INTERVISTA AUTOGOL
Paglia scivola di nuovo: sull'eutanasia non si negozia
Il presidente della Pontificia Accademia per la Vita (PAV) parte bene in un'intervista sul referendum radicale, ma commette il grave errore di auspicare una legge sul fine vita che sia condivisa. La solita strategia del male minore che delinea come in casa cattolica non si pensi più a battere l'avversario. Così facendo Paglia sembra non essere persuaso che uccidere l’innocente sia un male per tutti. Un sincretismo valoriale preoccupante.
L’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita (PAV), rilascia un’intervista per il giornale Quotidiano Nazionale in merito al referendum dei radicali che vogliono abrogare parzialmente l’art. 579 che disciplina l’omicidio del consenziente, in modo da rendere legittima l’iniezione letale, uno dei molti mezzi per praticare l’eutanasia (ne abbiamo parlato qualche giorno fa).
Nell’intervista vi sono molti passaggi pregevoli. Ad esempio quando Paglia ammette che le 750mila firme raccolte sono il sintomo di un stato d’animo collettivo in cui le persone si lasciano condizionare maggiormente dalle emozioni che dalle argomentazioni; quando riconosce che nella società italiana sta crescendo la cultura dello scarto, “col risultato che chiunque è ’fragile’ possa essere eliminato senza conseguenze”; quando ricorda che essere contrari all’eutanasia non significa essere a favore della sofferenza: “la Chiesa sostiene che la dignità della persona può essere tutelata anche nel morire. […] La lotta al dolore è decisiva. E oggi in Italia è possibile morire senza essere torturati dal dolore”.
Ma poi il Nostro, dopo aver dribblato così brillantemente molti avversarsi correndo verso la porta, cosa fa? Non tira in porta, anzi calcia verso la propria di porta. Nell’ultima domanda il giornalista che lo sta intervistando gli chiede un parere in merito alla sentenza della Corte costituzionale che ha dato l’abbrivio ad un disegno di legge, in esame in Parlamento, teso a legittimare l’aiuto al suicidio, parente stretto dell’omicidio del consenziente. A questa domanda Monsignor Paglia così replica: “Non è di mia competenza entrare direttamente su ciò che debba fare o no il Parlamento. Mi auguro che la questione non sia abbandonata. E soprattutto che si giunga ad una legge sul fine vita, che, senza lasciarsi condizionare dalla fretta, né da furori ideologici, possa essere il risultato di un dialogo fra posizioni differenti senza che nessuna voce, neanche quella delle realtà religiose presenti nel Paese, sia esclusa a priori. Nelle commissioni parlamentari non mancano i progetti di legge". E poi aggiunge che non si deve alzare “nessun muro apocalittico”.
Qualche riflessione. In primis Monsignor Paglia ha eccome competenza nel giudicare l’operato del Parlamento. E’ compito della Chiesa verificare la validità morale o meno delle leggi, anche di quelle che sono in fieri. In secondo luogo è errato auspicare che la “questione non sia abbandonata”. Un disegno di legge che legittimi il suicidio assistito sarebbe una legge ingiusta e quindi come tale non deve arrivare al voto finale in Parlamento: una tale legge deve essere abbandonata, affossata o, perlomeno, ostacolata in tutti i modi. Eccome se ci deve essere un “muro apocalittico” che impedisca di varare simile normativa. L’eutanasia è un assoluto morale e quindi non può mai in nessun caso essere legalizzata.
La soluzione di Paglia invece è differente: bene una legge sul fine vita purchè condivisa. La bontà morale di simile legge dunque non risiederebbe nel contenuto, bensì nelle modalità di formazione. Se è una legge partecipata, democratica, frutto del dialogo allora va bene. Se una legge che esprime invece la sensibilità di una sola parte, allora è una cattiva legge.
La risposta di Paglia, poi, mette in luce un certo schema psicologico presente nella testa di molti cattolici che potremmo definire come transito dal dogma all’opinione, dalla verità al parere. Ci spieghiamo meglio partendo da una domanda: perché vogliamo solo una legge condivisa? Perché non siamo persuasi che uccidere l’innocente sia un male per tutti. È un divieto morale per noi credenti, ma non possiamo imporlo agli altri. Ecco allora che il miglior risultato possibile è una legge frutto di sincretismo valoriale: ognuno ci metta il proprio e ne uscirà una legge equilibrata dove tutti hanno rinunciato a qualcosa affinchè tutti possano metterci qualcosa di loro.
Inoltre le parole di Paglia disegnano per l’ennesima volta la solita strategia cattolica del male minore. Sembrerebbe infatti che il presidente della PAV implicitamente ci dica: dato che è impossibile impedire il varo di simile legge allora scendiamo a compromessi, votiamo favore dell’eutanasia, ma non in tutti i casi e nel rispetto di qualche vincolo (che poi con il tempo puntualmente salterà). Limitiamo il male, dal momento che una legge sull’eutanasia è inevitabile. Simile ragionamento presenta almeno due inciampi. Il primo ha carattere strategico (e quindi anche morale): non è ancora detto che una legge sul fine vita veda la luce, né tantomeno che i favorevoli all’abrogazione parziale dell’omicidio del consenziente vincano. Possiamo ancora sfruttare ampi margini di manovra per mettere all’angolo il nemico. Ma ormai in casa cattolica non si crede più di poter battere l’avversario, soprattutto perché, non di rado, non si vuole batterlo. Ciò dipende dal fatto che, sempre più spesso, si fanno proprie le tesi dell’avversario. Il secondo inciampo è di ordine morale: non è lecito votare a favore di una legge ingiusta al fine di evitare il varo di una legge più ingiusta per il semplice motivo che votare a favore significa approvare e mai si può approvare il male contenuto in una legge ingiusta, seppur male minore.
Tommaso Scandroglio
https://lanuovabq.it/it/paglia-scivola-di-nuovo-sulleutanasia-non-si-negozia
La posta in gioco sul referendum mortuario
Non bastavano la legge Zan, lo ius soli, la questione migranti a rendere minaccioso settembre: arriva ora sull’Italia e sul governo Draghi, con oltre mezzo milione di firme e i persuasori di morte mobilitati, il referendum sul suicidio assistito. Ancora una volta il paese sarà spaccato, i cattolici messi all’angolo, si aprirà un altro conflitto a fuoco tra conservatori e progressisti. Le antiche capacità di mediazione, oblio e compromesso degli italo-cattolici sono sempre più boccheggianti; si procede a strappi e amnesie alternate. Ma a settembre i nodi verranno al pettine e non potremo fingerci calvi per non accapigliarci. Toccherà pronunciarsi sul tema.
Non mancano i tentativi di depistare e intortare: non si tratta di eutanasia, dicono per rassicurare i titubanti e i contrari. Certo, è peggio, si tratta di suicidio assistito. Il quesito referendario concerne infatti se considerare o no reato l’aiuto dato a chi invoca di porre fine alla sua vita. Il suicidio assistito prescinde dalla condizione terminale e irreversibile del malato; riguarda l’aiuto a chi vuole morire perché la vita gli è insopportabile.
La volontà individuale, l’autodecisione sovrana, prevale sull’idea che la vita sia un bene non negoziabile, di cui non dispone in assoluto neanche il suo titolare. L’Italia cattolica, popolare e mediterranea nel suo affannoso inseguimento del Nord europeo, già protestante e “moderno”, dovrebbe arrendersi al nichilismo libertario e individualista che non riconosce alcuna sacralità alla vita ma solo al sovranismo illimitato dell’io, signore di se stesso.
La tecnica di persuasione è collaudata e si ripete implacabile: si prende un caso estremo di sofferenza o di vita vegetativa, lo si carica di pathos, si spargono immagini e racconti di sofferenza e sulla base emotiva di quell’esperienza singolare ed estrema, si deduce la bontà, il diritto, l’ineluttabilità che la richiesta di morte diventi legge, in ogni caso.
Sul tema così delicato non ho certezze assolute, non si decide con l’accetta; reclamo il diritto estremo all’incertezza e non sono sicuro da che parte stia veramente l’umanità. Può essere inaccettabile l’accanimento terapeutico quando si tratta davvero di accanimento e quando riguarda soggetti terminali ridotti ormai a oggetti, quasi inanimati. È sul quasi che bisogna però prima accertarsi. Ma la legge, lo Stato, la sanità, la società non possono avere come priorità che la salvaguardia della vita.
Il singolo può decidere di farla finita ma senza pretendere l’avallo e la complicità della legge, dello Stato, della Chiesa, della famiglia e della società. Chi compie questi atti, e chi aiuta a compierli, se ne assuma tutta la responsabilità morale, civile e penale. Un giudice giusto e misericordioso deciderà se infliggere o meno una pena, simbolica o effettiva (per il defunto la questione non si pone). Ma è bene che la legge non preveda l’aiuto al suicidio.
La pratica del suicidio assistito può poi favorire speculazioni, traffico d’espianti, cliniche “exit” per l’industria della morte agevolata, e può facilitare i suicidi in coloro che sono depressi in una fase della vita, ma possono poi superare il loro stato depressivo.
Altra questione è tenere in vita artificialmente una persona ormai terminale e sofferente. Il filosofo spiritualista Giovanni Reale sosteneva che non si può essere ostaggi di una macchina perché non di sacralità della vita si tratta, egli dice, ma di sacralità della tecnica. A prima vista è giusto, ma quante persone, malati non terminali, sono tenute in vita artificialmente da una macchina o da una terapia, dunque dalla tecnica? Quante vite sono legate alla dialisi, al polmone o al cuore artificiale, o sono appese a una pasticca, a un pacemaker, a un defibrillatore, a un’incubatrice, alla chemioterapia; sono tutte esistenze tenute in vita artificialmente, espedienti della tecnica. Fino a che punto la tecnica serve alla vita e da che punto ne diventa padrona?
Non abbiamo la bacchetta magica e ideologica per decidere qual è il confine della vita e quando sorge il diritto alla dignità e alla pietà del morire. Non solo i cristiani ma anche gli stoici, che pure ammettevano il suicidio, dicevano che la vita è milizia e non si può disertare. Ci è stata assegnata.
Invece si va configurando il diritto a morire quando vivere non ci piace, quando siamo depressi o stanchi, fino al diritto a staccare la spina quando un’esistenza è di peso per gli altri o per il sistema sanitario. O ancora l’eutanasia per malati terminali abbandonati, affinché si possano utilizzare i loro organi. Se si sposa un soggettivismo assoluto, autonomo e sovrano, tutto è possibile.
A questo punto non è meglio lasciare al morituro, ai famigliari e ai medici, di assumersi la responsabilità morale e legale della scelta, con tutte le conseguenze, mitigate dalla pietas che si conviene in casi tragici come questi? Perché pretendere di essere muniti pure dei conforti legali, morali, sanitari e religiosi, una specie di black pass per accedere alla libera morte?
Torniamo alle esperienze di ciascuno di noi: quanti casi di eutanasia e di suicidio assistito passano inosservati e sono risolti senza la tragica e plateale risonanza dei media? Casi di personaggi famosi, scrittori, giornalisti… Quante spine vengono staccate in silenzio, quante macchine cessano in sordina di tenere in vita esistenze ormai spente? Il lume del ricordo e il velo dell’oblio si accavallano nella memoria di ciascuno di noi. È aberrante che si voglia lo Stato e la società complici, stabilendo per legge la liceità di suicidarsi.
La posta in gioco col referendum in realtà è la crociata ideologica contro la sacralità della vita. Riconosce Paolo Flores d’Arcais su MicroMega che questo referendum serve a sancire “l’avvenuta secolarizzazione della società italiana in modo perfino più clamoroso dei referendum su divorzio e sull’aborto”. È questa ideologia radicale e progressista che si vuole sancire a norma di legge: non c’è Dio, non ci sono santi, non c’è comunità, non c’è famiglia, non c’è diritto/dovere alla vita: c’è solo l’Io, arbitro assoluto di se stesso.
MV, La Verità (27 agosto 2021)
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