasqua e di dire il Gloria in excelsis Deo (Michel Andrieu (ed.), Les Ordines Romani du haut moyen âge. vol. IV, Louvain, 1956, p. 280).
A seguito delle deliberazioni del Concilio di Trento, non si è creato o promulgato un nuovo rito della Messa, ma l’uso del Missale Romanum, che contiene l’immutato rituale damaso-gelasiano, di origine apostolica e come riordinato dalla Riforma Gregoriana, è esteso a tutta la Chiesa Cattolica, ad eccezione di quei luoghi dove esistano distinte e secolari tradizioni liturgiche.
Nel 1570, dunque, abbiamo una nuova normativa liturgica che prevede l’uso obbligatorio del Gloria in tutte le domeniche – ad eccezione di quelle di Avvento, Septuagesima e Quaresima – nella Messa in Coena Domini del Giovedì Santo, nelle Solennità e nelle Feste, e che fa cadere il privilegio riservato, fino ad allora, alla liturgia pontificale.
La prima Istituzione Generale del Messale Romano del 1969 conferma questo uso e sottolinea che: “Il Gloria è un antichissimo e venerabile inno col quale la Chiesa, radunata nello Spirito Santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello” (IGMR, 1969, n. 31).
Nella terza edizione del 2003 dell’Istituzione Generale, si aggiunge che: “Il testo di questo inno non può essere sostituito con un altro” (IGMR, 2003, n. 53).
Per la sua traditio, il modo in cui il testo ci è stato tramandato, e per la puntuale regolamentazione liturgica che, lungo i secoli, ha contraddistinto l’uso del Gloria ci si sarebbe dovuto attendere da parte dei fantasiosi traduttori della CEI maggiore cautela e saggezza.
L’incipit dell’Inno – “Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis” – riprende esattamente il testo della Natività come riportato dalla Vulgata nel Vangelo di San Luca 2, 14, ma l’intero svolgimento dell’Inno rinvia direttamente o indirettamente a ben 35 versetti dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Una rapida sinossi del testo rivela infatti i seguenti riferimenti: a Genesi 22, 12; a Isaia 6, 1-3; e 14, 13; al Salmo 113, 5; al Salmo 83, 19; da Matteo 3, 17; 13, 41-49; 17, 5; e 16, 27; a Marco 1, 11; 9, 6; 8, 38; 13, 26-27; e 16, 19; a Luca 2, 22; 9, 26; e 9, 35; a Giovanni 1, 29; 12, 41; agli Atti 7, 55; a Romani 8, 34; a Efesini 1, 20; a Colossesi 2, 3; alla 2 Tessalonicesi 1, 7; a Ebrei 1, 3; 8, 1; 10, 2; e 10, 12; e all’Apocalisse 3, 2; 4, 8; 4, 11; 5, 13; 7, 12; 11, 17; 15, 3-4; e 16, 7.
E qui solo per elencare i riferimenti più evidenti e chiari!
Tornando all’incipit, il testo greco recita così: Δόξα ἐν ὑψίστοις θεῷ καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη ἐν ἀνθρώποις ⸀εὐδοκίας (Dòxa én ufìstois Zeò kaì epì gès eiréne én anzròpois eudokìas).
In questa frase evangelica i due termine da osservare solo il primo Δόξα (Dòxa) e εὐδοκία (eudokìa), i termini sono al caso genitivo di specificazione: ⸀εὐδοκίας, che San Girolamo nella Vulgata traduce, appunto, con “bonae voluntatis”.
Nel greco antico, la dòxa esprime un’opinione, una credenza, oppure l’opinione che si ha di una certa persona o cosa; qualcosa, insomma, di assolutamente soggettivo e relativo.
In questo senso, insieme al suo verbo δοκέω (dokéo), viene talora utilizzato nella traduzione dei Settanta dell’Antico Testamento.
Il senso prevalente, tuttavia, è quello che corrisponde al termine ebraico שְׁכִינָה, Shekinah, che indica la manifestazione della potenza di Dio sugli uomini, come luce splendente – per esempio in Esodo 24, 17 o Esodo 40, 28; o il permanere su di un eletto della potente presenza di Dio, come in 1 Samuele 4, 22 o Siracide 49, 8.
Nel Nuovo Testamento, dòxa e dokéo, sono invece impiegati solo e sempre in senso assoluto come splendore, luce brillante, magnificenza, eccellenza, preminenza, dignità, grazia e maestà che sono riferiti esclusivamente alla condizione di Dio e del suo Cristo, in primis, o alla condizione di coloro che sono da tale gloria benedetti ed eletti.
Il termine greco ⸀εὐδοκία appare 9 volte negli scritti del Nuovo Testamento e ha una selezione di significati che indicano la buona volontà, l’intenzione gentile, la benevolenza; la delizia, il piacere; il desiderio; associato al verbo γίνομαι (ghìnomai) assume anche il significato di sembrare buono.
Ora, per facilità di comprensione sottolineerò il termine italiano con cui è, invece, stato tradotto il sostantivo ⸀εὐδοκία nella nuova edizione della CEI del 2008.
Matteo 11, 26: Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Luca 10, 21: Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Romani 10, 1: Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro salvezza. Efesini 1, 9: facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto. Filippesi 1, 15: Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. Filippesi 3, 13: È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore. Tessalonicesi 1, 11: Per questo preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede.
E veniamo, ora, a Luca 2, 14, che è alla base della modifica del Gloria liturgico: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”.
Come si vede chiaramente è questo l’unico caso in cui i traduttori della CEI hanno dovuto – di punto in bianco – inventarsi un’intera proposizione relativa per tradurre il sostantivo greco εὐδοκία e hanno sostituito tutte le precedenti scelte esegetiche con un verbo, amare, che proprio nel testo non c’è!
Tradurre, infatti, con “uomini di benevolenza” o “uomini di buon sentimento” o “uomini di propositi di bene”, non sembrava valere la pena, perché avrebbe rinviato a quel “di buona volontà”, che in ogni caso si voleva innovare per il gusto d’innovare.
Il sostantivo εὐδοκία (eudokìa) deriva da suffisso εὐ (bene/buono) e dal verbo δοκέω (avere un’opinione, avere un’intenzione, una volontà) e come si comprende il termine εὐδοκία (eudokìa) riecheggia il primo della frase evangelica e liturgica Δόξα (Dòxa) che è pure un sostantivo che deriva dal verbo δοκέω.
Ora, l’evangelista Luca, che essendo nato ad Antiochia era di madre lingua greca, mentre non esita a riferire a Dio la Dòxa, nel senso di Gloria – vale a dire di opinione eccellente – si premura per quanto riguarda gli uomini di specificare che questa dokìa deve intendersi ben orientata, premettendo il suffisso εὐ, vale a dire buona e ben orientata.
Pare proprio che, nella nuova traduzione del Gloria, abbiamo assistito a una nuova manovra del religiosamente corretto o a un’ulteriore strategia del così piacciamo a tutti e non dispiacciamo a nessuno.
Si dirà, che la traduzione esisteva già dal 2008 – così come quella del Pater Noster – ma una cosa è lasciarla nel Lezionario, la proclamazione delle cui letture è poi seguita dal commento dell’Omelia che ne orienta l’interpretazione – che ci auguriamo corretta – altra cosa è elevare una traduzione manipolata a dignità di testo liturgico!
Molti esegeti è pur vero, infine, suggeriscono che la eudikìa non sia da considerarsi come una risposta degli uomini alla dòxa di Dio – dunque, uomini di buona volontà – ma solo un riferimento a Dio stesso e al suo compiacersi degli uomini (inter alia, cfr. Jozef Jančovič, Who Are Addresses of Peace in the Canticle Gloria in excelsis? Analysis of the Phrase ἀνθρώποι εὐδοκίας in Luke 2:14 and its Translation Proposal, in: Slavica Slovaca, 54, Bratislava 2019, No. 2, pp. 129-141).
Di fronte a questa obiezione, dobbiamo, allora, chiederci ma di quali uomini si compiace – o come dice la CEI quali uomini ama – il buon Dio?
Lasciamo ben volentieri la risposta all’incommensurabile Agostino d’Ippona e al suo sermone natalizio, da cui abbiamo preso le mosse.
“Osserva, uomo, che cosa è diventato per te Dio: sappi accogliere l’insegnamento di tanta umiltà, anche in un maestro che ancora non parla. Tu una volta, nel paradiso terrestre, fosti così loquace da imporre il nome ad ogni essere vivente; il tuo Creatore invece per te giaceva bambino in una mangiatoia e non chiamava per nome neanche sua madre. Tu in un vastissimo giardino ricco di alberi da frutta ti sei perduto perché non hai voluto obbedire; lui per obbedienza è venuto come creatura mortale in un angustissimo riparo, perché morendo ritrovasse te che eri morto. Tu che eri uomo hai voluto diventare Dio e così sei morto; Lui che era Dio volle diventare uomo per ritrovare colui che era morto. La superbia umana ti ha tanto schiacciato che poteva sollevarti soltanto l’umiltà divina” (Sermo in Natali Domini, 188, 3, 3).
Forse a questo pensava San Girolamo quanto scelse di tradurre quell’ ἀνθρώποι εὐδοκίας semplicemente ma assai efficacemente con “uomini di buona volontà”.
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