“ Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi” (Gv.14, 16-17)
(1a parte)
Il “dialogo” con una cultura morta e mortifera
L’ultima proposizione condannata dal Sillabo, la n°80, sostiene che il Romano Pontefice può e anzi deve riconciliarsi con il liberalismo, il progresso e la civiltà moderna. Il Beato Pio IX, papa di fermissima fede, infatti, non scorgeva affatto questa necessità di riconciliazione con il mondo, così viva nei moderni, dimostrando una rara perspicacia e dando prova che lo Spirito di verità (Giovanni 14,16-17) dimora solo nella Chiesa Cattolica. Già, perché la convinzione che la fede possa e anzi debba conciliarsi con la cultura del secolo e dialogare con essa è un errore. E l’errore è quello di credere che la cultura sia, in ogni caso, un valore. Ma la cultura è innanzi tutto un modo di pensare e il modo di pensare del secolo presente, non già nelle sue conseguenze o derivazioni ultime e secondarie, ma nei suoi stessi princìpi, è inaccettabile.
Senza star lì a girarci intorno, bisogna dire che, da almeno un secolo la nostra cultura, la cultura dell’Occidente civilizzato, disgiunge allegramente la gnoseologia dall’ ontologia, per annunziare che il nulla è genitore dell’essere.
Vale la pena ricordare che, per la cultura moderna, le condizioni del nostro sapere cadono sempre dalla parte del soggetto, come osservava Kant e che, perciò, esse non possono mettere mai capo ad un sapere indipendente dalla coscienza che lo pone. In soldoni, abbiamo un sapere, ma esso esiste solo per noi, cioè solo per (e nella) nostra coscienza e mai fuori di essa, giacché fuori di essa non esiste nulla. Quindi, se anche si danno condizioni che rendono possibile la nostra conoscenza – per esempio, il Principio di Non-Contraddizione (d’ora in poi PdNC) – esse non sono in sé sussistenti. In breve: non esistono, perché se il PdNC, per esempio, dovesse esistere, sarebbe costretto a risiedere in una regione che va oltre la coscienza, e una regione che vada oltre la coscienza, per la cultura attuale, non c’è. E, allora, cosa sono? Sono funzioni da usare perché e finché funzionano. Ma cosa ciò voglia dire lo capisca chi può.
Ora, partendo da questa posizione scettica, diffusa dalla cultura moderna e che coinvolge tutti (credenti e non), viene da chiedersi se sia ancora possibile credere in Dio nel modo che c’è stato tramandato. C’è forse qualche persona cosiddetta colta ancora capace di credere al racconto della creazione così come si trova nella Genesi? O non è forse vero che tutti pensano che sia una metafora letteraria, valida finché non contraddice le sedicenti scoperte della scienza (evoluzione e big bang)? Oppure c’è forse qualcuno che capisca che l’evoluzione e il big bang sono miti e leggende ancora meno credibili, perché partono dall’ assunto che l’intelligenza non sia mai stata creata, ma provenga dritto dalla materia, e ciò senza mai darsi pena di spiegare una sola volta in che modo gli organismi monocellulari o l’acqua abbiano potuto dar vita al PdNC, che governa in modo ferreo la totalità dell’essere?
Per credere alla Genesi occorre, prima di tutto, aver compreso che il sapere moderno rinuncia consapevolmente a porsi su un piano metafisico e che, perciò, rinuncia ad essere vero. È sotto gli occhi di tutti che, sulla scia della scienza, noi rifiutiamo un sapere ultimo e definitivo che pretenda di determinare a priori la nostra vita. È sotto gli occhi di tutti che noi preferiamo un altro tipo di sapere, quello empirico, a posteriori, che proceda, come diceva Popper, per tentativi ed errori. Ma, sfortunatamente, non sono sotto gli occhi di tutti le conseguenze che bisogna trarre da questa concezione del sapere. Già, perché continua sempre più a diffondersi e ad affermarsi l’idea che questo sia un sapere, anzi il solo sapere vero, mentre si ignora che, restando confinato nel soggetto, questo sapere non è capace di sollevarsi mai – e ripeto mai – dall’ ambito dell’opinione. Nessuno sembra rendersi conto che questo sapere non ha il diritto di negare mai – e ripeto mai – nessun articolo della nostra santa Fede, perché rifiuta l’unico punto di vista da cui potrebbe confutarla e negarla (se fosse possibile, e non lo è): quello assoluto della metafisica. Il sapere empirico, infatti, non solo è, per sua natura, ipotetico, ma lo si vuole tale per l’orrore verso il sapere assoluto ed immutabile della metafisica. Ciò nonostante, noi cattolici continuiamo a credere che questo non-sapere sia un sapere e, infettati dallo scetticismo di un sapere simile, abbiamo sempre maggiori difficoltà a credere ai santi dogmi della Chiesa cattolica. Aveva, dunque, torto, il beato Pio IX a rifiutare il dialogo con questa cultura morta e mortifera?
Il concilio Vaticano II, invece, ha deciso di voltare risolutamente pagina, rinunciando ai “profeti di sventura” e adottando la famosa medicina della misericordia, come ebbe a dire Giovanni XXIII. La cosiddetta Chiesa del Concilio non ha mai fatto mistero di volersi aprire al dialogo condannato da Pio IX, e sono appunto le conseguenze di tale “dialogo” che qui vorrei evidenziare, a cominciare da quella più clamorosa.
Il rigetto del Principio di Non- Contraddizione
Oggi si discute se il Concilio Vaticano II sia o no in linea con il passato magistero dogmatico della Chiesa, e, a tal proposito, si parla di una posizione ermeneutica che sarebbe di continuità e una, invece, di rottura. Ma basta il problema degli Ebrei per comprendere che il nuovo rapporto con gli Ebrei, definiti, da ben due Papi, “fratelli maggiori nella fede”, e condiviso da tutti i modernisti, è opposto al precedente magistero. E’ sufficiente rileggersi la vecchia preghiera del Venerdì Santo per accertarsene. Eppure si insiste su una continuità di magistero, come se davvero ci fosse. Perché? Lasciamo perdere tutte le motivazioni di convenienza e concentriamoci sulla più significativa: l’ insensibilità, l’incuria, l’ indifferenza, quando non il disprezzo per il cardine della metafisica e di tutto il nostro sapere: il Principio di Non Contraddizione.
Sembra che oggi non si sappia più che un vero sapere, un sapere sicuro, sia obbligato a non contraddirsi. Oggi si insegna che il solo sapere vero è quello empirico, in dote alla scienza. Di questo sapere si è soliti affermare, con orgoglio, che corre verso sempre nuove conquiste a passi da gigante, però si omette di aggiungere che un sapere in cammino consegue, sì, mete sempre nuove, ma lasciando alle spalle quelle vecchie. Nella storia della scienza nulla è più facile che imbattersi nelle vestigia di grandiose teorie ormai smentite (anche se non definitivamente) e abbandonate. Nessun museo le raccoglie per esibirle al pubblico, perché, allora, diverrebbe fatalmente chiaro che esperire l’essente al modo della scienza moderna significa procedere a tentoni, per tentativi ed errori, come diceva Popper, e, dunque, prima affermando e, poi, smentendo ciò che si affermava; per affermare e, quindi, smentire di nuovo ciò che di nuovo si affermava; e così via all’infinito.
Bisogna inoltre far notare che il pensiero empirico non anticipa mai il campo dell’essere che esperisce, altrimenti non avrebbe bisogno di esperirlo, ma che si limita a descriverlo. E il tratto caratteristico di una descrizione è che al quadro in atto si possano sempre aggiungere elementi nuovi, non notati prima, giacché, come ben sa il filosofo della scienza, la descrizione di un’ esperienza è sempre un prodotto personale. A questo punto, non si farà fatica a comprendere perché il vero sapere è sempre a priori: perché non ha bisogno di esperire. Il sapere a prioripossiede, infatti, la capacità di determinare prima un campo di esperienza, rilevando che l’ esperienza del campo opposto è impossibile, in quanto è contraddittoria. Ad esempio, che uno scapolo sia un uomo non sposato è necessario già prima di venire sperimentato, tanto che sappiamo già in anticipo che non si verificherà mai nessuna esperienza del contrario, essendo essa contraddittoria non solo qui e in tutti i tempi e in tutti gli immensi spazi dell’universo, ma finanche nel Regno dei Cieli.
Questo rigetto del PdNC e della metafisica ha prodotto un mutamento epocale nel cuore della nostra Santa Religione.
L’abbandono della metafisica
Continua sull'edizione cartacea...
IN DIFESA DELLA VERITÀ
“ Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi” (Gv. 14, 16-17)
(2a e ultima parte)
B. Il magistero pastorale come ermeneutica
• Una mentalità luterana
La rinuncia alla Verità implica che Gesù non è e non dovrà mai più essere dogmatico e con Lui la Sua Chiesa. E, presi dall’esclusiva preoccupazione di non essere più dogmatici, i novatori non vedono che, una volta scardinata l’identità assoluta, cioè dogmatica, tra Cristo e la sua Chiesa, il sapere inerente alla salvezza lasciatoci da Gesù diverrà, proprio come il pensiero empirico, puramente ipotetico e opinabile. Cosa vuol dire questo? Che a quel sapere è richiesto di aprirsi al divenire storico e, quindi, a qualsiasi contributo dottrinale, a patto che non coltivi la pretesa di essere dogmatico. Eppure non è così che ragiona Gesù, ma Lutero. A proposito dei farisei, Gesù dice nel Vangelo: “Fate come dicono e non come fanno”. Secondo Gesù, esiste, dunque, una dottrina oggettiva, assoluta, intangibile e indipendente da chi la insegna. Non così per Lutero (e per il mondo). Con le sue accuse alla vendita delle indulgenze e alla condotta dei Papi, Lutero pensa che la santità della dottrina dipenda esclusivamente dalla probità del testimone, tradendo, in questo, una mentalità oggi molto diffusa.
Lutero è inconsciamente certo, quindi sicuro, che la dottrina è niente senza testimonianza. Perciò non esita ad esporla alla mercé di tutti, introducendo il libero esame. Egli va contro la proibizione evangelica di gettare le gemme ai porci, perché è convinto che la Verità non possa esistere senza il testimone. Per lui, evidentemente, la dottrina non vive di vita propria, indipendentemente da coloro che l’insegnano, da coloro che l’accettano o la rifiutano. Essa non scorre, pura come un torrente d’alta quota, nell’alveo della Chiesa. E le conseguenze di questa convinzione, svolgendosi lentamente nel corso dei secoli, porteranno all’ idealismo hegeliano; poi, da questo fino all’età nostra, in cui è ormai comune sentenza che l’essere è, ma solo nel cono di luce della coscienza, mentre fuori della coscienza che lo illumina, l’Essere è nulla e la coscienza è tutto: è dio.
È evidente che nessun cattolico oserebbe mai trarre conseguenze simili. Tuttavia, quando si ripete che, se non riusciamo a convertire, è solo perché siamo cattivi testimoni, cosa stiamo dicendo in realtà? Semplicemente che la Santa Dottrina, da sola, vale nulla. Il che spiega l’inspiegabile vicenda che ci tormenta da 50 anni, e cioè il bisogno di nuovi testimoni e nuove testimonianze, di nuovi linguaggi, di nuove liturgie, di nuovi arredi e canti in grado di dare valore alla Santa Dottrina di Cristo, proprio perché Essa, da sola, per i novatori di ogni specie, non ne ha.
• Una verità opera del tempo
Malgrado gli alti lai a cui talvolta si abbandona la gerarchia, il magistero pastorale resta attaccato all’ ermeneutica. Ma, dopo quello che abbiamo detto, viene naturale domandarsi quale valore abbia un’ ermeneutica che rifiuta la dogmatica. Perché è chiaro che l’ ermeneutica non ricusa di definire delle verità, ma poiché, per altro verso, non intende nemmeno far calare dall’ alto una Verità immutabile da imporre al soggetto senza attendere il suo consenso, al magistero può essere affidato soltanto il compito non più di imporre, ma di proporre la verità [il che fu già condannato da Leone XIII nella Libertas –ndr] e, inoltre, in una forma non esaustiva, in modo che anche il soggetto, insieme ad altri soggetti vi possa concorrere. Per questo oggi, diversamente dal passato, la Chiesa considera le differenze e il pluralismo dottrinale una ricchezza.
Il giorno 21 dicembre ricorre l’anniversario della dipartita al Cielo del nostro fondatore, don Francesco Maria Putti. Raccomandiamo la sua anima alle preghiere dei nostri associati.
sì sì no no e Discepole del Cenacolo
Tuttavia, ecco che sorge subito una domanda: si può seriamente sostenere che la Verità scaturisca dalla somma stratificata delle interpretazioni? In altri termini si può seriamentesostenere che sia la somma delle interpretazioni succedentesi nel tempo a darci la verità? Questo vorrebbe dire che il tempo non è opera della Verità, ma, viceversa, che la Verità è opera del tempo, essendo essa la somma stratificata delle interpretazioni di un fatto determinato (x). Eppure è proprio questo concetto della verità che si ha in mente allorché si afferma che l’ interpretazione del nostro fatto x (cioè il Vangelo) debba adeguarsi ai tempi nuovi. Ora, tutti sono in grado di comprendere che se il fatto x, per essere vero, deve attendere un’ interpretazione adeguata ai tempi nuovi (i nostri) allora non era vero prima della nostra interpretazione. Ciò che, invece, potrebbe sfuggire alla comprensione del novatore è che il fatto x non può essere vero nemmeno con l’aggiunta della nostra interpretazione. Già, perché se è il tempo a produrre la verità, allora bisognerà attendere il compiersi del tempo per avere la verità sul fatto x; e quindi, finché dura il tempo, qualsiasi interpretazione del fatto x (passata, presente, futura) non potrà mai essere vera. Ma, se nessuna delle varie interpretazioni succedutesi nel tempo è vera, ne consegue che non può essere vera nemmeno quando si siano realizzate le condizioni della definizione, ossia quando il tempo sia compiuto. Ciò che non è vero, infatti, non è vero mai. Pertanto, sostenere che il Vangelo ha bisogno di essere adeguato ai nostri tempi significa affermare che il Vangelo era, è e sarà per sempre falso.
• La “fede” dei novatori
Pare proprio che i novatori non abbiano reale consapevolezza di quel che pensano e, purtroppo, dicono e scrivono. S. Pio X fa notare, nella Pascendi, che, nei loro scritti, se una pagina è conforme alla sana dottrina, quella dopo è totalmente eretica. Nulla di più vero. E, ora, se ne vedrà il motivo.
Il cattolico sa, o dovrebbe sapere, che la Rivelazione non può essere contraddittoria per due ragioni:
a) perché risulterebbe incomprensibile;
b) perché la contraddizione non può mai venire all’essere.
Riguardo ad a) è tutto perfettamente chiaro: se l’enunciato della Rivelazione fosse contraddittorio, sarebbe inattendibile.
Riguardo a b), va detto, invece, che, per venire all’essere, la contraddizione è costretta a negare il PdNC; se non che, come ci informa Aristotele, anche per negare il PdNC, se si vuole dire qualcosa di vero, si è costretti ad assumerlo, il che dimostra che il PdNC è innegabile e, di conseguenza, che la contraddizione non può mai venire all’essere (ma resta confinata nel pensiero).
Ma, domanda il novatore, a che serve allora la fede? La risposta sarebbe ovvia: a credere a ciò che oltrepassa la nostra ragione senza mai contraddirla. Tuttavia, dato che il novatore non conosce la metafisica e, anzi, la disprezza, per lui una tale risposta è priva di significato. Cosa pensa, allora, il novatore della fede? Parafrasando (all’ingrosso) S. Paolo, egli pensa che è speranza delle cose che non si comprendono, e che, secondo lui, non si comprendono non perché oltrepassano la ragione umana ma perché la contraddicono. In altre parole, per il novatore come per lo scienziato, la contraddizione viene fatalmente all’essere col soprannaturale, perché il soprannaturale non obbedisce alle leggi fisiche che si conoscono. Ecco perché è necessaria la fede: perché la Rivelazione è la contraddizione venuta all’essere, cioè è l’impossibile e all’impossibile si può soltanto credere. Ora, si sa che ciò che è impossibile non può venire all’essere e, quindi la fede sarebbe inutile. Ma il novatore, invece, ragiona in altro modo: rigettata la sola sapienza che può sostenere la fede, cioè la metafisica, ecco che, come un fanciullo, si presta a creder all’impossibile, proprio perché è impossibile.
Poiché, dunque, il novatore è colui che, più o meno, consapevolmente, pensa che la Rivelazione abbia portato all’essere la contraddizione, come potrà non sviluppare un pensiero contraddittorio? Credere che la contraddizione possa venire all’essere significa, infatti, credere che una cosa sia e si mostri contemporaneamente vera e falsa. Nel caso dei novatori non c’è nulla di più evidente: la Rivelazione è vera, o lo deve essere, se si intende professare la fede cattolica, ma non lo può essere nel solo modo in cui la Verità è, cioè indipendentemente dal soggetto e dal pensiero. Una simile verità, che cala sul soggetto, senza attenderne il consenso, e a cui il soggetto deve soltanto adeguarsi mediante il dover essere e il dover credere, sarebbe per i novatori una verità alienante. Pertanto, se la verità della Rivelazione non può costituirsi nella forma assoluta portata alla luce dalla metafisica, essa, allora, dovrà sottostare alla forma scettica del pensiero moderno. È precisamente qui che l’opera di aggiornamento rompe con la Tradizione e con le Scritture. Se si adotta il pensiero moderno, si deve sapere che esso, in quanto è essenzialmente empirico, non possiede la facoltà di trascendersi, vale a dire che esso non può e, soprattutto, non vuole andare oltre l’immediatezza dell’essere. Come è possibile, allora, fondare la moderna esegesi su un tipo di pensiero che nega l’esistenza a tutto ciò che si sporge oltre l’ immediato apparire dell’essente e dunque nega l’esistenza non solo alla metafisica, ma – e ciò va gridato sui tetti – anche alla Divina Rivelazione? Come è possibile, domando, senza poi giungere inevitabilmente a revocare in dubbio, dapprima in modo implicito e quindi sempre più esplicito, tutte le sante Verità di fede, come si è visto fare negli ultimi cinquanta anni?
• La devastante vanità di innovare e rinnovare
Purtroppo, la novità dovuta all’adozione acritica del pensiero moderno ha prodotto anche un nuovo tipo di consacrato. Oggi, ai due figli della parabola del Vangelo vediamo aggiungersene un terzo. Se al padre che li chiamava a lavorare nella vigna, il primo rispondeva no e poi ci andava, mentre il secondo rispondeva sì e non ci andava, ora c’è anche quello che risponde sì e ci va, ma solo per “aggiornare” il vecchio lavoro del padre alle nuove tecniche. Si è sempre criticato il comportamento ipocrita del secondo figlio, ma, a dire il vero, davanti al pullulare dei lavoratori innovatori, oggi la sua ipocrisia muove al sorriso. Che dire di questi nuovi esegeti, che, rovesciando Vico, pensano di intendere il lavoro Altrui meglio di Chi l’ha fatto? Certo, sanno di non potere pretendere di spiegare Gesù a Se Stesso, ma, in ogni caso, liberatisi temerariamente della verità dogmatica, sono convinti di spiegarlo agli altri come mai nessuno ha fatto prima di loro e del loro tempo. Ciò, naturalmente, non è vero, ma la loro pretesa serve a svelare quale sia il vero pensiero del modernismo, un pensiero del nostro tempo comune a tutte le discipline: dall’arte alla letteratura, dalla filosofia alla musica.
Per i tempi antichi, la mimesi, l’imitatio, o comunque la si voglia chiamare, era il primo necessario passo verso l’apprendimento. Di cosa? Di tutto. Anche dei mestieri cosiddetti più umili. Nel nostro tempo, questo sforzo di imitare è considerato pura pedanteria, e il proverbio napoletano secondo cui “nessuno nasce imparato” non vale più nulla. Ecco, allora, che tutti sono chiamati a creare ex nihilo, o a ricreare di nuovo ciò che già fu creato; ecco che tutti, come Dio, pretendono far nuove tutte le cose.
A questo punto è necessario sapere che il vecchio meccanismo dell’imitazione proponeva all’ apprendista l’idea di non poter mai raggiungere il modello da cui era obbligato a lasciarsi umiliare ogni giorno. Davanti al modello, il povero apprendista era costretto – oh, crudeltà infinita! – ad imparare prima di tutto la vecchia, sana umiltà. Oggi, al contrario, lasciato questo crudele modello, negatore del più sacro diritto dell’uomo, quello di credersi dio, tutti pretendono di innovare o rinnovare tutto; purtroppo anche ciò di cui non se ne avverte il bisogno. E il risultato, nella nostra Santa religione, è il seguente: non soltanto la Chiesa non avrebbe saputo intendere il messaggio cristiano per ben duemila anni, e noi oggi sì; ma lo stesso Dio, ditemi voi, è forse riuscito a comprendere Se Stesso meglio di quanto L’abbiano compreso certi teologi moderni di cui è superfluo fare i nomi? Evidentemente, no. Purtroppo, questa moderna vanità di innovare e rinnovare ha conseguenze devastanti, anche se gli uomini di Chiesa fingono di non accorgersene.
Il rifiuto del dogma, infatti, cui fa necessariamente seguito un’esegesi di tipo storico, aperta a tutti e in costante divenire, conduce sciaguratamente il loro magistero a non costruire più sulla roccia, ma sulla sabbia. Ho già detto che il sapere moderno, essendo in costante divenire, ha la caratteristica, ben nota agli antichi, di non essere un sapere certo, ma opinabile. Se si fatica a comprenderne il motivo, ora lo si capirà con lampante chiarezza. Se, infatti, il sapere non è a priori, e cioè prima di ogni possibile esperienza, esso non sarà mai in grado di distinguere infallibilmente l’ errore dalla verità quando serve, ossia prima dell’esperienza. L’esperienza, come è evidente, non è mai in grado di sapere prima, cioè quando serve, se ciò che esperisce sia verità o errore, ed è per questo che esperisce (anche se, in realtà, spesso non lo sa neppure dopo). Dunque, se può anche sembrare normale che, sotto l’aspetto gnoseologico, l’esperienza possa verificare solo a posteriori la verità e l’errore; sotto l’aspetto ontologico la faccenda acquista un riflesso ben più sinistro, per la semplicissima ragione che il sapere relativo alla salvezza deve affidarsi inevitabilmente a quell’esperienza definitiva e inappellabile che potrebbe giungere troppo tardi, quando ormai il sapere empirico serve soltanto a constatare che le fiamme dell’inferno tormentano orribilmente. Giunto a quel momento, che se ne fa il credente del cosiddetto magistero pastorale?
C. Il primato della carità sulla verità ovvero la lampada posta sotto il moggio
• Un’involontaria smentita all’ ermeneutica della “continuità”
La lettera del Papa ai vescovi in merito al “caso Williamson” si presta benissimo a illustrare un altro mutamento epocale, patito dalla santa religione Cattolica Apostolica Romana.
Il perdono ai quattro vescovi lefebvriani, scrive il Papa, non rientra fra le questioni di diritto canonico, ma di dottrina. Il che vuol dire che la riabilitazione dei quattro vescovi esige il riconoscimento integro e totale del Concilio Vaticano II. E già qui si pone il problema: se la Fraternità S. Pio X è chiamata a conformarsi alla dottrina del Concilio Vaticano II, bisogna pur chiedersi in che cosa differisca la sua dottrina da quella del Concilio. Qui l’ ermeneutica della “continuità” riceve una smentita ed è chiaro che la variazione dottrinale non può essere imputata a coloro che sono detti “tradizionalisti” appunto per il loro attaccamento alla Tradizione. Non c’è dunque da chiedersi che cosa ci facciano i lefevriani e i cosiddetti tradizionalisti nella Chiesa, ma che cosa ci facciano gli altri.
Eppure coloro che pretendono di adattare il Vangelo ai tempi moderni perché non vi credono più esigono un’abiura da coloro che ancora ci credono. E ciò semplicemente perché detengono il potere, cosicché anche se non hanno più una dottrina dommatica, hanno però il potere di imporre le loro “novità” in punta di spada. Certo non lo fanno materialmente. Anzi si guardano bene dal farlo, e mostrano di tendere un’ evangelica mano a coloro che resistono nel credere al Vangelo, ma la tendono con uno scopo preciso.
• Una carità che abbraccia tutto fuorché la verità
Fin dall’inizio la lettera si chiede se non vi fossero questioni più urgenti di quella dei lefebvriani e ciò allo scopo di far sapere che la gerarchia “conciliare” ha a cuore questioni ben più alte di queste meschine beghe teologiche, avendo da insegnare la carità e l’amore. Tuttavia, per chi ha orecchi da intendere, qui, in realtà, si proclamano questioni più urgenti solo per relegare sprezzantemente nell’ambito astratto della teologia la più importante e la più concreta questione della fede di ciascuno e di tutti, e cioè la Verità di Cristo e, infine, della fede stessa. Questa questione viene contrapposta all’amore e alla carità, semplicemente per esservi subordinata.
Tuttavia non c’è nessun valido motivo per separare ciò che in Gesù appare indissolubilmente unito, nessun motivo per contrapporre la verità alla carità e meno ancora di attingere ad una logica incredibilmente assurda subordinando la prima alla seconda. Perché dovrebbe essere chiaro che, se Gesù non è la Via, la Verità e la Vita, la stessa carità non vale nulla. Essa non brilla di luce propria, ma solo alla luce della Verità, cioè soltanto se Gesù è la Via, la Verità e la Vita. In caso contrario, che senso avrebbe? Eppure si contrappone la carità alla Verità per confinare la questione della Verità tra le vuote asserzioni metafisiche della teologia. Perché? Perché la Verità possiede la caratteristica esplicita di eliminare l’errore e di escluderlo da sé.
Eppure è per questo che Gesù si è fatto uomo. Lo dice Lui stesso: per rendere testimonianza alla Verità affinché la menzogna non abbia più a prevalere insieme a colui che ne fu padre fin dall’inizio. Eppure, sembra incredibile, è proprio questa testimonianza che la lettera in esame ritiene secondaria ed irrilevante. Conformemente alla nuova teologia nata dal Concilio, essa riconosce soltanto il primato dell’ amore: di un amore inclusivo, che abbraccia tutto, fuorché la Verità, giacché la Verità, escludendo invece di includere, non può valere come un atto d’amore, ma, per usare le parole della lettera, di “inimicizia e odio”. La verità, dunque, non è amore e, per converso, l’amore è tale solo se rinuncia alla Verità. Come si vede: un’autentica catastrofe logica e spirituale.
Ma c’è di più. C’è, ad esempio, anche il tentativo di far credere che il testimone della Verità non dà testimonianza all’amore ed è incapace di respingere l’odio e l’inimicizia. Per rendersene conto, basta soltanto leggere il seguente passo: «Chi annuncia Dio come Amore "sino alla fine" [cioè la “Chiesa” del concilio vaticano II] deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’ inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’ Enciclica “Deus caritas est”. Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie… Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che "ha qualche cosa contro di te" (cfr Mt. 5, 23s.) e cercare la riconciliazione?». Naturalmente i veri termini della riconciliazione vengono ignorati. La lettera non ripete una seconda volta che la riconciliazione è rigorosamente posta sotto condizione di accettare il concilio Vaticano II né accenna alle ragioni di chi vi si rifiuta. Preferisce continuare sul piano retorico, parlando di amore e riconciliazione, per scaricare sugli altri la responsabilità di non volervi corrispondere, e, parallelamente, screditare ulteriormente la posizione di chi subordina un’ offerta d’amore a una fredda questione di dottrina.
Se c’è una cosa che dovrebbe essere additata ad esempio è la salda fede nella Verità di Cristo. E, invece, no. La fede di chi si ostina a credere che Gesù è Verità ecco che viene giudicata, da un Papa, come esempio di disagio psichico, come un elemento contrario, distorto e negativo, malato, da evitare:
“Non possiamo conoscere l’ intreccio delle loro motivazioni [parla della fede dei 491 sacerdoti della Fraternità]. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente”.
Dove è chiaro che gli elementi “distorti e malati” della fede di quei sacerdoti sono proprio quelli che li portano a professare fedeltà a Gesù Via, Verità e Vita. E ancora:
“Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate – superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc.”.
Qui bisogna usare misericordia e pregare, perché è chiaro che la lettera mostra di non sapere che “superbia, saccenteria, fissazione sugli unilateralismi” non appartengono a chi crede, ma a Gesù. È Lui, infatti, che afferma di essere la Via, la Verità e la Vita. È sempre Lui che afferma: “Non si possono servire due padroni”; “Chi non è con Me, è contro di Me”; “Chi non raccoglie con Me, disperde”. E, quindi, il solo “torto” di quei sacerdoti è di credere a Gesù e al suo Vangelo.
Viene da chiedersi: È tutto vero, o è uno scherzo? Solo che, purtroppo, non finisce qui. Resta ancora da trarre la più evidente delle conclusioni.
• Una “pace” di stampo liberale
Questo primato dell’amore vuol dire molto di più di quello che dice in apparenza. Vuol dire che la nuova “Chiesa” dichiara di non avere più nemici, se non la Verità (in tutto l’orbe terracqueo, infatti, è stato scomunicato soltanto monsignor Lefebvre) e, di conseguenza, che essa si impegna dinanzi al mondo a che qualsiasi segno di contraddizione – e quindi la stessa Verità di Cristo – sia ricondotto sotto il dominio dell’amore. Questo vuol dire che la lampada sarà riposta sotto il moggio. A tale scopo, la “nuova Chiesa” non esita ad invocare Maria, la Santa Madre di Dio, in veste di Regina della Pace.
Ma appare sin troppo evidente che la pace invocata dalla moderna “Chiesa” non può essere la pace di Cristo, fintantoché ci si immagina di realizzarla attingendo al modello liberale e cioè chiedendo a tutte le parti di porsi sul medesimo piano di parità, in modo che nessuna prevalga sulle altre.
È altresì evidente che la denuncia del relativismo culturale rischia di essere solo una finzione, dato che il presupposto della auspicata pace richiede, addirittura in nome di Cristo, che la Verità sia solo una delle tante parti in causa, e che, perciò, si pieghi a riconoscere all’errore un impossibile diritto. Perché è questo, alla fine, il bel frutto del rigetto del PdNC e della metafisica: l’ accettazione supina della vulgata liberale circa il pericolo che lo Spirito di verità (Giovanni 14, 16-17) comporterebbe per la libertà umana e la conseguente convinzione che il compito dell’ uomo di buona volontà consista nel conoscere e detestare questo pericolo col nome di “fondamentalismo cattolico” e quindi, nel combatterlo.
• Il prezzo della “civiltà dell’ amore”
In realtà, il cosiddetto fondamentalismo cattolico è un’invenzione di comodo, ideata da un mondo che preferisce una forma di verità più malleabile di quella metafisica. La metafisica ha al suo centro il PdNC e il PdNC, se non impedisce al soggetto di mutare dottrina, condotta o magistero, ne segnala, tuttavia, la contraddizione. Ma la metafisica è, ormai, alle nostre spalle, insieme al PdNC sicché, oggi, il credente, finalmente “adulto”, può addirittura aprirsi al “mondo” incurante di Colui che l’ha vinto. Giacché, tolto di mezzo – per dirla con S. Paolo – ciò che trattiene lo scandalo, ecco affacciarsi l’opportunità di adattare il Vangelo alle esigenze dell’uomo moderno edi servire a due padroni. Se, infatti, il PdNC non ha più alcuna importanza, segue che non vi è più distinzione tra la Verità e l’errore e che, pertanto, si può dialogare con tutti, senza più esclusioni di sorta, per costruire, già qui, adesso, sulla terra, nel mondo e col mondo, la cosiddetta civiltà dell’amore.
La civiltà dell’amore esige, però, dalla fede, un prezzo impossibile. Se nessuno è in errore, segue che nessuno è nel vero. Perciò, al festevole annuncio di pace e di amore della moderna “Chiesa”, al suo pacioso, gioviale ottimismo, il cui unico nemico è lo Spirito di verità, converrà domandare:si potrà conservare la fede cattolica, se essa non è tenuta per vera? E, infine, concluderò questo scritto con un ultimo quesito, lo stesso che il Signore rivolge a noi uomini dal Suo santo Vangelo, ma preceduto da una elementare osservazione: se la religione cattolica non è ritenuta più l’unica religione assolutamente vera, come testimonia, purtroppo, lo spirito di Assisi, quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.