Benedizione delle coppie dello stesso sesso. Quella volta che il Sant’Uffizio se ne lavò le mani
In questa fase di crescente, fragoroso rigetto – specie in terra germanica – del “Responsum” della congregazione per la dottrina della fede contro la benedizione delle coppie omosessuali, fa impressione il sapere che a Roma “già cinque secoli fa si sposavano tra uomini in chiesa”, come Settimo Cielo ha documentato in un precedente post.
In effetti, unioni dello stesso sesso hanno sempre costellato la storia della Chiesa, che sempre le ha condannate. Ma che tali unioni vogliano essere riconosciute come buone e legittime da una benedizione liturgica è novità di questi tempi. Con rarissimi precedenti.
Uno di tali precedenti è appunto quello riferito da Michel de Montaigne (vedi illustrazione) in un passo del suo “Viaggio in Italia” datato al 1581, che Settimo Cielo ha riprodotto integralmente.
Montaigne scrisse che in una chiesa di Roma, quella di San Giovanni a Porta Latina, “durante la messa si sposavano tra uomini con le stesse cerimonie che noi usiamo per i nostri matrimoni: facevano la comunione assieme, leggevano lo stesso Vangelo nuziale e poi dormivano ed abitavano insieme”.
E a loro giustificazione essi sostenevano che “siccome l’altra unione di uomini con donne era resa legittima solo dalla circostanza dello sposalizio, […] anche quest’altro atto sarebbe divenuto legittimo allo stesso modo, qualora l’avessero autorizzato i riti e i misteri della Chiesa”.
All’epoca quella vicenda, finita con la condanna a morte di otto di loro, fece molto rumore. Poi però su di essa fu esercitata una sorta di rimozione. L’insigne storico della Chiesa Ludwig von Pastor, nella sua celebre “Storia dei papi” pubblicata nel 1929, pur citando Montaigne, la declassò a una vicenda di “marrani” tornati all’ebraismo, processati per apostasia.
Invece è più che mai utile ricostruirne il reale svolgimento, vista l’impressionante similitudine con le odierne rivendicazioni di legittime e benedette unioni omosessuali. Ed è ciò che si può fare sulla base delle ricerche pubblicate da storici quali Nello Vian nel 1967 e Giuseppe Marcocci nel 2010.
La documentazione oggi disponibile è data da tre consistenti frammenti degli atti del processo, dai coevi dispacci inviati dai rappresentanti a Roma della repubblica di Venezia e del ducato di Urbino, dai registri dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato che assisteva i condannati, e da un paio di successive testimonianze.
Ed ecco che cosa accadde.
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Era l’estate del 1578, tre anni prima che Montaigne ne riferisse nel suo diario di viaggio. La mattina del 20 luglio, domenica, nella chiesa romana di San Giovanni a Porta Latina si era regolarmente celebrata la messa. I convenuti erano di varia età, tutti maschi e di diverse nazioni, molti iberici, qualche italiano, un albanese. Erano per lo più laici, con alcuni chierici e tre “romiti”, tutti di modesta condizione sociale. Si frequentavano da un anno o due e avevano costituito una sorta di confraternita, nella quale avevano un ruolo preminente il portoghese Marcos Pinto e lo spagnolo Alfonso de Robles. C’era anche un piccolo gruppo di ebrei che frequentava quella chiesa di sabato.
Tra tutti intercorrevano rapporti omosessuali consenzienti: stabili e di marcata impronta sentimentale come tra Robles e il barcaiolo albanese Battista, o più spesso discontinui come tra Pinto e i tre giovani “romiti”, o ancora con una marcata differenza tra i ruoli, con uno dei due a far da da “commare”, da femmina. Ma la celebrazione dei “matrimoni” era per tutti loro di importanza capitale. Era da poco finito il Concilio di Trento, che nel decreto “Tametsi” aveva imposto la celebrazione pubblica in chiesa del sacramento del matrimonio. E questo era il desiderio anche della confraternita di San Giovanni a Porta Latina, un desiderio che sapevano inesaudibile dalla società e dalla Chiesa del tempo, ma che volevano soddisfare da sé, applicando anche alle loro unioni tra maschi il solenne rito nuziale. Un’attitudine antesignana delle odierne benedizioni di coppia e, certo, tutta diversa da quella carnascialesca di una comitiva di chierici e giovani maschi scoperta a Napoli nel 1591 che faceva parodia dei riti nuziali con messe in scena irriverenti e scurrili.
Ebbene, quella domenica, a San Giovanni a Porta Latina, di “matrimonio” ne era in programma uno, subito dopo la messa, tra un giovane spagnolo e un certo frate Giuseppe. Il quale però cadde malato e non arrivò. Ma il banchetto di festeggiamento, che era stato preparato con cura, si tenne lo stesso, nei locali adiacenti alla chiesa. E al termine la compagnia, conversando, salì sulla torre ad ammirare il panorama di Roma. Quando all’improvviso fecero irruzione gli sbirri.
Nel fuggi fuggi ne furono catturati undici, subito rinchiusi nelle celle di Corte Savella. Di processarli non si occupò il Sant’Uffizio, nonostante l’eresia manifesta di quei riti nuziali celebrati tra maschi. Anzi, forse proprio per non imbarcarsi in una controversia teologica di tal fatta, dagli effetti difficili da calcolare, il supremo tribunale della dottrina se ne tenne lontano, al contrario di quanto avrebbe fatto col “Responsum” di cinque secoli dopo. L’incombenza fu lasciata al Tribunale Criminale del Governatore, che poteva procedere con rapidità e fermezza, limitandosi alla sola sodomia che all’epoca era reato gravissimo. Gli interrogatori furono condotti appendendo e stirando i malcapitati. Due furono risparmiati per aver risposto come dovuto; un altro, che era sacerdote, scampò per privilegio di foro. Otto furono condannati a morte.
Nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1578 gli otto furono affidati ai confortatori dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato. Si pentirono, fecero testamento delle loro poche cose, si confessarono. All’alba assistettero alla messa “et si comunicorno tutti divotamente”. In corteo raggiunsero Ponte Sant’Angelo e lì furono impiccati. Quindi i confortatori caricarono i loro corpi su una carretta e li portarono a Porta Latina, sul luogo del delitto, dove furono bruciati.
Ma la loro storia non svanì affatto in un baleno. Quando Montaigne visitò Roma, era sulla bocca di tutti. Nove anni dopo, nel 1587, durante la causa di canonizzazione di fra’ Felice da Cantalice, sei testimoni riferirono che un pio vignaiolo al servizio di uno di loro aveva visto l’inferno al modo di Dante, con “quelli spagnoli che furno brugiati a Porta Latina” nelle bolge dei dannati, ed era scampato dal finire in mezzo a loro grazie all’invocazione di fra’ Felice.
E quarant’anni dopo, nel 1618, lo scrivano veneto Giacomo Castellani, il traduttore italiano di Bartolomé de Las Casas, avvertì in un suo libello che a Roma, a San Giovanni a Porta Latina, aveva visto dipinta “l’historia di quegli spagnuoli i quali, avendo condotto seco alcuni giovanetti, in quella santa chiesa si sposarono con essi, come fussero donne”.
Quel dipinto è sparito, ma “l’historia” oggi continua più che mai. Con prevalente accento germanico. E con il Sant’Uffizio questa volta impegnato in prima persona e quasi da solo a fermare l’assalto, con la sola fragile arma della sua parola.
Settimo Cielo
di Sandro Magister 12 apr
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