ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 24 gennaio 2018

Il neo-papato rivoluzionario bergogliano

LA TENTAZIONE COLLEGIALISTA PER RIDIMENSIONARE GLI ECCESSI DI QUESTO PAPATO: UN INGANNO PERICOLOSO E CONTROPRODUCENTE




Negli scorsi giorni è stato pubblicato un intervento del Card. Müller dal titolo Autorità del Papa e Magistero della Chiesa (qui). Il prof. Paolo Pasqualucci ha risposto con un commento encomiabile, Riflessioni sulla questione dell'infallibilità pontificia e sulle divisioni nella Chiesa (qui), che condivido totalmente. Vorrei tuttavia aggiungere qualche osservazione.

Io credo che - al di là del commento del card. Müller sui limiti dell'autorità papale, chiaramente influenzati dalla neo-dottrina conciliare sulla collegialità - ci troviamo oggi dinanzi ad un pericolo concreto e da non sottovalutare. Questo pericolo è stato determinato da una situazione di cui è causa lo stesso Bergoglio, autore allo stesso tempo di un'impostazione autoritaria del papato aliena al cattolicesimo e contestualmente di una sua ridicolizzazione, di una forma di discredito sistematicamente perseguita in parole, opere ed omissioni: epurazioni e licenziamenti; discorsi livorosi ed accuse generiche contro la Curia romana; nomine e promozioni discutibilissime di Prelati dalla reputazione più che compromessa; interventi sconcertanti al Sinodo sulla Famiglia e manipolazione delle sue procedure interne; difesa di principj inconcliliabili con la Fede e la Morale cattolica, esternazioni qualunquiste, frasi demagogiche, silenzi sconcertanti su temi importantissimi, udienze concesse a coppie omosessuali, travestiti, abortisti; interventi palesemente favorevoli ad un sincretismo più volte condannato dal Magistero; creazione di commissioni segrete per la Messa ecumenica, l'abolizione del Sacro Celibato o l'istituzione delle diaconesse la cui esistenza era stata inizialmente smentita ma che poi sono venute alla luce; azioni di riforma finanziaria o morale sbandierate ai quattro venti e mai portate a serio compimento. Oltre ad un'opera di propaganda mediatica perseguita con metodi da regime totalitario da parte di cortigiani tanto faziosi quanto privi di qualsivoglia credibilità, non di rado sconfessati dalla loro stessa imperizia.

Un papato, quello di Bergoglio, che appunto unisce l'autoritarismo intollerante verso la Tradizione ad un'azione di sfrontato appoggio alle correnti più eversive del progressismo, e che in forza di questo stesso autoritarismo delega l'autorità magisteriale e di governo, in chiave parlamentarista, alle diocesi e soprattutto alle Conferenze Episcopali. Le quali, com'è ormai evidente, hanno il solo scopo di avvallare ordini precedentemente impartiti senza alcuna reale partecipazione al processo decisionale. 

Dinanzi a questa realtà, della quale molti esponenti della Chiesa iniziano a manifestare le proprie perplessità e preoccupazioni, la reazione è duplice: un sostegno al neo-papato rivoluzionario bergogliano da parte della componente che con l'attuale papa si identifica; e dall'altra il tentativo di ridimensionare il Papato cattolico, assumendo e riproponendo con maggior forza la nuova dottrina conciliare sulla collegialità in modo da evitare gli eccessi di governo e magistero di Bergoglio. 

Non è chi non veda che sostenere acriticamente l'azione di Francesco sia un'operazione non scevra da interessi, in coloro che vogliono portare a compimento le istanze rivoluzionarie del Vaticano II. Ma quello che non mi pare si sia sufficientemente evidenziato è che il ridimensionamento dell'autorità del Papa rischia di non essere un modo per porre un freno a questo papato, bensì al Papato in genere, finendo per rendersi più o meno volontariamente responsabili di quella svolta ultraprogressista che a parole si vuole scongiurare. 

L'autorità papale è regolata da norme canoniche che poggiano su ben precise basi dottrinali immutabili, solennemente definite dalla Chiesa con atti irreformabili: è significativo che l'intervento del Card. Müller, tanto generoso di citazioni del Vaticano II, non abbia ritenuto di dover ricordare la proclamazione del dogma dell'Infallibilità Papale contenuta nella Costituzione Apostolica Pastor Aeternus di Pio IX, che ne costituisce il riferimento principale: «Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l'esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l'approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell'infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa. Se qualcuno quindi avrà la presunzione di opporsi a questa Nostra definizione - Dio non voglia! - sia anatema». 

Altrettanto indicativa è l'omissione della menzione della Nota explicativa praevia di Lumen gentium, che Paolo VI dovette aggiungere posteriormente al documento per rettificare - seppure solo in parte - alcuni punti che si prestavano ad interpretazioni eterodosse: «Il  Collegio non si intende in senso strettamente giuridico, ma è un ceto stabile. […] Uno diventa membro del Collegio in virtù della consacrazione episcopale, e mediante la comunione gerarchica col capo del Collegio. […]. Il parallelismo tra Pietro e gli Apostoli da una parte, e il Sommo Pontefice e i Vescovi dall’altra, non implica la trasmissione del potere straordinario degli Apostoli ai Vescovi. […] Infatti deve accedere la canonica o giuridica determinazione da parte dell’autorità ecclesiastica. Il Collegio dei Vescovi è anch’esso soggetto di supremo e pieno potere sulla Chiesa universale. Il Collegio necessariamente e sempre cointende col suo capo […]. Il Romano Pontefice è il capo del Collegio e può fare da solo alcuni atti, che non competono in nessun modo ai Vescovi». 

Mi pare si possa trovare conferma che questa omissione non è del tutto accidentale proprio dalle parole del Card. Müller: «Il Papa, nella misura in cui, come capo del collegio episcopale, è il principio dell'unità della Chiesa nella verità». Anzitutto, come ha precisato la Nota praevia, sarebbe opportuno parlare di corpo episcopale, giacché il titolo di collegio compete solo a quello degli Apostoli. In secondo luogo, la formulazione «nella misura in cui, come capo del collegio episcopale, è il principio dell'unità della Chiesa nella verità» dà adito a ritenere che laddove il Papa agisca senza coinvolgere il collegio episcopale, la sua funzione di principio dell'unità della Chiesa venga meno, giacché quel «nella misura in cui» suona limitativo della suprema, diretta ed universale autorità del Romano Pontefice. E sarebbe il caso di ricordare che l'autorità e la giurisdizione dei Vescovi è trasmessa da Dio per il tramite del Papa, e limitatamente alla loro diocesi; e che la partecipazione alla suprema autorità del Papa è concessa al corpo dei Vescovi o ad una parte di essi sempre e solo dal Papa, che di quell'autorità è il titolare unico

Pensare di poter mettere mano a queste norme, o anche solo interpretarle in senso conciliarista, dietro l'alibi di arginare la tirannide di Bergoglio fa semplicemente il gioco di chi ne ha favorito l'elezione e di chi oggi lo sostiene con malcelato entusiasmo. 

Non dimentichiamo che, tra i metodi perseguiti dalla Rivoluzione, uno dei più efficaci e perversi è quello di creare le premesse alla destabilizzazione screditando l'autorità che si vuole abbattere. Avere dei governanti disonesti e che si disinteressavano delle legittime necessità dei sudditi fu la premessa della Rivoluzione Francese. Avere oggi un papa che con il proprio comportamento intemperante, con le proprie sconsiderate esternazioni, con il proprio atteggiamento peronista e demagogico crea divisione in seno alla Chiesa e scredita l'immagine e la sacralità del Romano Pontefice anche dinanzi al mondo è la premessa per l'abbattimento del papato, e non - come vorrebbero alcuni ingenui - un tentativo di restituirlo al proprio prestigio riconducendolo nei limiti della propria funzione universale di magistero e di governo.  

Così l'intervento di Müller e la prospettata conferenza di Roma del prossimo Aprile a mio parere potrebbero essere tanto più rivoluzionari e pericolosi, quanto più ammantati di buone intenzioni, inficiate però da una visione democratica ed assemblearista del Papato. Poiché se si dovessero accogliere le istanze collegialiste del Concilio sotto la spinta emotiva del momento, ci si troverebbe un domani a vedere depotenziata l'autorità papale anche - e direi specialmente e soprattutto - quando la Chiesa dovesse darsi un Papa degno di tal nome, fermo nella dottrina e nella disciplina, autorevole nel Magistero ad intra e nelle relazioni politiche e diplomatiche ad extra, giustamente autoritario nel porre fine alla crisi che affligge la Chiesa da ormai cinquant'anni. A quel punto, questo Papa si dovrebbe scontrare con quello stesso collegialismo che oggi paradossalmente potrebbe essere giudicato necessario da chi si lascia condizionare dalla contingenza momentanea e, appunto, da una situazione creata ad arte. 

Bergoglio ha dimostrato di essere ingestibile e di volersi sottrarre non solo ad ogni controllo, ma anche ai prudenti e moderati consigli tanto del Sacro Collegio quanto dell'Episcopato. Ma questa non è e non può essere la giustificazione per ridurre l'autorità del Papa, anzi proprio il contrario: egli dovrebbe essere invitato a farsi da parte, a dimettersi, proprio per tutelare la somma autorità papale, l'infallibilità cui egli deliberatamente non ricorre, l'autorità che la sua persona volontariamente umilia e scredita anche solo nel modo in cui si veste, in cui celebra, in cui si mostra in pubblico. 

La prossima Conferenza di Roma, prevista per il mese di Aprile, dovrà guardarsi quindi dal cadere in un astuto tranello che potrebbe rivelarsi ben più controproducente di quanto non si possa immaginare. 
Copyright MMXVIII - Cesare Baronio

Riflessioni sulla questione dell'infallibilità pontificia e sulle divisioni nella Chiesa - Paolo Pasqualucci

Il discorso sui problemi inerenti all'infallibilità o meglio al Primato e alla sua messa in crisi con LG 22.2 non finisce qui. Se vogliamo tentare di enucleare i temi di un dibattito che dovrebbe essere (ad Aprile) [qui] della massima importanza per il futuro della Chiesa, dobbiamo approfondire ulteriormente. Con la riflessione che segue iniziamo a dare il nostro contributo.
Riflessioni sulla questione dell'infallibilità pontificia e sulle divisioni nella Chiesa
  1. Penso che ognuno si sia chiesto: qual è lo "status quaestionis" in relazione all'infallibilità ossia ai poteri del Papa? Qual è effettivamente il problema? 
  2. La contraddizione introdotta da Lumen Gentium 22.2. 
    Contraddizione e quindi non conformità con l'insegnamento di sempre; anche se non- conformità parziale, tuttavia rilevante? In quel testo c'è l'affermazione rivoluzionaria che il collegio dei vescovi, sempre assieme al suo Capo il Papa, è "il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, sebbene non possa esercitarla se non col consenso del romano Pontefice". Rivoluzionaria, perché in passato la potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa era stata riconosciuta solamente al Papa, sulla base della Sacra Scrittura e della Tradizione. Ora, invece, essa è riconosciuta all'intero collegio dei vescovi in quanto tale, ovviamente sempre con il suo Capo, il Papa, e mai senza di esso. Perciò "con il Papa", perché la titolarità della potestas è riconosciuta su un piano di assoluta parità, ma "sotto il Papa" quanto al suo esercizio, dovendo esso dipendere dall'autorizzazione del Papa (vedi Nota Praevia aggiunta in appendice a LG).
    La Nota Praevia, imposta a Paolo VI dai "conservatori", impediva di considerare il Papa, per colpa di LG 22.2, come se agisse sempre e solo quale capo del collegio dei vescovi, con tanti saluti al suo Primato. Risultando l'esercizio della potestas da parte dei vescovi vincolato all'autorizzazione del Papa, il Papa riacquistava la sua preminenza e libertà d'azione, anche perché si ribadiva che egli poteva sempre esercitarla da solo.
    Tuttavia, il Primato ne risulta intaccato perché la "titolarità" della suprema potestas non è più del solo Pontefice: ora essa appartiene anche al collegio col Pontefice. Due soggetti titolari di un potere sovrano, quale la potestas pontificia, è una mostruosità giuridica. Due soggetti anche quanto al suo esercizio: autonomo quello del Papa, vincolato all'autorizzazione pontificia quello dei vescovi.
  3. Qui si è riformata la nozione stessa di somma potestà su tutta la Chiesa, quanto ai soggetti che ne sono titolari, creando una situazione di attrito permanente tra i vescovi e il Papa. I primi infatti tendono ora a vedere il Papa come un primus inter pares, essendo "titolari" come lui della potestas su tutta la Chiesa, e scalpitano per dover sottostare al suo nulla osta quanto al suo esercizio da parte loro, come collegio.
    Si tende, inoltre, a vedere sempre più il Papa come capo del collegio dei vescovi, come "presidente" di un organo collettivo, l'episcopato. Qualcuno non vorrebbe ora vederlo come "presidente" di un'unione di tutte le "Chiese" o addirittura di tutte le religioni?
  4. Ma il discorso sui problemi inerenti all'infallibilità o meglio al Primato e alla sua messa in crisi con LG 22.2 non finisce qui. Se vogliamo tentare di enucleare i temi di un dibattito che dovrebbe essere (ad Aprile) della massima importanza per il futuro della Chiesa, dobbiamo approfondire ulteriormente. 
    C'è infatti l'aspetto dell'origine divina della potestas papale che in questo modo, con la nuova formulazione, viene ad oscurarsi. Ciò risulta, come ho già accennato, dal nuovo Codice di Diritto canonico, 1983, regnante GPII. Ma forse anche nella LG tale origine appare solo implicitamente? 
    E c'è poi la "desistenza" sul piano della prassi, relativa alla condanna degli errori, promossa da Giovanni XXIII e conservata dai successori; desistenza che configura una abdicazione dall'esercizio della suprema autorità, gravida di conseguenze anche sul piano istituzionale. 
La questione dell'origine divina del potere di governo del Papa.

Perché "questione". Non è pacifico che tale potere ha un'origine divina, risultante proprio dal passo finale del Vangelo di Giovanni, che testimonia come NS abbia conferito al solo Pietro il potere di governare la Chiesa ("pasci le mie pecorelle, pasci i miei agnelli")?

Dovrebbe esserlo. Il Codice di Diritto Canonico del 1917 è chiarissimo in proposito. Nel can. 219 recita: "Il Romano Pontefice, legittimamente eletto, non appena accettata l'elezione ottiene immediatamente per diritto divino (iure divino) la piena e suprema potestà di giurisdizione". Il can. 218 definiva il carattere di questa piena e suprema potestà su tutta la Chiesa: per ciò che riguarda la fede e i costumi nonché la disciplina e il governo della Chiesa.
Il canone 332.1 CIC 1983 riprende in parte quest'articolo, in questo modo: "Il Sommo Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l'elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale. Di conseguenza l'eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell'accettazione. Che se l'eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente ordinato vescovo". 

Non si dice più che la sua potestà il neoeletto "l'ottiene di diritto divino". E come l'ottiene allora? Il comma fa tutto un discorso sulla consacrazione episcopale, sulla necessità (pare) del neoeletto di essere vescovo, al punto che il neoeletto sembra ottenere immediatamente la sua potestà suprema solo se è già vescovo ossia se già appartiene al collegio episcopale. L'esser già vescovo è forse da ritenersi condizione dell'ottenimento immediato della potestà episcopale? Se è così, allora si vede che l'appartenenza o meno al collegio episcopale viene a condizionare l'insorgere immediato della potestà nel neoeletto, concetto che sembrerebbe del tutto nuovo.
Ma il can. 331, non richiama indirettamente l'origine divina della pontificia potestas?
Dice: "Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l'ufficio [in quo permanet munus] concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e univesale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente".
Tutto a posto allora? Se l'ha concesso il Signore l'ufficio, non deve ritenersi di origine divina? Ma quest'ufficio, Pietro, l'ha sì ricevuto da Cristo risorto ma forse come primo degli Apostoli e quindi in quanto "capo del Collegio dei Vescovi"? Il c. 336 CIC 83, ripetendo LG 22.2, ribadisce che il Collegio con il suo Capo "è pure soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale". Se ha questa potestà, il Collegio, dobbiamo ritenere che sia anch'essa di origine divina, che cioè il Signore l'ufficio di governo sulla Chiesa l'abbia concesso, oltre che a Pietro anche al Collegio con Pietro?
Ma né il Sacro Testo né la Tradizione permettono simile interpretazione. Bisognava perciò omettere il riferimento all'ottenimento "iure divino" della suprema potestas da parte del neoeletto, perché circoscrivente al solo neoeletto la potestas, che ora si vuole condivisa da due soggetti titolari. 
Con l'accettazione, il neoeletto ottiene di governare la Chiesa ma non l'ottiene da chi l'ha eletto bensì da Nostro Signore, come Pietro. Per questo è il "Vicario di Cristo in terra".
E non può esserlo, Vicario di Cristo, il Collegio dei Vescovi con il Papa, dato che il Signore risorto non si è rivolto al Collegio.

Nota sull'intervento del Card. Müller su 'Autorità del Papa e Magistero della Chiesa' [qui].

Le citazioni riguardano il problema centrale della collegialità. Ha detto il cardinale:
"..Istituendo i suoi apostoli, Gesù istituisce anche i loro successori, cioè i vescovi, insieme al successore di Pietro, il papa, come loro capo. Il mandato che Cristo dà loro è di "insegnare loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt, 28, 20). Giustissimo. Qui vediamo che Pietro è presentato come semplice "capo degli apostoli", cosa che pure è. Ma si tace il fatto, riportato da san Giovanni, che solo a questo "capo" Cristo risorto ha conferito il potere di governo su tutta la Chiesa (Gv 21, 15 ss.) dicendogli, davanti agli altri, per tre volte (non due come avevo erroneamente scritto) "sii pastore delle mie pecore". Altro passo":
"Il Papa, nella misura in cui, come capo del collegio episcopale, è il principio dell'unità della Chiesa nella verità, ha la missione etc.". Mi chiedo: Il Papa, esercita la sua missione s o l o come "capo del collegio episcopale"? Tale collegio non è tutta la Chiesa visibile: il Papa è il capo dell'intera Chiesa -della quale il collegio è una parte - e lo è appunto "per diritto divino". Su questo fondamento sovrannaturale, egli è il principio dell'unità della Chiesa, di tutti noi fedeli!
Infine, ancora il card. Müller: "Cristo ha posto il papa 'alla testa degli altri apostoli e in lui ha creato una fonte e un fondamento duraturo e visibile dell'unità di fede di comunione" (Lumen Gentium, 18). In quest'articolo la LG riafferma la fede della Chiesa nel primato petrino. Molto bene. Se però si va a controllare il testo si vede che la citazione comincia in altro modo: "Affinché poi lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il Beato Pietro e in lui stabilì il principio etc.".
Si vede, dunque, come il Primato sia sempre ricondotto, dal Concilio e (qui) dal card. Müller, in qualche modo al fatto dell'esser Pietro "il capo del collegio", al fine di mantenere l'unità del collegio dei vescovi... Sempre messo in connessione con l'organo che è il collegio assai più che con la sua origine sovrannaturale indipendente, appunto "iure divino", che non ha nulla a che fare con l'esser Pietro "capo del collegio".

Il "papato desistente"
  1. Resta da accennare all'ultimo punto di queste riflessioni introduttive: l'affermata rinuncia dei Papi, a partire da Giovanni XXIII, alla condanna degli errori. Su questa gravissima novità, vera e propria diminutio della potestas papale, sono sempre valide a mio avviso le osservazioni di Romano Amerio, nel par. 40 di Iota Unum. [Lo abbiamo pubblicato qui. Vedi anche qui - qui]
  2. In effetti, come può il Papa difendere il Deposito e confermare nella fede noi tutti, se non condanna in modo chiaro e formale gli errori, in qualunque forma essi appaiano? Ciò significa non voler esercitare l'autorità ricevuta "per diritto divino". Una colpa grave. Che rappresenta, direi, una violazione della costituzione divina della Chiesa perché, contrapponendo artificiosamente severità a misericordia, toglie legittimità alla condanna dell'errore da parte del Vicario di Cristo, condanna che invece rientra nel suo potere di governo ed insegnamento, come stabilito da Cristo stesso. Anche qui, non affiora l'error in fide, dal momento che si viene a stravolgere il significato stesso del munus petrino, rendendolo monco e improntandolo ad un'idea di "misericordia" che non è quella dei Vangeli ma piuttosto quella di un sentimentalismo che inevitabilmente finisce con l'accettare la corruzione più sfrenata, come sta alla fine accadendo oggi?
    "Questo annuncio del principio della misericordia contrapposto a quello della severità sorvola il fatto che, nella mente della Chiesa, la condanna stessa dell'errore è opera di misericordia, poiché, trafiggendo l'errore, si corregge l'errante e si preserva altrui dall'errore. Inoltre, verso l'errore non può esservi propriamente misericordia o severità, perché queste sono virtù morali aventi per oggetto il prossimo, mentre all'errore l'intelletto ripugna con un atto logico che si oppone a un giudizio falso..." (Amerio, cit., che conclude affermando giustamente potersi esercitare la misericordia solo verso l'errante, come ha sempre fatto la Chiesa, del resto).
Tutto ciò visto, bisogna chiedersi, a mio avviso: di quale papato stiamo parlando? Il Convegno di Aprile, se mai si farà, sembra porsi soprattutto il problema dei limiti del potere papale e questo in relazione alla grave involuzione che vediamo oggi nel suo esercizio, ad opera del presente e regnante. Ma tale "involuzione" non sarebbe stata possibile se non fossero intervenute le mutazioni conciliari e preconciliari (Giov. XXIII) a confondere e in sostanza stravolgere la natura stessa del papato.
Il discorso, per essere efficace, non dovrebbe pertanto partire dall'analisi critica di queste mutazioni? 
Paolo Pasqualucci

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