di Luca Negri
Si sa, gli uomini preferiscono le tenebre alla luce. Infatti, molte limpide verità del cristianesimo sono state in passato e sono tutt’ora travisate dagli infedeli e dai cristiani stessi. La storia delle eresie e delle loro tracce nel pensiero moderno offre molti esempi di verità parziali o di vere e proprie menzogne che hanno lasciato il segno nel corpo della Chiesa, talvolta provocando rotture e scismi. O come minimo trasformatesi in luoghi comuni pigramente accettati.
Una delle verità meno comprese e più travisate riguarda l’origine stessa della nostra condizione: il peccato originale. Dall’Illuminismo in poi si è cercato di vivere come se non esistesse, come se non fosse una pietra d’inciampo per ogni progetto umano che rifiuta il trascendente. Tutto nacque dalla suggestiva ipotesi del “buon selvaggio” pubblicizzata da Rousseau; era proprio fondata sulla negazione del peccato originale, sulla presunta natura buona dell’uomo corrotta poi dalla civiltà. Ma per negare qualcosa di così radicale ed enorme come la colpa dei nostri progenitori, era stato prima utile darne un’immagine falsa.
Il libertino olandese Adrian Berverland, vissuto a cavallo fra XVII e XVIII secolo, si incaricò, neanche tanto inconsapevolmente, di alimentare un fraintendimento: il ridurre il peccato originale a questione di sesso. Insomma, con una buona dose di morbosità, interpretò il gesto di aver colto la mela biblica come un semplice atto sessuale. Dio avrebbe ordinato ai due primi essersi umani di non accoppiarsi, di non provare piacere dal loro reciproco contatto. La ribellione alla divinità sessofoba avrebbe causato così la cacciata dal Paradiso Terrestre; il peccato sommo, la colpa più grave sarebbe legata alla zona genitale. L’ipotesi di Beverland destò l’attenzione di alcuni illuministi e la condanna dei primi romantici, così il contagio del piccante luogo comune attecchì nella letteratura più decadente e poi nella cultura popolare.
Antonello Gerbi (1904–1976) ricostruì la storia di questa falsa interpretazione. Economista e storico di origine ebraica ma di formazione e mentalità “laica”, Gerbi è noto soprattutto come americanista, grazie al saggio La controversia sul Nuovo Mondo. Però il libro della sua vita era un altro, proprio Il peccato di Adamo ed Eva, pubblicato nel 1930 e chiosato fino alla fine dei suoi giorni. Il saggio è stato appena ripubblicato per Adelphi (pag. 273, euro 28,00), con tutte le decennali note inedite e merita la lettura proprio per chiarirsi le idee. Gerbi era costretto a negare la fondatezza dell’ipotesi libertina che gli interessava più che altro per l’invito all’emancipazione dell’uomo dalla tutela divina. Se il peccato era cosa così naturale e diffusa, tutti gli uomini alle fine sono innocenti. Il peccato non è una cosa seria.
Purtroppo per Gerbi, la verità era un’altra, almeno per il catechismo. Causa del peccato originale e sua forma suprema è la concupiscenza, attitudine che certo non può essere ridotta e limitata alla lussuria. La concupiscenza è orgoglio luciferico, e la vera colpa dei primogenitori fu il lasciarsi sedurre dall’angelo caduto che prometteva la somiglianza della creatura con il creatore. Adamo ed Eva peccarono perché imitarono Lucifero non perché si accoppiarono. Gerbi trova i progenitori di Beverland, oltre che fra rabbini e cabalisti, anche fra alcuni padri della Chiesa: Origene, Ambrogio, Agostino. Ma a ben vedere la prima scintilla di quella lettura deviata arrivò dagli ambienti gnostici. Coloro che ritenevano la creazione un inganno di un demiurgo crudele e il corpo una prigione per l’anima, legarono il peccato al sesso, che aveva la spiacevole, per loro, conseguenza della riproduzione, ovvero della continuità della materia. Gli gnostici e i catari reagivano con severissima castità o con intemperanze sessuali e non è strano che il libertinismo ereditò una certa visione gnostica dell’esistenza: se la materia è sporca, tanto vale sporcarsi ancor di più; Adamo ed Eva hanno peccato congiungendosi e noi ci libereremo compiendo lo stesso peccato. Se i Padri poterono, con molti distinguo, suffragare una lettura sessuale del peccato ciò avvenne a causa della loro vicinanza culturale e storica con il manicheismo gnostico.
Durante il Medioevo si fece più chiarezza fra ortodossia cattolica ed eresia, il tomismo diventò la filosofia ufficiale della Chiesa e lo è ufficialmente ancora ai nostri giorni. Ebbene, il sommo pensatore tomista, San Tommaso D’Aquino non nomina mai quella che sarebbe diventata “l’ipotesi Beverland”. Migliore garanzia della sua mancanza di fondamento non si potrebbe chiedere. Anche perché, se veramente il peccato si potesse ridurre ad una storia di letto, dovremmo proprio dare ragione a Baudelaire, romantico naturaliter cattolico, per nulla “beverlandiano”: le profondità della colpa ancestrale, il terrore del peccato mortale si ridurrebbero ad “uno spettacolo noioso”.
http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-il-peccato-originalenon--questione-di-sesso-3725.htm |
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