Lettera / La dispersione del gregge è frutto del Concilio o della travolgente secolarizzazione?
Cari amici di Duc in altum, il mese scorso Giovanni Lugaresi scriveva su questo blog un articolo (Io, vecchio cattolico, rileggendo il Paolo VI del 1969 ho provato tanta pena) nel quale manifestava tutte le sue perplessità circa il novus ordo e il modo in cui si giunse alla Messa “riformata”. A quell’articolo risponde ora Alberto Quagliotto. Entrambi sono veneti doc e dunque mi sembra giusto proporre la lettera oggi, 8 settembre, nel giorno in cui si festeggia la Madonna di Monte Berico.
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Carissimo Giovanni,
ho letto con grandissima attenzione il tuo commento alle parole di san Paolo VI sulla riforma liturgica, e ne condivido molti passaggi, soprattutto nella parte in cui ti rammarichi circa gli abusi con cui il novus ordo è stato celebrato: abusi che certamente non sono tali solo nell’opinione di un reazionario nostalgico, che rimpianga i tempi andati, e che peraltro non ha mai vissuto (sono nato, infatti, nella Quaresima del 1965), ma costituiscono un fenomeno sotto gli occhi di tutti e che evidentemente non preoccupa nessuno, vista l’indulgenza usata nei loro confronti.
Ricordo tuttavia che il mio vecchio parroco celebrava con grande rigore e devozione la Messa riformata, e non provavo disagio; anzi, sentivo tutta la sacralità del rito, e mi piaceva parteciparvi, comprendendo quelle parole, che egli scandiva con grande dignità. Ricordo bene gli altari laterali ancora tutti addobbati, il sepolcro del Giovedì Santo, la spogliazione degli altari, la velatio, ma soprattutto il rigore, e l’evidente intima partecipazione spirituale, nella celebrazione della Messa (preceduta e seguita dalle preghiere silenziose davanti al tabernacolo), con i chierichetti rigorosamente in veste talare e cotta, tutti maschietti e con i capelli ben pettinati dalle madri prima di portarli in chiesa. Come dimenticare la bellissima novena di Natale, accompagnata dal profumo dell’incenso in chiesa e, al ritorno a casa, dall’odore acidulo e umidiccio del muschio del presepio?
Certamente la sciatteria, che ha scolorito il Sacro, non ha contribuito a mantenere i fedeli in Chiesa. La penosa rincorsa a stili discotecari, fuori tempo massimo (in queste cose certa parte del clero è patetica: arriva immancabilmente in ritardo e mantiene le “novità” anche quando diventano ridicolamente vintage: inutile scimmiottare il Secolo nelle cose in cui il Secolo riesce meglio!) non ha agevolato la conservazione del gregge, ormai in larga parte disperso. Si sono rincorsi i “gggiovani”, dimenticando che sarebbero diventati adulti e avrebbero chiesto non più merendine, dolciastre ed immangiabili per un palato formato, ma solido cibo per un’anima adulta.
Mi chiedo però: questo risultato, ovverosia questa dispersione di un gregge, che magari crede più facilmente alla reincarnazione piuttosto che alla risurrezione, è solo l’effetto di una grande distrazione seguita al Concilio, o non è piuttosto anche e soprattutto il frutto di una travolgente e irresistibile secolarizzazione, che riempendo le pance ha svuotato il cervello della sua parte più nobile, quella rivolta a Dio?
Una secolarizzazione suadente fatta di nichilismo, indifferentismo, pansessualismo? Una secolarizzazione che ha colpito tutto l’Occidente cristiano, che sembra caduto in una follia collettiva e universale? Basti pensare alla legislazione gender e alla immancabile legislazione sull’eutanasia (non facciamoci illusioni: ci arriveremo)?
Non credo che le aspirazioni di Paolo VI – che ora in effetti suonano, alla luce dei risultati, segnate da quel fallimento che Egli stesso poté constatare (celeberrimo il riferimento al fumo di Satana entrato nella Chiesa) – possano essere qualificate come semplicistiche o ingenue. Credo che esse furono animate da sincero amore per la Chiesa. Lo stesso stile con cui quel papa celebrava ne è testimonianza. Vi fu certo l’ottimismo tipico degli anni Sessanta, ma è altrettanto certo che le seduzioni della ricchezza, velocemente conquistate da generazioni che avevano vissuto tempi ben più magri, hanno avuto una parte a mio avviso preponderante. A ciò si aggiunga quella vera e propria agenzia diseducativa rappresentata dalla televisione, veicolo in larga parte di ignoranza e volgarità. Gli anni Sessanta e Settanta travolsero tutto, anche nella mentalità laica (la morale familiare di Peppone, con la sua solida moglie e la larga prole, non era difforme da quella di don Camillo) e non solo nella Chiesa cattolica. Furono tempi dolorosissimi di contestazioni e abbandoni, segnati da una ribellione che nessuno avrebbe potuto prevedere. Non sempre vedo nelle riflessioni adeguatamente sviluppato questo tema. Se c’è, lo vedo sviluppato al fine di veicolare il messaggio secondo il quale, se si fosse conservata sic et simpliciter la tradizione, le cose sarebbero andate meglio. Ecco, di questo punto non sono molto convinto, ritenendo che sia una posizione che non coglie appieno la storicità degli eventi mondiali e il loro peso.
Mi permetto di condividere queste riflessioni anche con Aldo Maria Valli e, sperando che non siano ritenute troppo peregrine, le offro volentieri ai lettori di Duc in altum.
Un cordiale saluto, nel giorno della festività della Madonna di Monte Berico, cara a tutte quelle genti venete che per secoli sono state testimonianza di storia e vita cattolica. Nemo venetus, nisi catholicus!
Alberto Quagliotto
Abusi nel preseminario San Pio X in Vaticano. Tutti i protagonisti dell’inchiesta. Tra un mese la conclusione del processo
Cari amici di Duc in altum, nel luglio di quest’anno due giornalisti, Chico Harlan e Stefano Pitrelli, hanno condotto per il Washington Post un’inchiesta sui fatti che sarebbero avvenuti al preseminario San Pio X, in Vaticano. Su quei fatti si è svolto un processo che nel luglio scorso ha portato il Promotore di giustizia vaticano, Roberto Zannotti, a chiedere sei anni di reclusione per don Gabriele Martinelli, 29 anni, per il reato di violenza carnale aggravata e atti di libidine aggravati, mentre quattro anni sono stati chiesti per don Enrico Radice, 71 anni, accusato di favoreggiamento.
Nella loro inchiesta Harlan e Pitrelli raccontano come si è arrivati al processo, delineando il profilo dei protagonisti e mettendo in luce i tentativi di insabbiamento.
La sentenza è prevista per il prossimo 6 ottobre. Intanto la Santa Sede, su decisione di papa Francesco, ha stabilito di trasferire il presimenario al di fuori delle mura vaticane.
Qui di seguito ampi stralci dell’inchiesta di Chico Harlan e Stefano Pitrelli.
A.M.V.
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Le segnalazioni cominciano ad arrivare otto anni fa. Indirizzate ad alti prelati della Chiesa cattolica, avvertono di possibili reati di abuso sessuale. Ma in un modo diverso dal solito.
Insolito è il profilo dell’accusato: non un prete, ma un chierichetto adolescente, che avrebbe costretto un coetaneo a subire diversi tipi di abusi sessuali, una notte dopo l’altra, lungo l’arco di sei anni. Insolito è il contesto indicato: proprio all’interno delle mura vaticane, nel preseminario, dove alloggiano i circa quindici chierichetti al servizio del papa.
“In questo momento [c’è] un ragazzo che non dovrebbe essere più lì” si legge in una lettera anonima inviata a papa Francesco e a vari cardinali nel 2013. Il neoeletto pontefice viene allertato della presenza di un presunto abusatore “a venti metri da dove dorme lei”. E quel presunto abusatore ha perfino preso parte alla prima messa del papa nella Cappella Sistina. Il suo nome: Gabriele Martinelli. Il quale, nonostante le segnalazioni a suo carico, quattro anni dopo, nel 20’17, è ordinato prete.
“Fu un maledetto sbaglio” dice oggi Kamil Jarzembowski, ex chierichetto che sostiene d’esser stato testimone di “dozzine e dozzine” di abusi commessi da Martinelli ai danni del proprio ex compagno di stanza.
Solo in seguito all’ordinazione di Martinelli, a causa dell’attenzione mediatica suscitata in Italia, il Vaticano decise di tornare sul caso. Martinelli, che oggi di anni ne ha ventotto, è così finito sotto processo, imputato di presunti abusi sessuali: la prima volta che la città Stato si è trovata a procedere per un caso simile all’interno del proprio territorio. Anche l’ex rettore del preseminario, don Enrico Radice, vi è imputato, con l’accusa di favoreggiamento. Martinelli e Radice negano entrambi d’aver commesso alcun reato.
Ma l’analisi condotta dal Washington Post su una mole di più di duemila pagine di documenti, prevalentemente inedite, ha rivelato come figure ben più autorevoli, all’interno delle gerarchie ecclesiastiche, abbiano minimizzato le segnalazioni, agevolando l’ascesa di Martinelli.
Una responsabilità centrale nel determinare le sorti di Martinelli spetta al cardinale Angelo Comastri e al vescovo Diego Coletti, i quali — secondo lo stesso Coletti — liquidarono rapidamente le accuse come “calunnia.” Nessuno dei due prelati è coinvolto nel processo, o in altri procedimenti ecclesiastici attualmente noti.
I documenti ottenuti dal Post includono corrispondenza interna alla Chiesa, interrogatori di polizia, testimonianze e trascrizioni di conversazioni registrate da Martinelli ed estratte dal suo telefono. Alcuni di quei carteggi provengono dal Vaticano, e si riferiscono a interrogatori preparatori del processo. Altri ancora sono frutto dell’attività investigativa degli inquirenti di Roma, dove Martinelli e Radice si sono visti ancora una volta imputati in quanto cittadini italiani.
Il seguente resoconto, basato su quei documenti e una serie d’interviste, è l’anatomia di un fallimento piantato nel cuore geografico e amministrativo della Chiesa cattolica. Un fallimento derivante non solo dai fattori che notoriamente caratterizzano gli insabbiamenti ecclesiastici – predilezione per la segretezza, pulsione a proteggersi dagli scandali – ma anche dalle difficoltà mostrate dalle autorità ecclesiastiche nel condurre indagini credibili, e nel comprendere i rapporti fra potere, sessualità e consenso nell’universo adolescenziale.
Il Vaticano ha declinato di rispondere a una lista di domande inviate dal Post, nonché l’invito a condividere il proprio punto di vista su alcuni aspetti fondamentali del caso.
Una fonte ecclesiastica di primo livello, che ha richiesto l’anonimato per sintetizzare il ragionamento della Chiesa, ha spiegato che il Vaticano riteneva che Martinelli “non poteva essere accusato di abuso sessuale,” essendo più grande di appena 221 giorni del compagno chierichetto. Fonti che conoscono bene il caso sostengono che tale convinzione si riflette nella reazione della Chiesa alle segnalazioni, e che tale reazione abbia indotto le autorità a trascurare un aspetto cruciale del rapporto fra Martinelli e la presunta vittima: Martinelli era quello che aveva il potere.
In quanto pupillo del rettore, a Martinelli era stato attribuito un ruolo diverso da quello di qualsiasi altro adolescente al preseminario San Pio X, nome ufficiale dell’istituto. Era lui ad assegnare gli incarichi per le messe papali, selezionando fra gli altri adolescenti quelli che sarebbero stati sistemati di fronte al papa o al suo fianco, per poi magari ritrovarsi a tu per tu col pontefice in sagrestia. Agli occhi di ragazzi delle medie e superiori che avevano lasciato casa e famiglia in nome dell’aspirazione a servire il papa, Martinelli rappresentava una specie di portinaio papale.
“Approfittava di questa circostanza per esercitare una sorta di dominio sugli altri giovani” ha dichiarato un sacerdote, Ambrogio Marinoni, interrogato dalle autorità ecclesiastiche dopo l’ordinazione di Martinelli.
Attraverso il proprio avvocato, la presunta vittima ha declinato l’invito del Post a rilasciare un’intervista per via del processo in corso. Tuttavia, ci sono le sue missive, un breve memoriale, la denuncia sporta in Vaticano nel 2018, la trascrizione del suo interrogatorio, condotto da un sostituto procuratore di Roma nel 2019.
Viene descritta una situazione di abuso prolungata, cominciata a pochi mesi dall’ingresso nel presimenario della presunta vittima, allora tredicenne, nel 2013. Durante la prima di quelle notti, Martinelli, che allora di anni ne aveva quattordici, si sarebbe infilato nel letto del compagno chierichetto, abbassandogli le mutande, e costringendolo a subire sesso orale mentre lui si masturbava.
La presunta vittima racconta d’essersi sentito “pietrificato” e incapace di reagire.
Sostiene poi che Martinelli continuò a tornare centinaia di volte, per un periodo di sei anni. La presunta vittima afferma d’aver occasionalmente provato a reagire, cercando di far rumore, sbattendo il cassetto del comodino o i pugni sul muro, nella speranza di spaventare Martinelli e mandarlo via, o quanto meno d’attirare l’attenzione di un supervisore. Ma dice anche d’essersi sentito terrorizzato dal rischio di vedersi etichettato come omosessuale, perdere il proprio posto al preseminario ed essere rimandato a casa nel suo paese del Nord Italia, lì dove il calendario della parrocchia esibiva una sua foto di fianco al papa. Proprio a causa dello status di Martinelli, sostiene la presunta vittima, quel sesso divenne “un rituale al quale io non potevo opporre resistenza”.
Secondo l’ex-chierichetto, Martinelli arrivava a sottolineare la propria posizione di potere perfino nel corso degli atti sessuali, dicendo cose come: “Dai, che poi ti faccio servire la messa, faccio subito”.
La presunta vittima ritiene d’esser stato abusato con maggiore frequenza all’approssimarsi delle messe papali.
Per la Chiesa, una prima occasione persa di capire che cosa fosse successo si delineò nel 2010, quando la presunta vittima tentò per la prima volta d’allertare un’autorità. In tale occasione si rivolse in termini vaghi al rettore, Radice, dicendogli che Martinelli gli stava dando “fastidio.” Ma, secondo il suo racconto, in tutta risposta Radice minacciò di mandarlo a casa e parlarne coi genitori, se non avesse smesso di ripetere simili “fandonie.” La presunta vittima riferisce poi di non aver più provato a rivolgersi ad altre autorità nel corso degli ultimi due anni al preseminario.
La seconda occasione di affrontare il caso si presentò dopo una serie di segnalazioni ben più chiare, nel 2013. La dettagliata lettera anonima, inviata al papa e a diversi cardinali, si diffuse rapidamente in Vaticano, accendendo un faro sulla vicenda.
Nello stesso periodo, la presunta vittima cercò di far sentire la propria voce. All’epoca non era più un chierichetto, pur restando nell’ambiente ecclesiastico, e cantava in un coro nella basilica di San Pietro.
Dopo un paio d’incontri in Vaticano, le sue accuse giunsero all’attenzione di Angelo Comastri, che in qualità di vicario generale era incaricato della gestione quotidiana delle questioni spirituali nella città Stato.
Comastri scrisse all’epoca che in preseminario c’era bisogno di “partire con una pagina nuova” e di un ricambio ai vertici, ma fondamentalmente lasciò la questione in mano a qualcun altro: Diego Coletti, il vescovo di Como, una grande diocesi a oltre seicento chilometri di distanza dal Vaticano.
Per una serie di ragioni storiche il preseminario era infatti gestito da una piccola associazione di preti comasca chiamata Opera don Folci, al cui fondatore, amico di papa Pio XII, era stato chiesto verso la metà degli anni Cinquanta di allestire all’interno del Vaticano un vivaio per aspiranti preti.
Perciò, agli occhi di alcuni chierichetti non era Coletti quanto Comastri a incarnare l’espressione massima dell’autorità. Tuttavia, nel luglio del 2013 fu Coletti a incontrare faccia a faccia la presunta vittima, e fu lui a chiedergli di mettere tutto per iscritto. Fu sempre Coletti a ricevere la lettera nella quale la presunta vittima riferì: “Tutt’ora mi capita di svegliarmi nella notte di soprassalto, spaventato, con l’impressione che ci sia qualcuno sdraiato nel mio letto”.
Fu ancora Coletti che lesse la lettera e, secondo la presunta vittima, non rispose mai.
Il vescovo invece si basò sulla versione degli eventi presentata dal presunto abusatore e dal rettore del preseminario, i quali, stando alla documentazione raccolta dagli inquirenti di Roma, negarono tutto. Martinelli e Radice raccontarono al vescovo di rivalità interne alla scuola che avrebbero spiegato la ragione per cui le accuse di abusi sarebbero state inventate. Tre mesi più tardi Coletti si recò in Vaticano per incontrare Comastri, e sostanzialmente dichiarò il caso chiuso.
Nelle parole dello stesso Coletti, messe nero su bianco subito dopo la trasferta, all’interno del preseminario aveva avuto modo di riscontrare un clima “ottimo”. E di ritenere che non sussistesse “fumus alcuno”. Condivise le conclusioni di Martinelli e Radice, per cui tali accuse derivavano in realtà da un conflitto fra gruppetti in competizione fra loro, nonché dall’influenza occulta di un certo altro prete, che Coletti si convinse esser stato l’autore della lettera anonima. Aggiunse di aver ricevuto da Comastri “conferma della macchinosità e della calunnia sottostante alle accuse” e che lo stesso gli aveva chiesto di archiviare la questione. Concluse: “Quindi ritengo, in coscienza, non sia necessario procedere ad ulteriora”.
Anni dopo, un sottoposto di Coletti dichiarò che le prove non erano state trovate solo perché gli incaricati non si erano dati la briga di cercarle. A Roma, infatti, Coletti era andato in compagnia di Andrea Stabellini, l’allora vicario giudiziale della sua diocesi, il quale si era convinto che le accuse nei confronti di Martinelli meritassero “approfondimento”. Invece, come si legge nella trascrizione, analizzata dal Post, della testimonianza offerta da Stabellini ai procuratori vaticani, la sua permanenza romana Coletti l’aveva trascorsa a sparlare di preti e chierichetti.
“Non si sfiorò neanche l’argomento se i presunti fatti di abuso si fossero realmente verificati” riferisce Stabellini.
A differenza di quanto credeva Coletti, in realtà la lettera non era stata scritta da un altro prete, bensì da Alessandro Flamini Ottaviani, uno studente del preseminario venuto indirettamente a conoscenza dei presunti abusi, e che solo anni dopo spiegò come non se la fosse sentita di usare il proprio nome.
Secondo Stabellini, in Vaticano i prelati non prestarono orecchio ad alcun chierichetto, nemmeno alla presunta vittima. La riunione risolutiva a porte chiuse fra Comastri, Coletti e il rettore, riferisce, durò “cinque minuti” in tutto. Mentre lui aspettava fuori, un sacerdote, Marinoni, gli confidò che il caso aveva fondamento.
“Quando la riunione tra i tre si concluse, mi rivolsi con espressione interrogativa al vescovo Coletti,” dice Stabellini ai procuratori vaticani, ricordando d’aver sentito Coletti rispondere: “Adesso la questione si chiude”. E Comastri dichiarare che all’indagine si era messo fine “per il bene della Chiesa”.
Martinelli si trasferì successivamente al Pontificio seminario francese, un noto centro di formazione sacerdotale a pochi isolati dal Pantheon. Ma i carteggi dimostrano come, nonostante una sostanziale assoluzione, le autorità vaticane avvertissero ancora la necessità di tenerlo sotto stretta osservazione.
“Le chiedo la cortesia di avere un occhio di riguardo sul seminarista in parola” scrive l’allora vescovo Angelo Becciu, all’epoca numero tre del Vaticano, in una missiva in cui fa riferimento alle accuse di abuso. In essa Becciu specifica che tale richiesta veniva fatta “a nome del Santo Padre Francesco, che ben conosce il caso”.
Becciu, che è stato rimosso da Francesco dal suo precedente incarico, è imputato di peculato e abuso d’ufficio in un processo in Vaticano.
Nel mondo delle gerarchie ecclesiastiche Martinelli non era nessuno. Ma negli anni trascorsi in preseminario era diventato un volto familiare a porporati e monsignori. La sua presenza aveva inoltre un rilevante valore simbolico, quello del giovane aspirante sacerdote. In effetti, di tutti i chierichetti mai passati dal preseminario, solo circa duecento avevano finito per diventare preti. Ancor meno poi quelli entrati nell’Opera don Folci, l’associazione che gestisce l’istituto.
Istituzione una volta ricca e influente, l’Opera col tempo si è andata ridimensionando, fino a contare oggi all’incirca una dozzina di preti in Lombardia, prevalentemente anziani, fiaccata dalla penuria di nuove leve. È proprio in quelle zone che Martinelli sarebbe entrato in servizio, dopo l’ordinazione. Il rettore Radice, a sua volta membro dell’Opera, nel corso del processo ha avuto modo di descrivere Martinelli come un futuro leader.
La Diocesi di Como riceveva dal Seminario francese aggiornamenti di fine anno sulla performance di Martinelli, attraverso una serie di comunicazioni di natura “confidenziale”. Si trattava sostanzialmente di pagelle, nelle quali si riferiva sull’apprendimento della lingua francese, sul volontariato svolto in ospedale e in un gruppo scout, ma anche sulle “buone relazioni fraterne” coi suoi compagni di studi. Ma qui traspare anche il consolidarsi nel tempo di quelle che erano state le conclusioni tratte da Comastri e Coletti.
“Rimangono un vero punto interrogativo le gravi accuse di cui è stato oggetto” scrive nel 2015 il rettore del Seminario francese, Antoine Hérouard. “Sembra sempre più verosimile che il sospetto subentrato ormai qualche anno fa si sia rivelato senza fondamento” conclude Hérouard l’anno dopo.
I documenti analizzati dal Post rivelano un’ulteriore accusa di condotta inappropriata nei confronti di Martinelli. Diversi testimoni hanno infatti informato le autorità italiane e vaticane d’averlo visto palpeggiare i genitali di un altro adolescente all’interno del preseminario. Martinelli ha risposto ai procuratori vaticani sostenendo che “può darsi che ciò sia avvenuto” ma inavvertitamente, nel corso di un gioco.
In assenza di alcun pattern noto di comportamento predatorio sessuale, le autorità ecclesiastiche si erano formate la convinzione che le accuse originarie dovessero esser state inventate.
Nel periodo del Seminario francese, il Vaticano assunse un’unica iniziativa fuori dall’ordinario per sondare l’idoneità di Martinelli al sacerdozio, sottoponendolo a una valutazione psichiatrica. L’inusuale misura serviva a discernere eventuali problemi comportamentali, anche di natura sessuale. Ma come Hérouard ha dichiarato in un’intervista al Post, la valutazione non venne fatta per stabilire se Martinelli avesse commesso dei reati. La perizia non riscontrò problemi di natura psichiatrica. E secondo Hérouard tale esito contribuì a sollevare il morale di Martinelli.
Hérouard scrisse alla Diocesi di Como che quelle accuse si stavano “allontanando”. Ma ciò era dovuto in parte al fatto che nel frattempo la presunta vittima aveva tagliato i ponti con la Chiesa, essendosi sentito tradito da quelli che ne erano i rappresentanti. Stando a una sua perizia psicologica presentata al processo, gli incubi notturni e gli attacchi di panico che lo perseguitavano lo mandavano ripetutamente al pronto soccorso.
A tentare di suonare un campanello d’allarme a questo punto era rimasta una sola persona: Jarzembowski, l’ex compagno di stanza del preseminario.
Jarzembowski, un ragazzo originario della campagna polacca, aveva indirizzato a Comastri una lettera poco dopo la breve indagine del 2013. In un’intervista rilasciata al Post dice di aver sperato che ciò spingesse il Vaticano a riesaminare il caso. Al contrario, Jarzembowski riferisce che il giorno dopo aver incontrato il cardinale di persona, nel 2014, gli fu ordinato di fare i bagagli e lasciare il preseminario.
Né il Vaticano né la Diocesi di Como hanno voluto rispondere sull’allontanamento di Jarzembowski. Lo stesso Jarzembowski sostiene di non aver mai ricevuto una spiegazione ufficiale. Nel corso del processo, il sacerdote a capo dell’Opera ha dichiarato che Jarzembowski era stato allontanato perché aveva trasgredito alle regole, dopo esser brevemente fuggito dal preseminario un anno prima. Un documento ufficiale dell’Opera risalente all’anno dell’allontanamento di Jarzembowski, nel quale si forniva una valutazione del suo comportamento, presenta diversi passaggi di natura omofoba, insinuando che uno dei problemi fosse stata l’amicizia di Jarzembowski con altri ragazzi. Vi si descrive un “intenso” e “troppo evidente” legame con un altro compagno di preseminario, definito “la ragione della sua vita”, e Jarzembowski viene presentato come qualcuno che portava altri “sulla stessa strada”.
L’allontanamento di Jarzembowski, a diciotto anni, un anno prima del diploma di maturità, lo fece sentire talmente perso e alienato dalla Chiesa da finire per abbandonare, in seguito, la propria fede.
Cercò di farsi sentire in ogni modo. Quattro giorni dopo il suo allontanamento scrisse a Coletti, riferendogli come Martinelli fosse ripetutamente entrato nella sua camera da letto, costringendo il proprio compagno di stanza al sesso orale. Nove giorni più tardi scrisse una lettera analoga a Becciu. Poi scrisse a Stabellini, l’inquirente diocesano di Como. Ancora a Comastri. E di nuovo a Coletti.
Ma anche quando riceveva risposte, il tono era sbrigativo. “Ti raccomando di rasserenare il tuo animo e di mettere pace nel tuo cuore” gli consigliò Comastri.
Jarzembowski andò avanti. Le sue lettere hanno finito per rappresentare non solo un diario di quanto affermava d’esser stato testimone, ma anche un registro delle persone che aveva informato. Scrisse al capo dell’Opera, un prete di nome Angelo Magistrelli. Scrisse al numero due del Vaticano, il cardinale Pietro Parolin. Scrisse alla Congregazione per la dottrina della fede, l’organo della Santa Sede per i procedimenti disciplinari. Scrisse al rettore del Seminario francese, dove Martinelli si era trasferito. E quando Coletti stava per andare in pensione, scrisse all’imminente successore alla Diocesi di Como, sotto il quale sarebbe avvenuta l’eventuale ordinazione di Martinelli.
Scrisse anche direttamente a papa Francesco, affermando (novembre 2016): “Nel corso dei miei colloqui diretti o tramite missiva con le autorità [ecclesiastiche] nessuna di queste ha mostrato di occuparsi del caso denunciato, facendo una qualche indagine. Nessuno si è preoccupato di accertare e valutare i fatti, mostrando piuttosto una volontà di ignorarli o, peggio ancora, di occultarli”.
Sette mesi più tardi, nel corso di una cerimonia officiata dal nuovo vescovo di Como, Martinelli fu ordinato prete.
La presunta vittima era stato chierichetto al preseminario San Pio X dall’autunno 2006 alla primavera 2012. Dal 2013 importanti prelati in Vaticano vengono informati delle accuse contro Gabriele Martinelli dalla presunta vittima, dall’ex compagno di stanza della presunta vittima e da un altro ex preseminarista.
Don Gabriele Martinelli venne presto messo al lavoro in una valle punteggiata da piccole comunità collegate da una statale, e cinta fra due catene montuose. In giro per la valle si notano chiese abbandonate, e il rarefarsi dei parrocchiani. Qui Martinelli era stato accolto come una ventata d’aria fresca. Cominciò a guidare i servizi domenicali e a coordinare i programmi giovanili. Partecipò a una sagra delle castagne e organizzò una festa di Halloween durante la quale i bambini si travestirono da santi.
Mentre le accuse nei suoi confronti scivolavano sempre più in secondo piano, Martinelli avrebbe anche potuto costruirsi una carriera, in quella valle. Se non fosse stato per Jarzembowski, che in un’intervista rammenta quanto si sentisse nauseato, e senza alternative. “Avevo provato a risolvere la questione in seno alla Chiesa, ma a distanza di anni non mi avevano mai risposto. Così mi sono chiesto: che cosa posso fare?”.
Ciò che fece fu portare le sue lettere a un giornalista italiano, Gianluigi Nuzzi, il quale a sua volta mise Jarzembowski in contatto con un reporter televisivo, Gaetano Pecoraro. Le due storie, uscite quasi simultaneamente — quella di Nuzzi in un libro, quella di Pecoraro in un programma televisivo — rivelarono le accuse contro Martinelli a cinque mesi dall’ordinazione. Entrambi descrissero i tentativi compiuti da Jarzembowski di suonare il campanello d’allarme, menzionando il coinvolgimento di Coletti e Comastri in un possibile insabbiamento. Il servizio di Pecoraro, nel programma Le iene, includeva un’intervista alla presunta vittima, la cui identità veniva celata.
Il Vaticano comunicò pubblicamente che sarebbe stata condotta una nuova indagine, “in considerazione di nuovi elementi recentemente emersi”.
Di lì a poco Martinelli disse ai propri parrocchiani che sarebbe andato in ritiro spirituale. E, come si legge nei documenti interni, la diocesi gli proibì ogni contatto con minori.
“È rimasto qui talmente poco che a stento c’è stato modo di conoscerlo,” racconta un altro prete dell’Opera, Gian Pietro Rigamonti, di 71 anni.
I documenti analizzati dal Post presentano un dietro le quinte più dettagliato delle scelte compiute dalle autorità ecclesiastiche, prima e dopo le inchieste italiane.
Ciò che seguì la trasmissione del 2017 fu una resa dei conti a Como e in Vaticano, parziale e perlopiù riservata. Nei giorni immediatamente successivi a quando andò in onda, diversi preti precedentemente in servizio al preseminario si misero in contatto col nuovo vescovo di Como, Oscar Cantoni. Stando a un rapporto stilato dallo stesso, i sacerdoti gli riferirono di come fossero sempre stati convinti della fondatezza delle accuse contro Martinelli, e di come Radice avesse imposto loro il silenzio. Così il nuovo vescovo di Como chiese il permesso a Becciu, all’epoca braccio destro di Francesco, di indagare.
Il risultato di tale indagine fu un rapporto di ventuno pagine trasmesso alla Santa Sede ma non divulgato. Il documento, uno di quelli di cui il Post è entrato in possesso, si esprime in modo aspramente critico sui passi falsi compiuti nella gestione del caso Martinelli, ma si dilunga anche in affermazioni non scientifiche su aspetti riguardanti il consenso e lo sviluppo sessuale adolescenziale. Il rapporto asfalta Coletti, sostenendo che la sua indagine fu sviata da pregiudizi, e “quantomeno superficiale”. Il nucleo centrale delle accuse della presunta vittima viene ritenuto “attendibile” e “coerente”. Ma si conclude che il comportamento di Martinelli, per quanto inappropriato, sia da considerarsi comprensibile per degli adolescenti, nei quali “accade frequentemente che non vi sia perfetta consonanza di volontà”.
“I comportamenti de quibus sono stati l’espressione di una tendenza omosessuale transitoria, di un’adolescenza non ancora compiuta” scrisse Cantoni alla fine del rapporto.
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Nel processo, le cui udienze sono state aperte a un ristretto pool di giornalisti, si sta vagliando se il comportamento di Martinelli non sia stato solo inappropriato, ma anche un reato. In una serie di udienze a cavallo della pandemia sono stati ascoltati più di dodici testi, inclusa la presunta vittima e l’ex compagno di stanza, Jarzembowski.
Martinelli, che intanto continua a vivere lontano dai riflettori in una casa di riposo gestita dall’Opera, circondato da gente più anziana di lui di parecchi decenni, una volta interrogato ha definito le accuse infondate. A sua volta Radice ha negato ogni colpa.
Alcuni ex studenti hanno sostenuto di non aver assistito ad alcun abuso. Altri hanno descritto un’istituzione fuori controllo, sotto una supervisione distratta, dove gli studenti si scambiavano costantemente battute a sfondo omosessuale, affibbiandosi reciprocamente nomignoli femminili.
“L’ambiente in sostanza era malsano,” ha detto Flamini Ottaviani, che al preseminario c’era rimasto per un solo anno.
Non esiste alcuna indicazione che papa Benedetto XVI, il pontefice in carica durante i presunti abusi, fosse al corrente di tali accuse. Quanto a papa Francesco, esistono informazioni discordanti su quanto attivamente abbia partecipato alla gestione del caso.
Benché a seguirne la maggior parte degli aspetti sia stato un gruppo di prelati sotto Francesco, nel 2017 Martinelli sostenne che fu proprio il papa a ordinare, personalmente, la sua perizia psichiatrica. “È stato il papa in persona” sostiene Martinelli nel corso di una conversazione da lui stesso registrata, successivamente estratta dal suo telefono dagli inquirenti di Roma. In un’altra di quelle registrazioni, un uomo chiamato “don Angelo” – verosimilmente identificato dai carabinieri come il sacerdote a capo dell’Opera, Angelo Magistrelli – riferisce a Martinelli che il suo trasferimento al Pontificio seminario francese sarebbe stato incoraggiato dallo stesso papa, nella convinzione che quelle accuse fossero una “calunnia.” Magistrelli ha rifiutato numerose richieste d’intervista.
Il Vaticano non ha risposto a una domanda sul ruolo svolto dal pontefice, o sull’eventuale mutamento del suo punto di vista sul caso. Nel luglio 2019 Francesco introdusse un apposito provvedimento che permise l’istituzione del processo, evitandone la prescrizione. A maggio il pontefice ha inoltre annunciato che trasferirà il preseminario fuori dai confini della città Stato vaticana, decisione che il Vaticano sostiene essere slegata dal processo.
I nomi del vescovo Coletti e del cardinale Comastri sono stati ripetutamente menzionati da chi è stato chiamato a testimoniare. Ma il processo non si è concentrato su di loro, né sono fra i testimoni. Il Vaticano non ha risposto a domande sul ruolo svolto da Coletti e Comastri.
Francesco Zanardi, che ha seguito il processo come rappresentante di un gruppo italiano di vittime di abusi ecclesiastici, ritiene “scandaloso” che la posizione dei due prelati non sia stata più attentamente passata al vaglio dalla Chiesa. Zanardi definisce Radice, l’ex rettore del preseminario accusato di favoreggiamento, “nient’altro che un capro espiatorio”.
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Jarzembowski dice di ritenere sia Coletti che Comastri “moralmente responsabili”.
“Lei aveva un gruppo di quindici ragazzi da proteggere, ed ha fallito,” scrisse a Comastri nel 2019.
Secondo il suo medico, Coletti, che ha 79 anni, non ha potuto partecipare al processo a causa del proprio stato di salute. Nella perizia trasmessa ai giudici vaticani si sostiene che, benché ancora in grado di svolgere le attività di base della vita quotidiana, Coletti sia affetto da una forma di “decadimento cognitivo,” e da diabete.
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Comastri, di 77 anni, ha lasciato il suo incarico di vicario generale del Vaticano, gesto che alcuni insider ritengono collegato al processo. Ma Comastri ha dichiarato al Post che il suo è solo un normale pensionamento, non una punizione. Il cardinale continua a recitare il rosario nella Basilica di San Pietro, mettendosi in posa per le foto, e benedicendo i bambini dopo la cerimonia di mezzogiorno.
“Un prete non va mai in pensione,” ha commentato Comastri dopo una breve conversazione in sagrestia.
Prima della fine dell’intervista, il cardinale ha voluto riaffermare che il caso Martinelli è stato gestito nel modo appropriato. Sottolineando come, in ogni caso, la responsabilità principale resti in capo a Coletti, e le accuse, che ritiene nate da “gelosie”, non fossero credibili. “La mia opinione – ha concluso – è che qui di accuse serie non ce ne siano”.
Fonte: The Washington Post
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