Maurizio Maggiani

 Maurizio Maggiani, scrittore

Maggiani ha cominciato la sua signorile insurrezione qualche giorno fa, scrivendo su Repubblica una frase – diventata poi il titolo del suo articolo – che nessun uomo o donna del secolo scorso avrebbe potuto scrivere. “Io non sono un asterisco”. Questo perché solo negli ultimi anni i soldati della guerra culturale sono riusciti a far entrare l’asterisco – che prima adoperavano nei propri circuiti sotterranei – nel linguaggio comune, come arma di lotta per l’inclusione sociale. Per esempio, cominciano ogni messaggio rivolto a più persone contemporaneamente scrivendo: “Car* tutt*”, per non discriminare chi non si sente né uomo né donna, oppure usano, al posto del maschile o del femminile, e per la stessa pretesa d’inclusività, questa lettera qui: ə.

“Lei sa come si pronuncia?” mi domanda Maggiani. So che un suono c’è, ma non so come dirlo. “Allora significa che non esiste. Perché solo ciò che si può pronunciare esiste. C’è scritto nella Bibbia. L’unica cosa che non si può dire è Dio, perché non ci sono parole bastanti. Per quanto riguarda il resto, ad Adamo fu chiesto di dare un nome a ogni cosa creata e di diventarne il Signore, non il Padrone, il Signore, che significa esserne anche responsabile”.

Maggiani è di origini liguri, ha vinto il Premio Strega nel 2005 e una decina di anni fa si è trasferito in Romagna, in una casa colonica immersa in un vigneto di sei ettari, per seguire la sua sposa. “La Romagna è una terra sediziosa, sovversiva, anti storica”.

 È anti storico anche lei?

Può darsi che io non appartenga completamente alla contemporaneità, ma trovo questa manomissione del linguaggio una follia.

Quale sarebbe la follia?

Che è una lingua che non si può parlare, non si può esprimere, perché è impossibile dire a voce *, ə, ø.

 

Non si potrebbe imparare?

È innaturale obbligarmi a usare delle lettere che non sono presenti nel nostro alfabeto, è un’operazione astratta, burocratica, che non dice nulla della vita, delle vite delle persone che vorrebbe nominare.

Uno scrittore che si appella alla naturalezza della lingua?

Perché non dovrei? Anche la lingua ha una sua naturalezza. E dirlo non significa credere che la lingua non si possa reinventare continuamente.

 Non è anche questo un modo per farlo?

Ma che lingua è, una lingua che non posso parlare? La lingua è potere, non c’è dubbio. Ma allora, se tu dici che c’è una lingua del potere contro cui tu ti batti – e non sono sicuro che esista – allora creane un’altra, costruisci la tua lingua, non imporla, per di più se è impronunciabile.

Lo considera un modo per ammutolire?

Certo che è un modo per ammutolire. Perché se non posso pronunciare le parole – car* tutt* – significa che non ho più voce, che devo tacere, stare zitto. 

Non è anche quella degli asterischi un’invenzione?

Ma perché dovrebbero impormela? La mia lingua non l’ho imposta a nessuno. I miei libri sono sul mercato, chi vuole può comprarli, non c’è alcun obbligo.

“Lgbtq+” non è altrettanto rivoluzionario?

Io non sono molto colto, ma non so cosa significhi questo acronimo, non lo capisco. Capisco il mio amico Jacopo, che è gay, capisco la mia amica Gilda, che è lesbica, ma quella sigla non la so pronunciare, e non capisco cosa indichi concretamente.

Diffida della cultura dei diritti?

I diritti individuali sono sacrosanti. Ed è sacrosanto chiedere che nessuno venga discriminato per il proprio orientamento sessuale. Bisogna anche riconoscere, però, che sono battaglie a costo zero.

In che senso?

Che non costano nulla al sistema economico. Il diritto al salario minimo, invece, costa. Non ho notizie di celebrità che alla notte degli Oscar si spendono con pari energia per chiedere un salario dignitoso per tutti, anche per il mio amico Jacopo e la mia amica Gilda, per tutti i gay, i transessuali, le femmine e i maschi.