Ecumenismo: qualche passo, ma non troppi (Deo gratias)


Partiamo da due osservazioni generali (I parte dell’articolo – più blanda) per poi dedicarci al resoconto di una esperienza particolare (II parte dell’articolo – raccomandata).
Noi siamo di Kiko 
Prima osservazione, leggo e riporto da Messainlatino quale fu la circostanza in cui nacque la settimana per l’unità dei Cristiani, il che è molto interessante.
La SETTIMANA di Preghiera per l’Unità dei Cristiani e’ una pia pratica, inizata nel 1909 (lo scorso anno il centenario e’ passato sotto silenzio) dal Padre Paolo Francesco Watson (+1940), protestante convertito. Le intenzioni, cosi’ come erano concepite nello spirito originario sono le seguenti:

PRIMO GIORNO 18 gennaio, Cattedra di San Pietro in Roma. Pregare per la conversione di tutti coloro che sono nell’errore.
SECONDO GIORNO 19 gennaio, Pregare per la conversione di tutti gli scismatici
TERZO GIORNO 20 gennaio, Apparizione all’ebreo Ratisbonne. Pregare per la conversione dei Luterani e dei protestanti d’Europa in genere.
QUARTO GIORNO 21 gennaio, Sant’Agnese, Pregare per la conversione degli Anglicani
QUINTO GIORNO 22 gennaio, Pregare per la conversione dei protestanti d’America.
SESTO GIORNO 23 gennaio. Pregare per la conversione dei cattolici non piu’praticanti
SETTIMO GIORNO 24 gennaio. Pregare per la conversione degli Ebrei.
OTTAVO ed Ultimo giorno 25 gennaio Conversione di San Paolo. Pregare per la conversione degli islamici e di tutti i pagani.
Fatte salve eventuali forzature del sito tradizionalista, va detto che in questa prospettiva assumono una coloritura diversa i commenti di don Nicola Bux e la generale impostazione di papa Benedetto XVI.
Dobbiamo rallegrarci in secondo luogo per alcuni frutti molto promettenti che in questa settimana sono emersi. Lasciando da parte l’infausto presagio del naufragio della Concordia, e rimandando ad altri articoli le considerazioni sui tentativi di dialogo interreligioso tra Castellucci e Socci, non possiamo non salutare con piacere l’intervento del regnante Pontefice, in cui è arrivata l’approvazione delle costumanze quasi liturgiche dei fratelli Neocatecumenali.
Dopo anni di tensione e sospetti, certo pur sempre nel presentimento che i problemi non si risolveranno dall’oggi al domani, ancora una volta è un Romano Pontefice che – sulla scia di chi prima di lui chiese perdono per gli errori della civiltà cattolica medievale e moderna – dopo aver fatto ammenda per le colpe filo-pedofile della Catholica nel dopo-guerra, oggi viene a tendere una mano alla setta di Kiko e Carmen e li accoglie nel seno di Madre Chiesa.
Mi dispiace che Colafemmina ci sia rimasto male. Io personalmente fui deluso dall’approvazione degli statuti, e non mi attendevo nulla di meglio per il futuro. Per questo nel mio piccolo mi rallegro, perché mi diverte molto che il dialogo tra Cattolici e Neocatecumenali abbia fatto passi avanti proprio nel cuore della settimana per l’Unità dei Cristiani, e precisamente nel TERZO GIORNO 20 gennaio,  Apparizione all’ebreo Ratisbonne: pregare per la conversione dei Luterani e dei protestanti d’Europa in genere.
Di più è inutile dire; al di là delle accuse di arrivismo, arricchimento o lavaggio del cervello (su cui non insisterei – ricordo che la storica oltranzista Angela Pellicciari insegna nel seminario dei Neocat, il che li riscatta pur sempre rispetto a tanti seminari ed Istitui religiosi sedicenti ortodossi), a me resta il dubbio fondamentale: una volta morti i fondatori, al presentarsi della prima crisi del carisma, sapranno davvero confermarsi come movimento di punta della neo-evangelizzazione cattolica? Oppure prevarranno gli elementi di discontinuità – anche liturgica – e ne nascerà una nuova ed enorme setta a tutto tondo?
D’altronde a mio avviso era irrealistico chiedere a Benedetto di stroncare un movimento alimentato troppo e da troppi in questi decenni.La Suprema Congregazione insegna: le eresie o si stroncano sul nascere o si tengono, cercando di inglobarle almeno parzialmente, finché si può.
L’incontro ecumenico dei giovani
Ora veniamo al caso particolare, e per collegarci diamo un ultimo sguardo agli amici del neo-catecumenato, i quali trovano rinnovata energia e motivazione nelle celebrazioni liturgiche grazie al massiccio ricorso a balli, canti, scotimenti e patimenti collettivizzanti (un po’ come certi rampolli del calvinismo americano che basavano la loro preghiera su saltelli o ondeggiamenti).
Appunto, sono protestanti questi espedienti di auto-motivazione liturgica e di sostegno alla fede. Non mi ha stupito allora trovarne traccia nell’incontro ecumenico per giovani organizzato in una parrocchia della mia città, e ricco di particolari su cui riflettere.
Sì, se l’hanno scorso per divertirmi avevo ascoltato alcuni dibattiti di conferenzieri adulti e saccenti, quest’anno ho preferito l’approccio esperienziale e giovanile. Uno spasso.
La realtà più scioccante, e consolante insieme, della serata è stato il constatare come questo incontro ecumenico sostanzialmente non differisca dai molti incontri, veglie di preghiera, serate missionarie, ritiri etc. che per anni mi sono stati propinati negli eventi parrocchiali o addirittura diocesani. Sono stato svezzato da una spiritualità comunitaria calvinista! Potrò solo risollevarmi…
Vai con la cronaca.
Anzitutto, entrando noto subito che un terzo degli astanti sono sul brizzolato andante, e la chiesa non è piena: mi pare di poter intuire come procederà la serata.
Arrivando dal sagrato si sentono i ritmi della chitarra, ma è solo entrando che si gustano la voce soul del conduttore e le progressioni jazzistiche per accordi semidiminuiti e SUS4 con cui il tastierista cerca di riempire l’aula liturgica fredda e imbarazzata.
Terminata la prova dei canti si fa avanti il presentatore: né l’abbigliamento né il linguaggio permettono di capire a quale confessione appartenga. Secondo me è un ateo devoto. I suggerimenti da scolaresca appena salita sul pullman per la gita di fine anno, e Laparola che campeggia sul presbiterio (mentre l’altare è semi-coperto da un telo per le proiezioni – come nei templi dei Mormoni) mi indispongono. Ma mi faccio coraggio e resto.
Terminato il mio saluto al Santissimo mi porto dalla posizione in ginocchio a quella seduta, attendendo che inizi la preghiera.Lo dico subito, per certi aspetti la preghiera non inizierà mai, e la posizione seduta non verrà pressoché mai più abbandonata nel corso del culto.
A pochi istanti dall’inizio della festa si fa avanti pure un vescovo, che cita Barth, Laparola e l’importanza della pace nel mondo, quindi si defila.
Il giovane talento soul ci fa capire che lo spettacolo ha inizio. Ma nessuno si muove. Rimaniamo accucciati nelle panche suggestionati da un ritornello pieno di gargarismi e difficile da intonare (i melismi gregoriani hanno pur sempre un vantaggio sul pop: manca la batteria, quindi il ghirigoro si può eseguire con una certa calma e permette l’adesione di un pubblico maggiore). Io penso con compassione ai giovani ortodossi – li riconosco dall’abito più elegante, dalle barbe sfrontate, e da un paio di sacerdoti in abito talare che li accompagnano – abituati a stare in piedi per tutta la loro liturgia (eucaristica almeno) e qui costretti alla postura da cinema.
Segue la lettura di una pericope paolina, con commento di un giovane evangelico. Detto per inciso, un’ottima predicazione, da far la cresta a ogni nostro educatore, ministro lettore, ma anche a molti diaconi e fin preti delle nostre parrocchie medie (anche al vescovo di cui sopra). A proposito di vescovo, il predicatore si compiace che un vescovo cattolico abbia citato Barth, però lui non cita né il papa né qualche nostro santo, e nemmeno uno starec ortodosso o simili.
Quanto al vescovo che cita Barth – o Bonhoeffer – bisogna ricordare che ormai è la norma più che l’eccezione (due anni fa sentii Bruno Forte gongolarsi perché il beato Giovanni XXIII avrebbe definito Barth come il più grande teologo del Novecento – quello fu l’unico momento in cui capii come e perché nacque la confessione Vecchio-cattolica).
Fine della preghiera in senso stretto. Seguono due esibizioni corali. La prima degli ortodossi, che forse ha ricordato a qualcuno cosa siano la contemplazione e il Mistero: toni solenni, sospensione ritmica, gestualità severa, fede; poi un gospel evangelico che devo aver sentito in una delle piazze del Capodanno italiano appena trascorso: battimano, ammiccamenti, gioia gioia, spensieratezza. Ho guardato la reazione partecipata della parte cattolica, Buttazzo a confronto è paleolitico, sembravano tutti molto divertiti. Sembrava pure dovessero coprire in qualche modo la noia della preghiera, o almeno eccitarsi per non arrivare a provarne troppa. Sembravano i coretti “giovani” delle nostre chiese. Sembravano anche i Neo-cat ma meno spiritati, e poi ritmicamente più evoluti (anziché fermarsi al battito base arguelliano di We Will Rock You gli evangelici introducono sincopi e pause improvvise).
La penultima tappa prevedeva un video da proiettarsi sopra l’altare. Il video non è partito – chissà perché questi incidenti capitano sempre nelle nostre preghiere e non per esempio negli spettacoli di Castellucci. Una voce fuori campo ci ha spiegato che avremmo dovuto vedere un fiore germogliare. Meno male che non l’ho visto sennò, in nome della libera espressione artistica, ero già pronto a colpirlo con sassi ed escrementi umani e cattolici (in questo disponibile al concorso di altre confessioni).
Durante il coro hip-hop con non proiezione del video si doveva svolgere il Gesto. Il Gesto è quel nulla di simbolico che rimane quando togliamo i sacramenti, la tradizione, i movimenti sacri, il decoro, la ragione ontologica e il raccoglimento ma ancora non vogliamo arrenderci all’idea di lasciar che la gente vada a fare altro di meglio nella vita. Il Gesto era, come spesso avviene, antropologicamente improbabile, liturgicamente ripugnante e teologicamente ambiguo: portarsi all’altare e lasciare uno dei propri abiti in terra, alla fine avremmo avuto un cumulo di stracci superflui, tale da coprire l’altare, e su di essi sarebbe dovuto “germogliare il fiore”.
Essendo antropologicamente imbarazzante quasi nessuno ha partecipato (alla faccia della partecipazione liturgica tanto decantata) e così ci siamo risparmiati l’aborto di soffocare l’altare tra sciarpe di Gucci e il “fiore” che germoglia. Resta l’ambiguità teologica: l’abito da togliere deve ricordare la nostra corruzione che noi affidiamo a Dio; ma si sa bene che dicendo corruzione cattolici ed evangelici intendono cose assai diverse (e dopo il – udite udite – “consenso differenziato” – il termine è da manuale accademico – raggiunto con la Dichiarazione sulla dottrina della giustificazione tra luterani e cattolici del 1999 questo è pacificamente assodato).
Durante il Gesto scorre una sorta di Preghiera dei fedeli (non si sa bene se una Preghiera dei fedeli fiduciali o un Preghiera dei fedeli dottrinali) in cui si prega per il precariato giovanile, il dialogo, ancora la pace, le nostre chiusure (io avrei pregato piuttosto in riparazione delle nostre aperture di facciata).
Il mostro teologico – de corruptione – si risolve poi con un circiterismo (Romano Amerio) fluido (Zygmund Baumann) nella preghiera conclusiva in cui si invoca quell’Adamo che si era scoperto nudo e così si rischia di contrapporre alla dottrina della corruzione luterana, e a quella del vulnuscattolica, la proposta del lassismo gesuitico secentesco che vedeva nel peccato originale solo uno snudamento.
Lo so lo so, queste sono paturnie del sottoscritto, figurarsi se chi ha composto la preghiera conclusiva aveva in mente la teologia post-tridentina, Baio, Melantone, il Lessio e simili: aveva in mente la festa della famiglia, la primavera, i pellegrini incerti, l’altro in te, la tunica d’amore.
Finalmente ci viene detto di alzarci in piedi per la recita del Padre Nostro: prendendosi tutti per mano. E così una stretta di 30 secondi cerca di supplire a un’ora di gelidi imbarazzi (anche questo gesto, così luterano, così vuoto, così volontarista e così diffuso nelle nostre chiese).
Di nuovo seduti. Parte il canto finale del coro cattolico soul:  Per un mondo che vinca contro la guerra e la morte, per un futuro migliore ma non solo per me, dove nessuno è nemico, dove nessuno è perso, dove il silenzio ci parla di pace e libertà. Io ci sto-o-o, ci metto la fa-a-accia, ci metto la te-e-esta, ci metto il mio cuo-o-ore-e.
Quasi quasi rimpiango  Laparola e la coerenza volontaristica con cui gli evangelici anche giovani cercano di annunciarla e proclamarla (eccezion fatta per le canzonette negre).
Mi consola invece, dicevo all’inizio, scoprire tante analogie tra lo stile evangelico e le nostre assemblee domenicali: vuol dire che l’abominio della desolazione ha già toccato mediamente il fondo, si può solo migliorare.
Faccio il mio ringraziamento in ginocchio e poi rientro in casa, mi attende un rosario con un paio di amici. Peccato, mi perdo il meglio, il buffet dell’amicizia dove la festa diventa vera; i primi ad assalirlo – vedo con la coda dell’occhio – sono un paio di vecchietti affamati (poverini, se lo meritano, se ripensano alla formazione religiosa ricevuta in gioventù e la confrontano col nulla di canzonette in cui si cimentano i loro sgraziati nipoti: una pizzetta val bene un culto ecumenico!). C’è anche la sandwich-girl che ti invita insistentemente al pasteggio (eh sì, perché se il festino fa cilecca, questo è il segno che la preghiera non ha portato frutto).
Comunque non male per essere un meeting gratuito. Io però mi ostino a preferire l’altro ecumenismo, quello conla FSPX– anche se mancano i buffet finali.
L’appuntamento è all’anno prossimo conla Settimanaper l’Unità dei Cristiani (un modo fine per dire: anche questa volta non ce l’abbiamo fatta. Ad unirci).
Menomale.