Il 17 febbraio dell’anno 1600, ancor prima dell’alba, le porte del carcere romano di Tor di Nona si aprono per lasciare uscire una funerea processione. I confratelli della Compagnia di S. Giovanni Decollato, l’abito nero e le torce in mano, hanno ricevuto dal loro provveditore l’ordine di accompagnare il condannato in piazza Campo de’ Fiori. Alcuni di essi lo precedono, altri lo seguono, mescolati alle guardie di monsignor Governatore di Roma. Il prigioniero non può parlare. Ha «la lingua in giova», una morsa di metallo in bocca simile al morso utilizzato per i cavalli, ma con un ferro che gli arriva in gola. Dopo quasi otto anni di carcere sta per compiersi così l’esperienza di vita di Giordano Bruno: oggi grande filosofo, ieri «heretico impenitente».
Nato nel 1548, sin dagli inizi della sua carriera monastica nell’Ordine dei Domenicani (1566) Bruno, dal carattere irruento e contrario ad ogni principio di autorità o dogma di fede, ha avuto problemi con i suoi superiori, che lo sospettano di eresia; dieci anni dopo lascia l’abito religioso e la città di Napoli, girovagando per l’Europa: Svizzera, Francia, Inghilterra, Germania. Nel frattempo scrive le sue opere: cosmologiche, morali e… «magiche». E colleziona scomuniche: dai Calvinisti di Ginevra, nel 1579, ai quali si è convertito; dai Luterani di Helmested nel 1589. Amato dai suoi allievi e dai grandi pensatori del suo tempo, avversato dai difensori dell’ortodossia, tradito dagli amici, nel 1591 torna in Italia, a Venezia. Il patrizio veneto Giovanni Mocenigo lo ospita, poi lo denuncia al Sant’Ufficio.
E da quel 22 maggio 1592 Bruno perde definitivamente la libertà; trasferito a Roma, passa gli ultimi sette anni di vita in carcere, tra numerosi interrogatori e un processo estenuante (i cui atti sono oggi perduti), aggravato dalle terribili deposizioni di alcuni suoi compagni di cella, in particolare fra’ Celestino da Verona, processato più volte per eresia e infine arso sul rogo in Campo de’ Fiori. In quella stessa piazza romana, Bruno, «spogliato nudo e legato a un palo» viene bruciato vivo quel 17 febbraio, accusato di eresia per le opinioni espresse su Cristo, sull’Inferno, sulla trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro dopo la morte (metempsicosi), sui profeti della Bibbia, sui santi, sugli uffici divini, sui dogmi della Chiesa e altro ancora, ma soprattutto per la ferrea ostinazione nel difendere le sue teorie filosofiche e il rifiuto di abiurare quelle idee sulla pluralità dei mondi nell’universo infinito, sul moto della Terra intorno al Sole e altro ancora. Del resto la sua cosmologia non pregiudicava l’autorità delle Scritture, poiché profeti, patriarchi e padri della Chiesa, egli diceva: «sono meno de’ filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura».
La condanna al rogo era arrivata qualche giorno prima di quella fredda mattina in cui le porte del carcere si erano aperte. E Bruno aveva commentato così la sua sentenza di morte, rivolgendosi direttamente ai giudici: «Forse con maggior timore pronunciate contro di me la sentenza, di quanto ne provi io nel riceverla».
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