San Giuseppe, primo di tutti i santi e patrono della Chiesa
In questi tempi così drammatici a causa della pandemia da Covid-19, resa ancor più terribile dalla chiusura delle chiese, dalle morti in solitudine e senza conforti religiosi e dalla privazione dei funerali, è giunto il momento di pregare con più forza san Giuseppe, da sempre considerato patrono degli agonizzanti, da invocare per ottenere una buona morte, vale a dire una morte in grazia di Dio. Per ottenere questa grazia, che è la più importante e decisiva della vita, occorre pregare non nell’estremo momento della nostra esistenza, quando forse ci mancheranno le forze o la lucidità per farlo, ma durante la vita, quando si è ancora in salute. E, oltre che per noi, bisogna farlo per tutti coloro che stanno morendo e che non possono farlo, affinché salvino la loro anima.
Nel motu proprio Bonum sane, del 1920, celebrando il cinquantenario della sua proclamazione quale Patrono della Chiesa, papa Benedetto XV ricordava che san Giuseppe «è meritatamente ritenuto come il più efficace protettore dei moribondi, essendo spirato con l’assistenza di Gesù e Maria». Anche per questo, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, il Papa raccomandava ai vescovi di favorire tutti «quei pii sodalizi che sono stati istituiti per supplicare Giuseppe a favore dei moribondi, come quelli “della buona morte”, del “transito di san Giuseppe” e “per gli agonizzanti”».
Lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1014) ricorda: «La Chiesa ci incoraggia a prepararci all’ora della nostra morte (“Dalla morte improvvisa, liberaci, Signore”: antica Litania dei santi), a chiedere alla Madre di Dio di intercedere per noi “nell’ora della nostra morte” (Ave Maria) e ad affidarci a san Giuseppe, patrono della buona morte».
«Alla scuola di Giuseppe, imparino tutti a considerare le cose presenti, che passano, alla luce delle future che durano eterne; e consolando gl’inevitabili disagi della condizione umana con la speranza dei beni celesti, a questi aspirino ubbidendo al divino volere, vivendo sobriamente, secondo i dettami della giustizia e della pietà» (Benedetto XV, Bonum sane).
Assunzione di san Giuseppe?
A questo punto è interessante segnalare che molti santi, tra i quali Bernardino da Siena, Francesco di Sales e Alfonso Maria de’ Liguori, hanno piamente creduto nell’assunzione in Cielo in corpo e anima di san Giuseppe, avvenuta subito dopo la risurrezione di Gesù, nel contesto degli avvenimenti raccontati dal Vangelo di Matteo (Mt 27, 52-53). Anche papa Giovanni XXIII era di questa opinione. La teologia ha dato molte ragioni per sostenere quella che comunque resta un’ipotesi, sebbene molto affascinante e certamente ragionevole. In estrema sintesi se ne possono indicare tre in particolare.
La prima: san Giuseppe, nella sua vita terrena, ha avuto uno strettissimo contatto fisico con la santa Umanità di Cristo e con la Madonna. Ebbene, se si trovasse in Paradiso solo con l’anima, avrebbe meno intimità con Cristo e Maria Santissima e quindi meno felicità in Cielo di quanta ne aveva sulla terra, fatto alquanto singolare e sconveniente.
La seconda: alla purezza verginale del corpo di san Giuseppe e all’assenza del minimo peccato veniale deliberatamente commesso conviene il premio della risurrezione corporea.
La terza: la Vergine Maria, a parte il Figlio, non ha amato nessuno come san Giuseppe, suo sposo. Allo stesso modo, anche Gesù, dopo sua madre, non ha amato nessuna altra creatura come san Giuseppe. È pertanto assai logico che Gesù (e di conseguenza anche Maria) abbia voluto premiare il suo padre putativo con il dono dell’assunzione in Cielo, andando così a ricostituire la Sacra Famiglia in Paradiso.
Il primo di tutti i santi
San Giuseppe merita il culto di protodulìa, vale a dire che è il primo e il più santo di tutti i santi e quindi ha diritto ad un culto tutto particolare. Ne consegue che la sua intercessione, come insegnava tra gli altri santa Teresa d’Avila, è immensa, seconda solo a quella della Madonna. Ecco allora che pregare San Giuseppe non è come pregare qualunque altro santo. Del resto, i suoi privilegi sono eccezionali, dato il ruolo del tutto singolare che ha svolto nella storia della salvezza. La sua santità, va ripetuto, è seconda solo a quella della Vergine Maria.
«La Chiesa cattolica giustamente onora con un culto sempre più diffuso e venera con un sentimento di profondo affetto, l’illustre benedetto patriarca Giuseppe, ora coronato di gloria e di onore in Cielo. Sulla terra, l’Onnipotente Dio, preferendolo a tutti i Suoi Santi, lo destinò ad essere il casto e vero sposo dell’Immacolata Vergine Maria, così come il padre putativo del suo Unigenito Figlio. Egli certamente lo arricchì e lo colmò di grazie uniche e sovrabbondanti, rendendolo capace di eseguire più fedelmente i doveri di un così sublime stato. Perciò, i Romani Pontefici, Nostri Predecessori, al fine di incrementare e stimolare ardentemente sempre più nel cuore dei fedeli Cristiani l’affetto e la devozione verso il santo patriarca, e di esortarli ad implorare la sua intercessione presso Dio con la massima confidenza, non hanno mancato di decretare nuove e sempre maggiori espressioni di venerazione pubblica verso di lui in tutte le occasioni propizie» (papa Pio IX, Lettera Apostolica Inclytum Patriarcham, 1871).
Papa Pio XI insegnava che quella di san Giuseppe fu una missione unica, la più alta, in quanto egli fu Cooperatore all’Incarnazione e alla Redenzione. Infatti, quando venne eletto sposo di Maria e padre verginale di Gesù, san Giuseppe fu associato alla Redenzione del genere umano, in un modo singolare, pur inferiore rispetto a quello di Maria. San Giuseppe partecipò realmente alla Corredenzione in quanto reale padre nutrizio di Gesù e vero sposo di Maria. Giuseppe, come Maria, sebbene in grado meno elevato, ebbe da Dio tutte le grazie per essere degno sposo verginale di Maria; fu ordinato con Maria e dopo Maria all’Incarnazione del Verbo. Offrì tutte le sue fatiche e i suoi dolori spirituali per la Redenzione dell’umanità, conoscendo le sofferenze cui sarebbe andato incontro Gesù. Il cardinale Alessio Maria Lépicier affermava che san Giuseppe fu “Corredentore perfettissimo dopo Maria”. Secondo san Tommaso d’Aquino, Giuseppe “partecipò più di ogni altro, dopo la Madonna, alla Passione di Cristo”. Per Leone XIII, “non vi è dubbio che Giuseppe si sia avvicinato più di qualsiasi altro alla altissima dignità della Madre di Dio”. E Pio XI ribadiva: “Tra Dio e Giuseppe non c’è né può esservi un’altra persona se non Maria vera Madre di Dio”.
Secondo la sana teologia, è conveniente asserire che san Giuseppe non commise mai alcun peccato deliberato, neanche veniale. Giuseppe non fu preservato dalla concupiscenza, ma questa in lui non è mai passata all’azione. Perciò, secondo i teologi, Giuseppe fu confermato in grazia o reso impeccabile per dono gratuito di Dio. Inoltre fu esente dall’errore della ragione ed anche dal moto delle passioni inferiori, che pur esistendo in lui, erano tuttavia frenate o trattenute da Dio.
Papa Pio X fece comporre e indulgenziare le litanie in suo onore. Papa Benedetto XV introdusse un prefazio proprio per la sua Messa e inserì la sua invocazione nelle Lodi Divine. Nel 1962, papa Giovanni XIII (che al santo affidò i lavori del Concilio Vaticano II con la lettera apostolica Le Voci, del 1961), inserì il nome di san Giuseppe nel Canone della Messa e nel 2013 papa Francesco ha esteso il provvedimento ad altre preghiere eucaristiche.
A san Giuseppe è tradizionalmente dedicato il mese di marzo e il giorno di mercoledì. La sua festa è il 19 marzo, che fino al 1977 era giorno festivo in Italia (sarebbe bello e salutare ripristinarlo!), e che comunque resta tale secondo il Codice di diritto canonico. Pio XII, come detto, introdusse anche la festa del 1° maggio, cancellando però quella del Patrocinio di san Giuseppe, voluta da Pio IX (mercoledì seguente la seconda domenica dopo Pasqua) e ora unita alla festa del 19 marzo.
San Giuseppe, patrono della Chiesa cattolica
Quando papa Pio IX, con il decreto Quemadmodum Deus, dichiarò san Giuseppe patrono della Chiesa cattolica (8 dicembre 1870), Roma era stata da poco occupata dalle truppe piemontesi e lo Stato pontificio era stato cancellato dalle cartine geografiche, sostituito da un governo di stampo laico e anticlericale. La Chiesa si trovava in un momento difficilissimo della sua storia. Oggi, però, la situazione generale è peggiorata ulteriormente. La Chiesa naviga in acque tempestose, perché i pericoli non vengono solo dall’esterno, bensì – e forse ancor più – dal suo interno. La confusione regna sovrana, gli scandali aumentano e spesso non si predica più la dottrina cattolica, bensì un pensiero che nulla a che vedere con Gesù Cristo e il magistero millenario. Ecco allora che l’intercessione di san Giuseppe diventa necessaria, oggi più di centocinquanta anni fa.
Ma perché san Giuseppe è patrono della Chiesa? Oltre a Pio IX, che sin dalla giovinezza nutrì sempre molta devozione per questo santo, lo spiegò bene papa Leone XIII.
«Le ragioni per cui il beato Giuseppe deve essere patrono speciale della Chiesa, e la Chiesa ripromettersi moltissimo dalla tutela e dal patrocinio di lui, nascono principalmente dal fatto che egli fu sposo di Maria e padre putativo di Gesù Cristo. Da qui derivarono tutta la sua grandezza, la grazia, la santità e la gloria. Certamente la dignità di Madre di Dio è tanto in alto che nulla vi può essere di più sublime. Ma poiché tra Giuseppe e la beatissima Vergine esistette un nodo coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto nessun altro mai. […] È dunque cosa giusta e sommamente degna del beato Giuseppe che, come egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora col suo celeste patrocinio protegga e difenda la Chiesa di Cristo». (Leone XIII, Quamquam pluries).
Apparizione a Fatima
Nell’ultima delle apparizioni di Fatima, il 13 ottobre 1917, accanto alla Vergine e al Bambino Gesù apparve anche san Giuseppe. Come racconta suor Lucia, “san Giuseppe e il Bambino sembravano benedire il mondo, con alcuni gesti in forma di croce tracciati con la mano”. Lo sposo castissimo della Madonna e padre putativo di Gesù distribuisce quindi insieme a loro le grazie ed intercede a nostro favore.
Il gesuita Francisco Suárez osservava che, data l’unione sponsale, nessun’altra creatura è stata amata dalla Madonna come Giuseppe: «È verosimile – argomentava – che la Beata Vergine abbia desiderato esimi doni di grazie e aiuti per il suo sposo, che amava in modo singolare, e li abbia impetrati con le sue preghiere. Infatti, se è vero come è vero che uno dei mezzi più efficaci per ottenere da Dio i doni della grazia è la devozione verso la Vergine e la sua intercessione, chi può credere che il santissimo Giuseppe, dilettissimo alla Vergine e devotissimo, non abbia ottenuto per suo mezzo l’esimia perfezione della santità?».
San Giuseppe, presente solo al termine delle apparizioni di Fatima, sembra quindi presentarsi sia come grande devoto della Madonna sia come patrono dell’ultima ora, per accompagnare l’umanità in un tempo terribile quale quello che stiamo tuttora vivendo. Così come, durante la sua vita terrena, fu sostegno e custode del piccolo Gesù e della Vergine nel duro e difficile passaggio di questo mondo, tanto più oggi continua ad assisterci in mezzo ai travagli della nostra esistenza.
Ecco allora che l’Anno di san Giuseppe che stiamo vivendo, come ricorda il decreto della Penitenzieria Apostolica, offre a tutti i fedeli «la possibilità di impegnarsi, con preghiere e buone opere, per ottenere con l’aiuto di san Giuseppe, capo della celeste Famiglia di Nazareth, conforto e sollievo dalle gravi tribolazioni umane e sociali che oggi attanagliano il mondo contemporaneo».
3 – Fine. I precedenti articoli sono stati pubblicati il 17 e il 18 marzo
di Federico Catani
BDV, e la Melanconia del Rione Monti senza il Viva San Giuseppe!
19 Marzo 2021 1 Commento
Marco Tosatti
Carissimi Stilumcuriali, Benedetta De Vito pensa con melanconia alla processione che si svolgeva – fino a due anni fa – per le strade del Rione Monti in onore di San Giuseppe, e che a causa dell’emergenza proclamata per il Covid è stata sospesa. Buona lettura.
§§§
Nel giorno di San Giuseppe, il Rione Monti, dove vivo – e che è Primo rione romano – si svegliava nella messa dedicata al padre putativo di Gesù celebrata nella chiesina di San Lorenzo in Fonte, incastonata, come casa tra case, nel rettifilo di Via Urbana. Una chiesa-casa che, infatti, fu l’abitazione, ai tempi del martirio, del centurione che arrestò il diacono spagnolo e che da lui fu miracolosamente convertito.
Finita la santa messa ecco i falegnami del Rione, Giuseppe, Donato e gli altri (che chi uno chi l’altro han fatto lavoretti a casa mia), in pettorina color cielo con su scritto “W San Giuseppe”, arrotolandosi le maniche, prendevano la gran macchina del Patrono e, sollevandola più in alto, al grido di viva San Giuseppe, davano il via alla processione, nel filo di serpente di devoti che li seguiva.
Tra gli altri, io pure, a volte con la mia amica Graziella che è monticiana per matrimonio e mia compagna di messe domenicali. Giriamo sulla sinistra per Via Panisperna, poi giù diritto fino ai Serpenti, il Corso dei Monti, per lambir la Chiesa della Madonna dei Monti e ritornar, seguendo via Leonina, al punto di partenza.
E intanto, tra un passo e l’altro, snoccioliamo rosari di Ave San Giuseppe, e cantiamo, mentre dalle case si affacciano alle finestre i curiosi, alcuni – rari – gettano giù i drappi – e altri ancora si uniscono al corteo. Mentre i turisti, che allora popolavano il Rione, scattavano fotografie e facevano piccoli video come souvenir di una devozione antica che regalava il palpito della romanità cattolica al viaggio italiano.
Oggi, e per due anni di seguito ormai, la processione è “assembramento”, una parolaccia, e non si fa più. Così il Rione resta muto, senza il suo Patrono, senza il cibo del Santo Spirito che, per chi crede, è quasi più nutriente del pane e prosciutto. Il gran San Giuseppe, vestito di viola e di marrone, resta nella chiesina dove, in una cappellina sulla destra, dove sono solita restar sola in preghiera, potrete trovare anche una statua di Cristo incoronato di spine e chissà perché porta uno scapolare trinitario…
Così, senza processione, e un poco mesta, eccomi a festeggiar il Santo che è il padre nel mondo di Gesù e che è l’esempio per tutti i padri di ieri e di oggi. E siccome quelli di oggi li vediamo tutti, più o meno, come sono, io parlerò di quelli di una volta, che, come ho scritto, non uscivano di casa senza essersi messi in testa un bel cappello borsalino e che erano di poche parole, rare coccole, eppure presenti, come un argine nel caos.
Chiudo gli occhi, serro la mente e mi vedo ragazzina, forse già alle medie. Ho gli stessi capelli di ora, lunghi, spinaci come si diceva, e lo sguardo a punta. Siamo a tavola, una famiglia numerosa come s’usava allora e nessuno osava alzarsi prima del tempo né, se bambino, prender la parola quando parlavano i “grandi”. D’un tratto, mio padre, si gira verso di me e mi domanda: “Tu, Benedetta, che classe fai?”. Rispose per me mia madre perché era lei a tenere il calcolo di tutti e cinque, dei voti, delle maestre, rette da pagare, divise da comperare, insomma tutto il corredo di aver figlioli. A pagare i conti, che mia madre si premurava di temperare al massimo con salde economie, era mio padre. Insieme, in tandem, ci hanno tirato su benino, con i guai che hanno tutti, ma non troppi: un ingegnere, un medico, una storica dell’arte, un agronomo e ultima io.
Mio padre a volte alzava anche la voce e, nel farlo, diventava rosso paonazzo e, alterato, ruggiva, “Mi domando e diko”, come se il dico fosse scritto, appunto, con una cappa e lui usasse i due verbi come un coltellaccio per segnare con il pennarello rosso le nostre mancanze. E mi faceva paura, una sana paura che mi frenava dal far cose pericolose per me eppure vagheggiate dal mondo intorno in tentazione e fremito. Se diceva “stupida” lo diceva facendo diventare la “s” una “sc” e la voce si armava di un’accetta invisibile che mi tagliava le parole in gola.
Tacevo. Imparavo a tacere, invece di proferir tante corbellerie come ne sparano oggi in televisione. Imparavo io, come aveva imparato lui. Bambino, vestito già da ometto, veniva portato da suo padre a far bella figura dagli zii, senatori del Regno e uno ministro dei Lavori pubblici. I due zii, barba, baffi, occhiali, rigorosi, alti, solenni, un dagherrotipo ottocentesco, lo interrogavano sui voti presi a scuola. Poi, il piccolo prigioniero veniva liberato ed era tempo di correre dalle zie, sorelle anche loro, che gli davano i dolcetti. Tutt’e due, ricordava mio padre, avevano i capelli allacciati sulla nuca, bianchi come meringhe, e intorno al collo un laccetto nero…
Questi, in pennellata impressionista, erano i padri di una volta. Quelli di oggi, che, poveretti, non sanno bene dove stanno in piedi (perché esser maschio oggi è difficile, come scalare l’Everest in pantofole) vanno un poco a tentoni, tra l’abbaiar del politicamente corretto. Tanto per cominciare, si offre ai ragazzi un modello ambiguo, efebico quasi, depilato, elegante, un pelo sbarazzino, mentre i maschi dei miei tempi puzzavano di sudore, andavano di rado dal barbiere e mai a fare shopping. Rido tra me ripensando a una nursery rhyme che recitavo da piccola: “What are little boys made of? Frogs and snails and puppy dog’s tails. What are little girls made of? Sugar and spice and everything nice. Differenza di genere, un tempo si imparava da piccoli, con l’abbicci… Vabbè, sento una vocina che mi controbatte: “Anche i ragazzi di oggi portano il cappello, che mi dici degli hipster?” Oh quelli non sono cappelli, rispondo, ma un vezzo a copricapo, non severa sudditanza al Divino, ma segno di appartenenza ad una tribù e anche, cartolina di cattivo gusto.
Secondo poi, un papà non deve mai e poi mai né mettere in riga, né alzar la voce, né correggere, né, per carità, sgridare. Sono tutti amiconi i papà di oggi e sanno sempre, per dir così, che classe frequenti e anche i voti che prendi. Le mamme, oramai tutte lavoro e lavoro, invece, a volte non lo sanno. E in questa confusione di ruoli, perduti, i figli crescono non sapendo bene quale è il posto loro nel mondo e dove trovare conforto e forza. E a volte, spesso, si perdono. Chi, chiuso in casa, chi a rovinarsi con la droga e chi a inseguir altri fantasmi. La via per ritornar a mettere giusto il sale sulla pietanza è quello di tornar a vivere nella Santa Legge del Signore che ci ha fatti maschi e femmine per stare insieme e camminare in armonia. Dove c’è una mamma vera, c’è anche un padre vero e i figli, salvo naturalmente portar la croce loro, sono beati e possono mettere radici.
Nel giorno di San Giuseppe, il Rione Monti, dove vivo – e che è Primo rione romano – si svegliava nella messa dedicata al padre putativo di Gesù celebrata nella chiesina di San Lorenzo in Fonte, incastonata, come casa tra case, nel rettifilo di Via Urbana. Una chiesa-casa che, infatti, fu l’abitazione, ai tempi del martirio, del centurione che arrestò il diacono spagnolo e che da lui fu miracolosamente convertito.
Finita la santa messa ecco i falegnami del Rione, Giuseppe, Donato e gli altri (che chi uno chi l’altro han fatto lavoretti a casa mia), in pettorina color cielo con su scritto “W San Giuseppe”, arrotolandosi le maniche, prendevano la gran macchina del Patrono e, sollevandola più in alto, al grido di viva San Giuseppe, davano il via alla processione, nel filo di serpente di devoti che li seguiva.
Tra gli altri, io pure, a volte con la mia amica Graziella che è monticiana per matrimonio e mia compagna di messe domenicali. Giriamo sulla sinistra per Via Panisperna, poi giù diritto fino ai Serpenti, il Corso dei Monti, per lambir la Chiesa della Madonna dei Monti e ritornar, seguendo via Leonina, al punto di partenza.
E intanto, tra un passo e l’altro, snoccioliamo rosari di Ave San Giuseppe, e cantiamo, mentre dalle case si affacciano alle finestre i curiosi, alcuni – rari – gettano giù i drappi – e altri ancora si uniscono al corteo. Mentre i turisti, che allora popolavano il Rione, scattavano fotografie e facevano piccoli video come souvenir di una devozione antica che regalava il palpito della romanità cattolica al viaggio italiano.
Oggi, e per due anni di seguito ormai, la processione è “assembramento”, una parolaccia, e non si fa più. Così il Rione resta muto, senza il suo Patrono, senza il cibo del Santo Spirito che, per chi crede, è quasi più nutriente del pane e prosciutto. Il gran San Giuseppe, vestito di viola e di marrone, resta nella chiesina dove, in una cappellina sulla destra, dove sono solita restar sola in preghiera, potrete trovare anche una statua di Cristo incoronato di spine e chissà perché porta uno scapolare trinitario…
Così, senza processione, e un poco mesta, eccomi a festeggiar il Santo che è il padre nel mondo di Gesù e che è l’esempio per tutti i padri di ieri e di oggi. E siccome quelli di oggi li vediamo tutti, più o meno, come sono, io parlerò di quelli di una volta, che, come ho scritto, non uscivano di casa senza essersi messi in testa un bel cappello borsalino e che erano di poche parole, rare coccole, eppure presenti, come un argine nel caos.
Chiudo gli occhi, serro la mente e mi vedo ragazzina, forse già alle medie. Ho gli stessi capelli di ora, lunghi, spinaci come si diceva, e lo sguardo a punta. Siamo a tavola, una famiglia numerosa come s’usava allora e nessuno osava alzarsi prima del tempo né, se bambino, prender la parola quando parlavano i “grandi”. D’un tratto, mio padre, si gira verso di me e mi domanda: “Tu, Benedetta, che classe fai?”. Rispose per me mia madre perché era lei a tenere il calcolo di tutti e cinque, dei voti, delle maestre, rette da pagare, divise da comperare, insomma tutto il corredo di aver figlioli. A pagare i conti, che mia madre si premurava di temperare al massimo con salde economie, era mio padre. Insieme, in tandem, ci hanno tirato su benino, con i guai che hanno tutti, ma non troppi: un ingegnere, un medico, una storica dell’arte, un agronomo e ultima io.
Mio padre a volte alzava anche la voce e, nel farlo, diventava rosso paonazzo e, alterato, ruggiva, “Mi domando e diko”, come se il dico fosse scritto, appunto, con una cappa e lui usasse i due verbi come un coltellaccio per segnare con il pennarello rosso le nostre mancanze. E mi faceva paura, una sana paura che mi frenava dal far cose pericolose per me eppure vagheggiate dal mondo intorno in tentazione e fremito. Se diceva “stupida” lo diceva facendo diventare la “s” una “sc” e la voce si armava di un’accetta invisibile che mi tagliava le parole in gola.
Tacevo. Imparavo a tacere, invece di proferir tante corbellerie come ne sparano oggi in televisione. Imparavo io, come aveva imparato lui. Bambino, vestito già da ometto, veniva portato da suo padre a far bella figura dagli zii, senatori del Regno e uno ministro dei Lavori pubblici. I due zii, barba, baffi, occhiali, rigorosi, alti, solenni, un dagherrotipo ottocentesco, lo interrogavano sui voti presi a scuola. Poi, il piccolo prigioniero veniva liberato ed era tempo di correre dalle zie, sorelle anche loro, che gli davano i dolcetti. Tutt’e due, ricordava mio padre, avevano i capelli allacciati sulla nuca, bianchi come meringhe, e intorno al collo un laccetto nero…
Questi, in pennellata impressionista, erano i padri di una volta. Quelli di oggi, che, poveretti, non sanno bene dove stanno in piedi (perché esser maschio oggi è difficile, come scalare l’Everest in pantofole) vanno un poco a tentoni, tra l’abbaiar del politicamente corretto. Tanto per cominciare, si offre ai ragazzi un modello ambiguo, efebico quasi, depilato, elegante, un pelo sbarazzino, mentre i maschi dei miei tempi puzzavano di sudore, andavano di rado dal barbiere e mai a fare shopping. Rido tra me ripensando a una nursery rhyme che recitavo da piccola: “What are little boys made of? Frogs and snails and puppy dog’s tails. What are little girls made of? Sugar and spice and everything nice. Differenza di genere, un tempo si imparava da piccoli, con l’abbicci… Vabbè, sento una vocina che mi controbatte: “Anche i ragazzi di oggi portano il cappello, che mi dici degli hipster?” Oh quelli non sono cappelli, rispondo, ma un vezzo a copricapo, non severa sudditanza al Divino, ma segno di appartenenza ad una tribù e anche, cartolina di cattivo gusto.
Secondo poi, un papà non deve mai e poi mai né mettere in riga, né alzar la voce, né correggere, né, per carità, sgridare. Sono tutti amiconi i papà di oggi e sanno sempre, per dir così, che classe frequenti e anche i voti che prendi. Le mamme, oramai tutte lavoro e lavoro, invece, a volte non lo sanno. E in questa confusione di ruoli, perduti, i figli crescono non sapendo bene quale è il posto loro nel mondo e dove trovare conforto e forza. E a volte, spesso, si perdono. Chi, chiuso in casa, chi a rovinarsi con la droga e chi a inseguir altri fantasmi. La via per ritornar a mettere giusto il sale sulla pietanza è quello di tornar a vivere nella Santa Legge del Signore che ci ha fatti maschi e femmine per stare insieme e camminare in armonia. Dove c’è una mamma vera, c’è anche un padre vero e i figli, salvo naturalmente portar la croce loro, sono beati e possono mettere radici.
San Giuseppe, un modello
Come possiamo accostarci alla figura di san Giuseppe, del quale celebriamo la memoria liturgica? Vi invito a leggere o a rileggere, “assorbendola”, l’esortazione apostolica di san Giovanni Paolo II Redemptoris custos, dedicata a san Giuseppe, dalla quale estrarremo qui alcuni spunti di riflessione.
Un modello
In questo testo troviamo la parola “modello” («san Giuseppe è un modello», nn. 21 e seg.), come l’abbiamo appena tracciata: «Si tratta, in definitiva, della santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello accessibile a tutti» (n. 24). Modello vuol dire che “per analogia” noi possiamo fare in certa misura come lui, nella diversità della nostra condizione e vocazione. In che modo Giuseppe è un “modello”, ovvero una esemplificazione di un “metodo” nel vivere la fede? È un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo”. Anche lui, insieme a Maria, si è trovato coinvolto direttamente a partecipare all’Incarnazione del Verbo.
1 – Un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo” attraverso la paternità legale
«La sua paternità si è espressa concretamente “nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia [come padre anagrafico di Gesù], per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro» (n. 8).
Lui in una maniera “unica” e non “delegabile” come padre anagrafico, “legale” (“putativo”) di Gesù, presso la società degli uomini.
Noi (parafrasando) nel fare della nostra vita un sacrificio, un servizio al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’usare dell’autorità legale [la paternità è anche legale, sociale, civilizzatrice e non solo biologica], che a noi spetta sulla nostra vita e la nostra famiglia, per farle totale dono di noi stessi, della nostra vita, del nostro lavoro. La legalità sancisce la dimensione pubblica dell’affidamento del “deposito da custodire” che ci viene assegnato come sposi, genitori o sacerdoti.
2 – Un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo” attraverso il lavoro
Da Giuseppe possiamo imparare a lavorare come collaboratori attivi del Creatore («L’uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all’opera del Creatore», Laborem exercens, n. 25) e del Redentore («Sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l’uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione dell’umanità», Laborem exercens, n. 27), per la parte che ci è affidata e ci compete in modo unico e irripetibile. La Chiesa ha messo questo in rilievo pure con la memoria liturgica di san Giuseppe lavoratore, fissata al primo maggio. Giuseppe nel Vangelo è un “carpentiere”, un lavoratore.
3 – Un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo” attraverso l’essere sposo di Maria
Se in Maria la partecipazione all’incarnazione del Verbo, e quindi al piano della Redenzione, è addirittura anche biologica, fisica, corporea, oltre che esistenziale, spirituale (al punto di meritare il titolo di “corredentrice”), in Giuseppe la stessa partecipazione avviene nel prenderla come sposa, rendendo possibile per lei – come per lui – una vocazione familiare, nel rispetto totale della sua verginità, alla quale anche lui viene chiamato. «Proprio a questo mistero Giuseppe di Nazaret “partecipò” come nessun’altra persona umana, ad eccezione di Maria, la madre del Verbo incarnato. Egli vi partecipò insieme con lei, coinvolto nella realtà dello stesso evento salvifico, e fu depositario dello stesso amore, per la cui potenza l’eterno Padre “ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,5)» (Redemptoris custos, n. 1).
«Giuseppe ascolta non solo la verità divina circa l’ineffabile vocazione della sua sposa, ma vi riascolta, altresì, la verità circa la propria vocazione» (n. 19).
Nella vita, quando si è così legati, la vocazione dell’uno diviene vocazione dell’altro. C’è una vocazione ad essere genitori di un figlio che si consacra a Dio; c’è una vocazione ad essere sposo di colui che si lega alla sposa e reciprocamente; c’è una vocazione ad essere genitori di un figlio o una figlia che non scegli a modo tuo, ma ricevi in dono da Dio, e c’è una vocazione ad essere figli dei nostri genitori. Per questo non ha senso fare le cose in provetta!
«Si può dire che quello che Giuseppe fece lo unì in modo del tutto speciale alla fede di Maria: egli accettò come verità proveniente da Dio ciò che ella aveva già accettato nell’Annunciazione» (n. 4).
4 – Un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo” attraverso l’essere custode del mistero dell’Incarnazione racchiuso nella Sacra Famiglia e nella Santa Chiesa.
«Egli, pertanto, divenne un singolare depositario del mistero “nascosto da secoli nella mente di Dio” (cfr. Ef 3,9), come lo divenne Maria» (n. 5).
«Di questo mistero divino Giuseppe è insieme con Maria il primo depositario» (n. 5).
«Si può anche dire che Giuseppe è il primo a partecipare alla fede della Madre di Dio, e che, così facendo, sostiene la sua sposa nella fede della divina Annunciazione» (n. 5).
Il sostegno è reciproco: «Il matrimonio con Maria è il fondamento giuridico della paternità di Giuseppe. È per assicurare la protezione paterna a Gesù che Dio sceglie Giuseppe come sposo di Maria. Ne segue che la paternità di Giuseppe […] passa attraverso il matrimonio con Maria, cioè attraverso la famiglia» (n. 7); «“glielo ha dato non solo a compagno della vita, testimone della verginità e tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, per mezzo del patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei” [Leone XIII, Quamquam Pluries]» (n. 20).
Gli sposi partecipano l’uno alla vocazione dell’altro: l’uno è coinvolto in ciò che l’altro è chiamato da Dio, ad essere: provate, coloro che di voi sono sposati, a pensarvi così e a regolarvi così nel vostro modo di trattarvi, di parlarvi, di stimarvi. Il matrimonio cristiano è l’incontro tra due fedi nello stesso Signore Gesù Cristo, che viene custodito come un figlio in casa propria dagli sposi e come l’Eucaristia dai sacerdoti.
Se si impara a questa scuola di vita, in casa, si trattano di conseguenza in modo più vero anche quelli che sono fuori di casa, al lavoro, nella comunità ecclesiale e nel mondo.
Non a caso Giuseppe, “custode della Sacra Famiglia”, è stato dichiarato anche “custode e patrono della Chiesa”, che della Sacra Famiglia è l’estensione lungo la storia.
«Pio IX, volendo affidarla alla speciale protezione del santo patriarca Giuseppe, lo dichiarò “Patrono della Chiesa cattolica” [Quemadmodum Deus]» (n. 28).
«Giuseppe fu a suo tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina Famiglia… È dunque cosa conveniente e sommamente degna del beato Giuseppe, che, a quel modo che egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora copra e difenda col suo celeste patrocinio la Chiesa di Cristo” [Leone XIII, Quamquam Pluries]» (n. 28).
E custodendo la Chiesa, la rende custode del “deposito della fede”. Il “deposito” è qualcosa da custodire, che gli altri non sanno quanto sia prezioso e non devono rovinare, ma essere aiutati ad ammirare come un tesoro e ad imparare a conoscere per imparare a viverne.
5 – Un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo” attraverso l’essere uomo “giusto”
«Insieme con l’assunzione dell’umanità, in Cristo è anche “assunto” tutto ciò che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua esistenza in terra. In questo contesto è anche “assunta” la paternità umana di Giuseppe» (n. 21).
In un primo momento «“Giuseppe suo sposo che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto” (Mt 1,19)»; ma «quest’uomo “giusto” che, nello spirito delle più nobili tradizioni del popolo eletto, amava la Vergine di Nazaret ed a lei si era legato con amore sponsale, è nuovamente chiamato da Dio a questo amore [di sposo]» (n. 19) per compiere un opera di “giustizia” più grande di quella di un sposo ordinario – come aveva immaginato – ed essere collaboratore della Redenzione di Cristo, cioè della restituzione della “giustizia” perduta dal genere umano con il peccato di origine. Per questo «“Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa” [Mt 1,24]» (n. 19).
«Ciò che egli fece è purissima “obbedienza della fede”» (n. 4).
Il fondamento di una vita familiare e sacerdotale serena risiede in questa obbedienza intelligente e affezionata a Cristo pensato permanentemente come parte della propria casa. In una casa cristiana, non si ragiona senza di Lui. È un’obbedienza condivisa ciò che regge per tutta la vita un matrimonio così come ogni vocazione di consacrazione a Dio.
6 – Un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo” attraverso l’essere uomo “silenzioso” che “agisce”. Di Giuseppe i Vangeli non riportano una sola parola, presentandolo come uomo del “silenzio” e nel contempo “operoso”. Un uomo dell’ora et labora (per dirlo con una formula benedettina più tardiva).
«I Vangeli parlano esclusivamente di ciò che Giuseppe “fece”; tuttavia, consentono di scoprire nelle sue “azioni”, avvolte dal silenzio, un clima di profonda contemplazione. Giuseppe era in quotidiano contatto col mistero “nascosto da secoli”, che “prese dimora” sotto il tetto di casa sua» (n. 25).
Vorrei concludere con le parole di Benedetto XVI, a proposito del silenzio di Giuseppe.
«Un silenzio grazie al quale Giuseppe, all’unisono con Maria, custodisce la Parola di Dio, conosciuta attraverso le Sacre Scritture, confrontandola continuamente con gli avvenimenti della vita di Gesù; un silenzio intessuto di preghiera costante, preghiera di benedizione del Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza. Non si esagera se si pensa che proprio dal “padre” Giuseppe Gesù abbia appreso – sul piano umano – quella robusta interiorità che è presupposto dell’autentica giustizia, la “giustizia superiore”, che Egli un giorno insegnerà ai suoi discepoli (cfr Mt 5,20).
Lasciamoci “contagiare” dal silenzio di san Giuseppe! Ne abbiamo tanto bisogno, in un mondo spesso troppo rumoroso, che non favorisce il raccoglimento e l’ascolto della voce di Dio. […] Coltiviamo il raccoglimento interiore, per accogliere e custodire Gesù nella nostra vita» (Angelus, domenica 18 dicembre 2005).
Fonte: albertostrumia.it – video YouTube
di don Alberto Strumia
San Giuseppe, il padre da imitare
La gloria maggiore di san Giuseppe risiede nell’aver servito «direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità», come insegna la Redemptoris Custos. Lo sposo di Maria svolse il suo ruolo paterno con un unico fine: fare la volontà del Padre celeste. Per questo i padri di sempre hanno in lui, maestro di vita interiore, il modello più grande.
La Chiesa e il mondo hanno bisogno di padri, ha ricordato Francesco nella lettera apostolica Patris Corde. Questo bisogno si avverte tanto più urgente nella società attuale. E un giorno, forse, anche gli storici riconosceranno che i mali odierni sono legati in buona parte all’indebolimento e al disconoscimento della figura paterna, causati da cultura dell’individualismo, Sessantotto e relative “conquiste” (divorzio, aborto, fecondazione artificiale, liquidità sessuale, ecc.).
Ma ai suddetti mali c’è un antidoto di nome san Giuseppe, che è il migliore dei padri di tutti i tempi perché in ogni suo giorno terreno accanto a Gesù ha seguito un unico fine: fare la volontà del Padre celeste. Come spiega san Paolo VI, la paternità di san Giuseppe si è manifestata «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’Incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla Sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro…».
Nella stessa prospettiva san Giovanni Paolo II ha voluto che la Redemptoris Custos - l’esortazione apostolica dedicata al padre di Gesù e che più di ogni altro documento pontificio si sofferma organicamente sull’importanza della sua paternità - evidenziasse già nel titolo [1] la sua qualità di «custode». L’idea era quella di far presente che il vero padre è un vero custode, cioè un uomo che esercita la sua paternità come un servizio verso qualcuno - il figlio - che non è sua proprietà bensì di Dio. Ed è perciò a Dio che i figli vanno condotti, assecondando i progetti che il Padre eterno ha su di loro.
La paternità di san Giuseppe non discende dalla generazione, eppure «possiede in pieno l’autenticità della paternità umana, della missione paterna nella famiglia» (RC, 21). È da ricordare che i suoi diritti-doveri paterni verso Gesù derivano dal matrimonio con Maria, con la quale Giuseppe aveva condiviso (facendolo lui stesso) il voto assoluto di verginità. «Ciò che lo Spirito Santo ha operato - spiega sant’Agostino - lo ha operato in tutti e due… Lo Spirito Santo, riposandosi sulla giustizia di entrambi, ad entrambi ha donato il figlio; ha operato in quel sesso al quale toccava partorirlo, ma così che nascesse anche per il marito».
Maria e Giuseppe erano stati infatti pensati insieme, dall’eternità, in vista dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Il loro matrimonio ha avuto non solo quella che san Tommaso chiama «prima perfezione» (l’unione indivisibile degli animi) ma anche la «seconda perfezione», in riguardo all’accoglienza ed educazione della prole. Per questi compiti, insieme alle cure materne di Maria, era quindi necessaria la presenza di Giuseppe che ha dovuto provvedere, da padre, a introdurre ordinatamente Gesù nel mondo. Giuseppe lo ha fatto assolvendo tutti i doveri derivanti dalle leggi umane e divine (l’imposizione del nome, l’iscrizione all’anagrafe di Betlemme durante il censimento di Augusto, la circoncisione, la presentazione al tempio, ecc.), proteggendo il Bambino dai pericoli, procurandogli il nutrimento, insegnandogli un mestiere, educandolo nei lunghi anni della Sua vita nascosta.
L’aspetto dell’educazione è evidentemente centrale e dà un’idea della grandezza del ruolo di Giuseppe (una grandezza seconda, tra le creature, solo a quella di Maria) nel piano della Redenzione. Afferma Giovanni Paolo II: «Si potrebbe pensare che Gesù, possedendo in sé la pienezza della divinità, non abbia avuto bisogno di educatori. Ma il mistero dell’Incarnazione ci rivela che il Figlio di Dio è venuto nel mondo in una condizione umana del tutto simile alla nostra, eccetto il peccato (cf. Eb 4, 15). Come avviene per ogni essere umano, la crescita di Gesù, dall’infanzia fino all’età adulta (cf. Lc 2, 40), ha avuto bisogno dell’azione educativa dei genitori. […] Accanto alla presenza materna di Maria, Gesù poteva contare sulla figura paterna di Giuseppe, uomo giusto (cf. Mt 1,19), che assicurava il necessario equilibrio dell’azione educativa. Esercitando la funzione di padre, Giuseppe ha cooperato con la sua sposa a rendere la casa di Nazaret un ambiente favorevole alla crescita ed alla maturazione personale del Salvatore dell’umanità […]» (Udienza generale del 4 dicembre 1996).
Da parte sua il Salvatore ha onorato, al massimo grado, il quarto comandamento. È stato attraverso la sua sottomissione a Maria e Giuseppe, «modelli di tutti gli educatori» (Wojtyla), che Gesù è cresciuto in sapienza, età e grazia (Lc 2, 52), santificando le relazioni familiari e preparandosi al fiat voluntas tua più difficile e grande, quello nell’Orto degli Ulivi. Risulta evidente anche qui, come in un circolo, la mirabilità dell’obbedienza: essa caratterizza tutti i rapporti interni alla Santa Famiglia (dove il capo è Giuseppe), ha come riferimento ultimo il Padre celeste e, dunque, per suo fine la carità, che consiste innanzitutto nella salvezza delle anime.
Com’è vero che la carità ha informato tutte le azioni paterne di Giuseppe, è altrettanto vero che alla sua base c’era - prima e durante il matrimonio con Maria - una profonda vita di preghiera. Non a caso i santi, Teresa d’Avila su tutti, hanno indicato e assunto il padre di Gesù come maestro di vita interiore. È dal personale e quotidiano rapporto con Dio che Giuseppe ha avuto in dono l’umiltà e tutte le grazie necessarie per svolgere l’altissimo ministero di custodire il Figlio eterno e Sua Madre. L’amore paterno che l’Onnipotente, attraverso tale rapporto, ha partecipato a Giuseppe non poteva che influire sulla stessa, perfetta, crescita umana di Gesù. Il quale, come scriveva Wojtyla nel libro “Alzatevi, andiamo!” (Mondadori, 2004), in quanto vero Dio, «aveva la propria esperienza della paternità divina e della figliolanza nel seno della Santissima Trinità»; e, in quanto vero uomo, «sperimentava la paternità di Dio attraverso il suo rapporto di figliolanza con san Giuseppe».
Pur nella singolarità dell’intera Santa Famiglia, resta perciò un fatto: Giuseppe richiama i padri di oggi al dovere di educare i figli nella fede, a guidarli giorno per giorno con il proprio esempio a custodire Gesù e Maria come i tesori più grandi. E a pregare il Padre delle Misericordie, chiedendogli di poter conoscere e fare, in ogni azione, la Sua volontà. È questa la sola garanzia se si vuole, per i figli, il bene eterno.
..................
[1] Il titolo Redemptoris Custos fu scelto personalmente da Giovanni Paolo II, come ha spiegato più volte padre Tarcisio Stramare (josefologo che collaborò all’impianto teologico di quell’esortazione apostolica e che inizialmente aveva suggerito di includere nel titolo il termine “pater”, convincendosi poi dell’opportunità della scelta del Santo Padre) nei propri libri e anche in un’intervista concessa al Timone (n. 193, marzo 2020) poche settimane prima di morire.Ermes Dovico
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.