Il 18 gennaio è stata pubblicata sul sito della Casa Bianca la proclamazione del Presidente Trump per la giornata nazionale della santità della vita umana.

Un discorso eccezionale per chiarezza, coraggio e anticonformismo, dove vengono ricordate con giusto orgoglio le tante iniziative in difesa della vita nascente intraprese negli ultimi quattro anni e viene rivolto un appello al Congresso affinché approvi una legislazione che vieti l’aborto tardivo (o più propriamente infanticidio).

Il prossimo governo dem, legato a doppio filo con Planned Parenthood, si affretterà a distruggere quest’opera controcorrente, forse però – e ce lo auguriamo – non riuscirà ad annientare quel potente movimento pro-life che, come sostiene Trump, sta risvegliando la coscienza dell’America.

La traduzione è di Wanda Massa.

Donald Trump in Washington, DC, on January 24, 2020. (Photo by OLIVIER DOULIERY/AFP via Getty Images)
Pro-life demonstrators listen to US President Donald Trump as he speaks at the 47th annual “March for Life” in Washington, DC, on January 24, 2020. – Trump is the first US president to address in person the country’s biggest annual gathering of anti-abortion campaigners. (Photo by OLIVIER DOULIERY / AFP) (Photo by OLIVIER DOULIERY/AFP via Getty Images) 

Proclamazione per la Giornata nazionale della santità della vita umana, 2021

 

Ogni vita umana è un dono al mondo. Nato o non nato, giovane o vecchio, sano o malato, ogni persona è fatta a immagine e somiglianza di Dio. Il Creatore Onnipotente dona ad ogni persona talenti unici, sogni bellissimi e un grande scopo. Nella Giornata Nazionale della Santità della Vita Umana, celebriamo la meraviglia dell’esistenza umana e rinnoviamo la nostra determinazione a costruire una cultura della vita in cui ogni persona di ogni età sia protetta, valorizzata e amata.

Questo mese, festeggiamo i quasi 50 anni dalla decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti nella causa Roe contro Wade (la sentenza che ha reso legale l’aborto negli USA, ndr).  Questa sentenza, costituzionalmente viziata, ha rovesciato le leggi dello Stato che proibivano l’aborto e ha causato la perdita di oltre 50 milioni di vite innocenti. Ma madri forti, studenti coraggiosi, e incredibili membri della comunità e persone di fede stanno guidando un potente movimento per risvegliare la coscienza dell’America e ripristinare la convinzione che ogni vita è degna di rispetto, protezione e cura. A causa della devozione di innumerevoli pionieri a favore della vita, la richiesta che ogni persona riconosca la santità della vita risuona più forte che mai in America.  Nell’ultimo decennio il tasso di aborti è diminuito costantemente e oggi più di tre americani su quattro sostengono le restrizioni sull’aborto.

Sin dal mio primo giorno in carica, ho intrapreso un’azione storica per proteggere vite innocenti in patria e all’estero.  Ho reintegrato e rafforzato la politica di Città del Messico del Presidente Ronald Reagan, ho emanato una regola fondamentale a favore della vita per governare l’uso dei fondi dei contribuenti del Titolo Dieci e ho preso provvedimenti per proteggere i diritti di coscienza di medici, infermieri e organizzazioni come le Piccole Sorelle dei Poveri.  La mia amministrazione ha protetto il ruolo vitale dell’adozione basata sulla fede.  Alle Nazioni Unite, ho chiarito che i burocrati globali non hanno il diritto di attaccare la sovranità delle nazioni che proteggono la vita innocente.  Solo pochi mesi fa, la nostra Nazione si è unita ad altri 32 Paesi nel firmare la Dichiarazione di Consenso di Ginevra, che sostiene gli sforzi globali per fornire una migliore assistenza sanitaria alle donne, proteggere tutte le vite umane e rafforzare le famiglie.

Come Nazione, il ripristino di una cultura di rispetto per la sacralità della vita è fondamentale per risolvere i problemi più urgenti del nostro Paese.  Quando ogni persona sarà trattata come un amato figlio di Dio, gli individui potranno raggiungere il loro pieno potenziale, le comunità fioriranno e l’America sarà un luogo di speranza e libertà ancora più grande.  Ecco perché è stato un mio profondo privilegio essere il primo presidente della storia a partecipare alla Marcia per la Vita, ed è questo che motiva le mie azioni per migliorare il sistema di adozione e di affidamento della nostra Nazione, assicurare maggiori finanziamenti per la ricerca sulla sindrome di Down ed espandere i servizi sanitari per le madri single. Negli ultimi 4 anni, ho nominato più di 200 giudici federali che applicano la Costituzione così come è stata scritta, tra cui tre giudici della Corte Suprema – Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett.  Ho anche aumentato il credito d’imposta per i figli, in modo che le madri siano sostenute finanziariamente mentre si assumono il nobile compito di crescere bambini forti e sani. E, di recente, ho firmato un Ordine esecutivo per la protezione dei neonati e dei neonati vulnerabili, che difende la verità che ogni neonato ha gli stessi diritti di tutti gli altri individui a ricevere cure salvavita.

S President Donald Trump and Judge Amy Coney Barrett walk to the Rose Garden of the White House in Washington, DC, on September 26, 2020. - Trump nominated Barrett to the US Supreme Court. (Photo by Olivier DOULIERY / AFP) (Photo by OLIVIER DOULIERY/AFP via Getty Images)
Amy Coney Barrett con il presidente Donald Trump (Photo by Olivier DOULIERY / AFP) (Photo by OLIVIER DOULIERY/AFP via Getty Images)

Gli Stati Uniti sono un fulgido esempio di diritti umani per il mondo.  Tuttavia, alcuni a Washington stanno lottando per mantenere gli Stati Uniti tra una piccola manciata di nazioni – tra cui la Corea del Nord e la Cina – che permettono l’aborto facoltativo dopo 20 settimane.  Mi unisco a innumerevoli altri che ritengono che questo sia moralmente e fondamentalmente sbagliato, e oggi rinnovo il mio appello al Congresso affinché approvi una legislazione che vieti l’aborto tardivo.

Fin dall’inizio, la mia amministrazione si è dedicata ad elevare ogni americano, e questo inizia con la protezione dei diritti dei più vulnerabili della nostra società – i nascituri.  Nella Giornata Nazionale della Santità della Vita Umana, promettiamo di continuare a parlare per coloro che non hanno voce.  Promettiamo di celebrare e sostenere ogni madre eroica che sceglie la vita.  E ci impegniamo a difendere la vita di ogni bambino innocente e non nato, ognuno dei quali può portare amore, gioia, bellezza e grazia incredibili nella nostra Nazione e nel mondo intero.

ORA, QUI, io, DONALD J. TRUMP, Presidente degli Stati Uniti d’America, in virtù dell’autorità conferitami dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti, proclamo il 22 gennaio 2021, come Giornata Nazionale della Santità della Vita UmanaOggi, chiedo al Congresso di unirsi a me nel proteggere e difendere la dignità di ogni vita umana, anche di quelle non ancora nate. Invito il popolo americano a continuare ad occuparsi delle donne in gravidanze inattese e a sostenere l’adozione e l’affidamento in modo più significativo, affinché ogni bambino possa avere una casa amorevole. E infine, chiedo a tutti i cittadini di questa grande Nazione di ascoltare il suono del silenzio causato da una generazione che abbiamo perso, e poi di alzare la voce per tutti coloro che sono stati colpiti dall’aborto.

IN FEDE DI CHE, ho posto la mia mano in questo diciassettesimo giorno di gennaio, nell’anno di nostro Signore duemila ventuno, e dell’Indipendenza degli Stati Uniti d’America il duecentoquarantacinquesimo.

DONALD J. TRUMP

Di Wanda Massa|

https://www.sabinopaciolla.com/la-sacralita-della-vita-e-fondamentale-per-risolvere-i-problemi-piu-urgenti-del-nostro-paese-parole-del-presidente-uscente-donald-trump/

Trump è stato bandito da Internet – I prossimi potremmo essere noi



Donald Trump è stato bandito da Internet. Non lo hanno nascosto dietro qualche messaggio di avvertimento, non hanno ridotto i suoi follower e non lo hanno costretto a cambiare piattaforma. Lo hanno proprio eliminato.

Snapchat. Twitter. Facebook. YouTube. Google. Amazon. Instagram. Shopify. Twitch. Tiktok. Finiti.

E lui è il Presidente degli Stati Uniti. Se possono farlo a lui, possono farlo a chiunque.
In effetti, il messaggio che è stato inviato è proprio questo. È una mossa intimidatrice, progettata per spaventare la gente e far sì che si autoregolamenti.

In molti l’hanno già capito.

E questa, ragazzi, è una condanna a morte digitale. E se possono farlo all’uomo più potente del pianeta, indovinate chi potrebbe essere il prossimo ad essere completamente bandito da Internet, per qualsiasi ragione vogliano queste aziende che vendono i vostri dati alle multinazionali e alle agenzie di intelligence.

Purtroppo, molti sono ancora storditi da quello che, erroneamente, hanno scambiato per l’inebriante profumo della vittoria. Alla fine si renderanno conto del loro errore, ma potrebbe essere troppo tardi.

Non si sono limitati a Trump. Nei giorni successivi, decine di migliaia di altre persone sono state bandite da Internet.

Per anni, il ritornello di coloro che difendono la censura sui social media (ironia della sorte, sono proprio quelli che di solito si identificano come “socialisti“) è stato che le aziende private hanno il diritto di gestire le proprie piattaforme come meglio credono e che, se la cosa non vi piace, potete sempre passare ad un altro social network.

…ma ora anche gli altri social network vengono chiusi.

Era iniziato qualche anno fa con Gab, ma il recente assalto a Parler è stato anche più violento. Gab è sopravvissuta, Parler no. I giganti della tecnologia si sono alleati e hanno letteralmente schiacciato il concorrente più piccolo. (Sono abbastanza sicuro che le leggi antitrust esistano proprio per prevenire uno scenario del genere, ma non importa).

Tutta la settimana successiva ai “disordini di Capitol Hill” è stata un’unica dimostrazione di forza. Un pavone che fa la ruota o un uccello beccaiolo che picchia contro un tronco.

Ci stanno dicendo chi è che comanda, ma alcuni si rifiutano di ascoltare.

Un meme che circola tra i cosiddetti “liberali” (che di questi tempi sono ben addestrati a non cogliere il punto) illustra bene la situazione: “Se è troppo pericoloso per avere un account su Twitter, perché ha i codici nucleari?”

Ma, naturalmente, la vera domanda è: “se non gli permettono nemmeno di avere un account su Twitter, credete davvero che gli permettano di avvicinarsi ai codici nucleari?

Credete davvero che abbia, o abbia avuto, un qualche potere? Pensate che Joe Biden ce l’abbia?

Pensate davvero che lo stesso sistema che ha appena castrato pubblicamente “l’uomo più potente della Terra” e il“leader del mondo libero” inizierà improvvisamente a fare quello che gli viene detto da una voce “progressista” al comando?

Se non si sono inchinati alla volontà del popolo ora, perché mai dovrebbero farlo in futuro?

Non lo faranno. Non l’hanno mai fatto.

Ci è stato detto, in termini molto chiari, chi ha il vero potere. E non siamo certo noi, né i nostri rappresentanti eletti.

In realtà, non è nessuno con un mandato democratico o una responsabilità legale, ma piuttosto una serie di dirigenti anonimi, di burocrati senza volto e una successione di tecno-miliardari che hanno dato vita ad una nuova forma di aristocrazia.

La messa al bando da Internet di Donald Trump non è stata solo una “risposta dettata dal panico” alla “violenza” in Campidoglio e non è stata una punizione alla persona, è stata una calcolata dimostrazione di onestà. Una dichiarazione d’intenti.

Una notifica dei limiti che tutti noi ci troveremo ad affrontare quando la Nuova Normalità, sempre più distopica, darà forma ad un diverso tipo di società.

Tutto è stato chiaramente coordinato. Il Deep State, le grandi imprese e i media hanno lavorato in perfetta coordinazione. La polizia ha avuto l’ordine di creare disordini a Capitol Hill e di far entrare i “rivoltosi” nell’edificio. I media mainstream lo hanno additato come un “tentativo di colpo di stato” e i social media hanno rimosso tutte le dichiarazioni di Trump, in modo da poterlo accusare di “incitamento alla violenza.”

Hanno creato la menzogna. Hanno diffuso la menzogna. Hanno messo a tacere chiunque negasse la menzogna. Hanno, come direbbe Karl Rove, “creato la realtà” e ora siamo qui ad analizzarla.

Questa volta si è trattato di una grande menzogna, e così doveva essere. Perché l’uomo (o meglio l’incarico) era grande. Ma per il normale cittadino può essere una piccola bugia. Aveva postato “pedopornografia” o “diffondeva l’odio” o “negava la pandemia.”

Il precedente è stato creato. Possono bandire chiunque vogliano e poi, con calma, inventarsi il pretesto.

Come nella famosa citazione di Frank Zappa:

L’illusione di libertà continuerà finché sarà redditizio continuare l’illusione. Nel momento in cui l’illusione diventerà troppo costosa da mantenere, si limiteranno a smontare la scenografia, tireranno giù il tendone, sposteranno i tavoli e le sedie e si vedrà il muro di mattoni al fondo del teatro.

Beh, il muro ci è stato mostrato, e ci hanno detto di battere le mani perché il primo ad andarci a sbattere contro è stato Donald Trump.

Prevedibilmente, milioni di persone ci sono cascate.

Kit Knightly

Fonte: off-guardian.org
Link: https://off-guardian.org/2021/01/14/trumps-been-deleted-from-internet-and-any-one-of-us-could-be-next/
14.01.2021
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

https://comedonchisciotte.org/trump-e-stato-bandito-da-internet-i-prossimi-potremmo-essere-noi/

L’ultimo cinguettio di Donald. Twitter, Trump e le oche del campidoglio 



Dopo che il re ebbe così parlato, i Galli con entusiasmo si sottoposero alla prova. A mezzanotte molti, arrampicandosi in gruppo sulla roccia, salivano in alto silenziosamente aggrappandosi a massi scoscesi e difficili a superare, ma che pure erano anche più accessibili e cedevoli ai loro sforzi di quanto avessero immaginato, al punto che ai primi, arrivati in cima e indossate le armi, non rimaneva ormai che raggiungere gli avamposti e assalire le sentinelle immerse nel sonno: né un uomo né un cane li aveva uditi. Ma c’erano intorno al tempio di Giunone le oche sacre… PLUTARCO

Ripensando agli sciamani cornuti e alla presa di Capitol Hill del 6 gennaio 2021, confesso di essere stato tentato di liquidare l’episodio all’insegna della massima di Marx secondo cui la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.

Marx pensava, rispettivamente, al 18 brumaio di Napoleone Bonaparte e al colpetto di Stato del nipote Luigi (quello che i libri di scuola chiamano Napoleone III, e che Victor Hugo soprannominò Napoleone il piccolo). Oggi abbiamo di fronte, invece, una presa del Campidoglio in cui un novello Brenno (ben più tracotante dell’originale, che pure non scherzava), non pago di aver già saccheggiato Roma, invia i suoi fedelissimi a violare il colle consacrato a Giove, e dunque il simbolo per eccellenza del potere.

In entrambi i casi, i barbari sono penetrati senza trovare resistenze. Ma se nel 390 avanti Cristo furono le oche sacre di Giunone a dare l’allarme e a provocare la fiera e vittoriosa reazione degli assediati, nel 2021 le oche sono rimaste mute, e la variopinta orda degli adoratori di teorie cospirative — non rileva se fossero palestrati epigoni di Rambo in mimetica oppure pingui allevatori del Midwest con stivali di gomma e cappellino da baseball — hanno bivaccato nella sede del Congresso, portandosi via qualche souvenir (o facendosi almeno un selfie) e lasciandosi dietro una scena di devastazione degna di un rave party: finestre rotte, quadri tagliati, pareti imbrattate, infissi divelti, tappeti usati come scarico per le deiezioni dei rivoltosi.

Una farsa, dunque? No. Tutt’altro. Cinque persone hanno perso la vita durante l’assalto, e numerosi sono stati i feriti, da una parte e dall’altra. Alcuni assalitori sono stati arrestati. E se i danni materiali sono stati consistenti, la ferita che si è aperta nell’immaginario collettivo statunitense è stata ben più profonda.

È difficile comprendere fino in fondo le conseguenze che la presa del Campidoglio comporterà. Al momento, una delle questioni più dibattute e controverse è la “censura social” di Donald Trump. Accusato di aver alimentato le tensioni successive alla vittoria di Biden (a suo avviso: una truffa elettorale) e di aver apertamente appoggiato la presa del Campidoglio, il presidente uscente ha visto inibiti, uno dopo l’altro, i propri accessi a Twitter, Facebook, YouTube, Instagram, Snapchat, TikTok, Twitch, Discord e Reddit.  Pochi giorni dopo, Amazon ha inoltre sospeso le attività della piattaforma Parler, largamente usata dai sostenitori di Trump (anche nostrani, pare).

Pur potendo ancora contare su un vasto assortimento di media tradizionali (giornali, televisioni, radio), Trump è stato disarmato sul piano della comunicazione politica digitale. E non è cosa da poco, se si pensa che lo strumento che Trump ha adoperato con maggior continuità durante gli anni della sua presidenza è Twitter. Dal momento della sua candidatura nel giugno del 2015 alla presa di Capitol Hill del gennaio 2021, Trump ha “cinguettato” più di 34000 volte. E lo ha fatto a un numero di “seguaci” che ha oscillato negli ultimi anni intorno ai 100 milioni di follower.

Mi sembra particolarmente importante ricordare che, a partire dal 6 giugno 2017, l’account personale @realDonaldTrump (e non l’istituzionale @POTUS) è stato riconosciuto dall’amministrazione Trump come strumento di comunicazione delle dichiarazioni ufficiali del presidente USA, che trionfalmente pochi giorni dopo twittava: «My use of social media is not Presidential – it’s MODERN DAY PRESIDENTIAL. Make America Great Again!».  

Veniva così inaugurata una sovrapposizione (e confusione) tra dimensione privata e funzione pubblica che, peraltro, si inseriva perfettamente nell’attitudine personalistica di gestione degli affari (di Stato e non solo) del tycoon, assai poco propenso a contare fino a 10 prima di aprire bocca (o di digitare 280 caratteri), e ben felice di scavalcare in modo sistematico il filtro tradizionalmente operato dall’ufficio stampa della Casa Bianca.

Sin dai primi mesi del suo mandato, Trump ha usato Twitter con estrema disinvoltura, diffondendo notizie palesemente false o controverse, facendo riferimento a fantasiose teorie della cospirazione, postando commenti razzisti, e dunque in molti casi contravvenendo alle regole stabilite dal social media, che — in estrema sintesi — tutelano la “public conversation”. Si tratta di un apparato di regole che proibisce agli utenti di fare uso di minacce o istigare alla violenza, promuovere movimenti terroristici o fanatici, incoraggiare lo sfruttamento sessuale dei minori, favorire pratiche di hate speech contro minoranze di ogni genere, incitare al suicidio. Ma, oltre a questo, la policy di Twitter impone di non fare ricorso a strategie di spamming, di manipolazione informativa, di interferenza politica durante processi elettorali. 

Ma se queste sono le regole, perché nulla è stato fatto fino al gennaio del 2021? La risposta si trova sempre nelle General guidelines and policies di Twitter, in cui è chiarito che la violazione delle regole non comporta la sospensione dell’account o la rimozione di un post qualora sia riscontrato un “interesse pubblico”. Più precisamente, Twitter considera un contenuto di pubblico interesse «if it directly contributes to understanding or discussion of a matter of public concern», e sottolinea che sostanzialmente questi casi sono riconducibili a un’unica tipologia critica: i «Tweets from elected and government officials». In tale evenienza, il tweet non viene dunque rimosso, ma un avviso segnala la violazione delle regole e limita la possibilità di inoltrarlo, condividerlo, inserire “like” e così via.

Questa previsione spiega dunque perché l’account di Trump non sia stato limitato o sospeso fino alla presa del Campidoglio. Ma non spiega perché — essendo ancora Trump il presidente in carica — l’eccezione del pubblico interesse non abbia più dato copertura ai suoi tweet.

Anche in questo caso, a ben vedere, dal punto di vista normativo la risposta è chiara. Secondo la policy di Twitter, l’eccezione del pubblico interesse non è assoluta, ma cede di fronte a una serie di casi. Tra questi si trovano l’incitamento alla violenza, la promozione di atti  terroristici, l’attentato all’integrità di un processo elettorale («You may not use Twitter’s services for the purpose of manipulating or interfering in elections. This includes posting or sharing content that may suppress voter turnout or mislead people about when, where, or how to vote»).

Se la decisione di Twitter è arrivata a seguito di un atto clamoroso, occorre tuttavia ricordare che nel corso del 2020 si era assistito a un progressivo inasprimento del rapporto tra Trump e il social media, che in più di un’occasione aveva segnalato cinguettii presidenziali che diffondevano notizie prive di fondamento sulla pandemia da COVID-19, o che suggerivano l’idea che le elezioni presidenziali sarebbero state oggetto di frode.

In particolare, il 26 maggio 2020 Trump aveva postato un tweet in cui esprimeva gravi perplessità sul voto per corrispondenza, in risposta al quale Twitter aveva inserito una notice («Ecco i fatti sul voto per corrispondenza») che rinviava ad articoli di autorevoli quotidiani in cui si smentivano seccamente tali illazioni.

La rottura si è consumata però soltanto l’8 gennaio 2021, con la “messa al bando” dell’account di Trump. Secondo Twitter, il presidente ha infatti usato il social media per incitare all’assalto del Congresso, al fine di impedire la certificazione della vittoria di Joe Biden.

Per impedire il possibile aggiramento del bando, Twitter ha successivamente sospeso a tempo indeterminato, oltre all’account @realDonaldTrump, anche l’account ufficiale della sua campagna elettorale (@TeamTrump), nonché quello del digital director della sua campagna, Gary Coby. Di fronte al tentativo di usare l’account presidenziale ufficiale (@POTUS), Twitter ha immediatamente rimosso tre tweet di Trump.

Le reazioni a queste decisioni senza precedenti hanno diviso la platea dei commentatori in almeno quattro gruppi: da una parte chi giustifica la sospensione degli account, in quanto le esternazioni del presidente hanno innescato una serie di azioni violente poi sfociate nell’assalto al Campidoglio; dall’altra chi, pur esprimendo biasimo in maniera più o meno decisa a proposito degli accadimenti, sostiene che i social media svolgono una funzione comunicativa che non può obbedire a logiche unicamente privatistiche: la libertà di espressione — questo l’argomento fondamentale — non può essere gestita discrezionalmente da attori privati; ancora, non è mancato chi ha liquidato la vicenda dicendo che Twitter e gli altri social sono aziende private, libere di decidere la sospensione dei propri servizi qualora riscontrino una violazione delle condizioni d’uso che ogni utente si impegna a rispettare; infine, molti contestano apertamente la legittimità della decisione di Twitter e delle altre compagnie che hanno sospeso gli account presidenziali, con una scelta bollata come liberticida (in questa direzione si inseriscono le dichiarazioni di diversi governi europei, come quella del primo ministro polacco Mateusz Morawiecki a proposito della necessità di una «legge per la protezione della libertà di parola su Internet»).

Non ho qui la possibilità di affrontare in maniera neppure minimamente approfondita il delicatissimo tema del ruolo giocato dai social media nel confronto politico contemporaneo, con le sue implicazioni sul diritto di manifestazione del pensiero e su altri diritti fondamentali.

Mi sembra però interessante segnalare che il fondatore di Twitter, Jack Dorsey, ha commentato la decisione di Twitter affermando che misure di tal genere hanno una carica fortemente divisiva, e nel caso di Trump hanno creato un precedente pericoloso, in riferimento al quale — ha scritto Dorsey — «I do not celebrate or feel pride». Dorsey ha rivendicato che la decisione di Twitter era l’unica strada per fronteggiare circostanze straordinarie che minacciavano la sicurezza pubblica. Tuttavia, se «offline harm as a result of online speech is demonstrably real», la sospensione dell’account del presidente è un «fallimento da parte nostra nel promuovere una sana conversazione». La questione è: se è stata la scelta giusta, come dice Dorsey pur con grande cautela, in che senso è stata “giusta”? sul piano morale? sul piano giuridico? sul piano politico? o sul piano economico?

Il caso della sospensione degli account social di Trump, per quanto senza precedenti nella sua gravità, si inserisce tuttavia in una ormai lunga serie di casi in cui i social hanno reclamato il potere di esercitare funzioni di rilevanza che definirei para-giurisdizionale. Del resto, se si leggono i termini d’uso dei servizi da loro offerti, si avrà una conferma di questa pretesa leggendo i frequenti passaggi dedicati al “bilanciamento” tra diritti e interessi pubblici.

Twitter, per esempio, affronta la questione affermando che

«we weigh the potential risk and severity of harm against the public-interest value of the Tweet. Where the risk of harm is higher and/or more severe, we are less likely to make an exception. […]. We recognize the desire for these decisions to be clearcut yes/no binaries. Unfortunately, the reality is that they can’t be. […]. As with all our policies, we continue to respect local laws and balance other principles, including freedom of expression, when enforcing our rules».

Si tratta, lo ripeto, di una presa di posizione sempre più comune tra i social media. Del resto, basta ricordare la vicenda “Google Spain”, che si è conclusa nel 2014 con una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che molti salutarono come una “vittoria” contro Google, ma che si rivelò presto foriera di esiti di tutt’altro segno. Se oggi, rivendicando il cosiddetto diritto all’oblio, volete chiedere la rimozione di un certo risultato dal motore di ricerca più usato al mondo, vi troverete a compilare un form online, che verrà vagliato dall’azienda di Mountain View sulla base di alcuni principî che si è data per effettuare un “bilanciamento” tra il diritto all’identità personale e alla riservatezza, da una parte, e il diritto alla libera espressione del pensiero e alla libertà di informazione, dall’altra.

In parole povere, stiamo assistendo da qualche anno a un salto di qualità nella gestione dei servizi via internet (non soltanto social). A lungo i provider hanno cercato di stare alla larga dal diritto (e dai processi). Si sono schermati con successo da qualsiasi conseguenza giuridica per le azioni dei propri utenti, invocando l’impossibilità tecnica di controllare i contenuti pubblicati sugli spazi web da loro gestiti (come in Caraccioli vs. Facebook Inc., o Pennie vs. Twitter; e in Italia pensiamo al favor assicurato dal Dlgs. 70/2003). Ma oggi il loro ruolo sembra piuttosto quello di un organo giudiziario di prima — e quasi sempre anche ultima — istanza.  

Questa dimensione para-giurisdizionale dei big players del mondo digitale è connotata da continui riferimenti ad apparati normativi: clausole contrattuali, condizioni e termini d’uso, ma anche leggi e regolamenti, fino ad arrivare a principî costituzionali. E qui si apre la questione fondamentale: chi sono questi soggetti che interpretano e applicano il diritto?

In queste procedure salta il principio nemo judex in causa suaIl giudice non è né terzo né imparziale, non vi è un reale contraddittorio, i tradizionali soggetti pubblici sono pretermessi o ridotti a comparse di un “secondo grado” di giudizio reso del tutto ipotetico dai costi e dai tempi della giustizia ordinaria.

I provider, assurti al ruolo di organi giudiziari, pronunciano sentenze: ed è del tutto ovvio che tali decisioni vengano prese in funzione degli interessi economici delle big data companies e non certo per tutelare i diritti individuali. Se qualcuno si aspetta “giustizia”, con quali aspettative può cercarla in decisioni prese da aziende private, animate dal fine del profitto e non dall’interesse pubblico?

Dall’ultimo dei provider al primo dei social network, questi attori sono società commerciali con scopi di lucro: lucro che passa oggi necessariamente dal controllo di dati e informazioni. Ogni dato, anche quello apparentemente più insignificante, ha un valore economico. Ogni informazione, anche quella più tossica, ha un valore economico. Ma dati e informazioni stanno mostrando con sempre maggiore evidenza di avere un valore politico oltre che economico.  

La storia della “libertà della rete” si rivela adesso per quello che veramente è: una favola. La rete non è affatto libera e neppure neutrale. O meglio: la sua libertà e la sua neutralità sono obiettivi politici da conseguire, ma non sono certo qualità intrinseche del web. La possibilità di interazione tra individui senza vincoli di collocazione geografica è stata interpretata come l’avvio di un inarrestabile processo di democratizzazione. Ma quanto fosse ingenua questa visione è stato dimostrato dalla storia recente della rete: dall’originaria idea di network “distribuito”, essa è diventata “decentralizzata” e “policentrica”. In altre parole, l’evoluzione della rete ha comportato nuove forme di concentrazione del potere, risultando sempre più dominata da oligopoli privati.

Internet e WWW non sono sinonimo di libertà. La rete non è uno spazio anarchico, ma è un territorio che richiede governo. Il caso della sospensione degli account social di Donald Trump chiarisce una volta di più quali sono le questioni aperte: chi governa la rete? chi fissa le regole? chi decide?

La risposta, ad oggi, è che a decidere sono le big companies. Non è vero che mancano le regole: le regole ci sono, il problema è che c’è un oligopolio tecnologico che pretende il monopolio normativo in causa propria. E in questa chiave c’è da aspettarsi una comune levata di scudi con l’obiettivo di rinforzare la già diffusa strategia della self-regulation ed evitare così possibili intromissioni da parte dei legislatori nazionali o sovranazionali. Ma questa modalità di autodisciplina può essere considerata soddisfacente, quando in ballo c’è il Commander-in-Chief dell’esercito più potente della terra?

A seguito della sospensione dell’account di Trump, i titoli di Twitter hanno perso il 10.7% a Wall Street. Si tratta di una perdita enorme, che potrebbe far pensare (qualora sia stata preventivata) che la decisione di Twitter abbia obbedito a ragioni non economiche. Occorre invece tener presente che con i suoi cinguettii il presidente avrebbe potuto creare danni  ancora più ingenti. Del resto, nel 2017 un solo post in cui Trump criticava Amazon («Amazon is doing great damage to tax paying retailers. Towns, cities and states throughout the U.S. are being hurt – many jobs being lost! ») aveva comportato una perdita in borsa per il colosso di Bezos di circa 6 miliardi di dollari.

Esattamente un anno prima del ban contro Trump, un’azione di Twitter veniva scambiata per 33 dollari. Oggi, nonostante il calo appena ricordato, vale più di 45 dollari. Nel silenzio delle oche del Campidoglio e senza i cinguettii di Donald, risuona più forte il ticchettio dei tasti delle calcolatrici.

Stefano Pietropaoli|

https://www.lafionda.org/2021/01/19/lultimo-cinguettio-di-donald-twitter-trump-e-le-oche-del-campidoglio/