Sul Decreto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, “Le associazioni di fedeli che disciplina l’esercizio del governo nelle associazioni internazionali di fedeli, private e pubbliche…” abbiamo già rilanciato due interventi (qui qui), riportiamo ora la posizione di mons. Nicola Bux, già consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede e della Congregazione delle cause dei santi sotto i papati di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, consultore della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, e consultore dell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del sommo pontefice. Mons. Bux è stato anche docente a Gerusalemme, Roma e Bari.

Mons. Nicola Bux

di Nicola Bux 

Papa Leone I, il Grande, quello che fermò Attila, nel festeggiare il giorno della sua elezione (Discorso 4,1-2; PL 54, 148-149), descrive la Chiesa nei suoi gradi gerarchici distinti, in modo che l’intero sacro corpo sia formato da membra diverse. Oggi, si afferma spesso che la Chiesa è popolo di Dio, ma si dimentica che non è una massa informe, ma è ‘gerarchicamente ordinato’ con a capo Gesù Cristo nel quale siamo uno: questo rende la Chiesa comunione indissolubile sulla base di una comune dignità (cfr 1 Pt 2,5 e 9). Non c’è solo il servizio specifico del ministero petrino – osserva san Leone – perché tutti i cristiani sono rivestiti di un carisma spirituale e soprannaturale che li rende partecipi del popolo regale, sacerdotale e profetico che è la Chiesa. Pertanto, ciascuno deve sentire come onore personale l’elezione di un membro della gerarchia ad un determinato ministero, perché l’unzione che riceve, rifluisce in varia misura dai gradi più alti a quelli più bassi. Questa è la comunione, dice papa Leone, pertanto – applicandola a sé – invita a non fermarsi a considerare la “nostra povera persona” – i papi usavano il ‘noi’ proprio per proteggere il munus petrino dalla personalizzazione – ma “soprattutto colui che si trovò vicino alla sorgente stessa dei carismi e da essa ne fu riempito e come sommerso”: si riferisce a san Pietro, e conclude: “Ecco perché molte prerogative erano esclusive della sua persona e, d’altro canto, niente è stato trasmesso ai successori che non si trovasse già in lui”. Chi riveste il ruolo di papa, deve far quasi scomparire la sua persona, altrimenti si alimenta la papolatria.

In breve, è descritta la teologia dei carismi e dei ministeri, nel quadro della comunione ecclesiale, fatta a immagine del corpo di Cristo. Ora, se la sacra potestà del papa e dei vescovi, non è assoluta, né ereditaria, tantomeno il carisma dei fondatori dei movimenti monastici, religiosi ed ecclesiali e dei loro successori. E’ esclusa ogni prerogativa di comando, perché Gesù non vuole che i suoi assomiglino ai capi delle nazioni (Mc 10,42-43). Chi, poi, si trovasse ad avere un compito ministeriale o un carisma sappia che esso finisce con la sua morte; resta l’attrattiva più o meno grande che ha esercitato, non a se stesso ma alla sequela di Cristo nella Chiesa: le sue virtù, specie se riconosciute dalla Chiesa come eroiche, diventano ‘esempio, merito e intercessione’, e servono unicamente per arrivare prima a Gesù Cristo. In questo senso, il carisma vive nel popolo e l’autorità è al servizio della conservazione del carisma. I capi non si possono canonizzare da vivi, pena lo scadere nel culto della personalità. Se v’è stata fama di santità sarà accertato, altrimenti trasformerà quel popolo, o movimento, o ordine religioso in strumento ideologico.

I carismi dei movimenti poi, sono finalizzati all’evangelizzazione, come ha insegnato Giovanni Paolo II, e questo li differenzia dai movimenti popolari socio-politici, che badano ad un messianismo terreno. I pastori hanno l’onere del discernimento, che è l’unione del retto pensiero e della virtuosa intenzione: è pure un carisma legato al ministero (se un sacerdote non ce l’ha, non deve essere ordinato vescovo).

Se gli ordini religiosi e i movimenti laicali entrano in crisi e si spaccano, dipende in buona parte dal mancato esercizio del discernimento dei pastori sulla dottrina e sulla disciplina, come dimostra il caso di Bose. Se i carismi, come dice Leone, attingono alla fonte che è Gesù Cristo, come può essere ritenuto tale quello di chi come Bianchi, ha dubitato o negato che sia il Figlio di Dio (qui e qui)? Né ci si può scusare ricorrendo al temperamento, che, come diceva don Luigi Giussani, è solo umile strumento del carisma; dove umile significa che si tiene basso, esortava Giovanni Paolo I. Ma se non si crede in Gesù Cristo Figlio di Dio, è difficile sentirsi basso, perché questi spogliò se stesso (Fil 2,7). Dio sceglie ciò che nel mondo è debole per confondere i forti. L’unico requisito del carisma, ancor più se associato a un ministero, è di rendere testimonianza integrale a Cristo in ogni ambito dell’esistenza umana, affermando ogni giorno, come Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.

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