La vita è, la vita deve essere soltanto amore, amore totale, amore indifferenziato, amore di tutto ciò che esiste?
Si rifletta bene che, se la risposta sarà affermativa, allora ne consegue necessariamente che si deve amare anche il male; anzi, per dire meglio, ne consegue necessariamente che non vi sono più il bene e il male - il bene da amare e il male da odiare -, perché, essendo ogni cosa degna e meritevole di amore, ogni cosa diventa assolutamente amabile.
Questa è la linea di pensiero che sviluppa, a un certo punto del suo itinerario speculativo, il filosofo Ugo Spirito; e questa è la linea di pensiero che, qua e là, è possibile intravedere, magari non dichiarata e non esplicita, in molti atteggiamenti, in molte prese di posizione, in molti comportamenti pratici, non solo di personalità della cultura laica, ma anche di teologi che si dicono cattolici e perfino di esponenti della gerarchia cattolica, quegli stessi che hanno preparato, favorito e portato avanti gli aspetti più “modernisti” del Concilio Vaticano II.
In subordine a ciò, si comprendono meglio le posizioni di quei teologi che tendono a negare, o che negano apertamente, l’esistenza del Diavolo e dell’Inferno; si comprendono lo stupore e l’imbarazzo con cui non solo la cultura laica, ma anche quella cattolica “progressista”, hanno accolto il discorso di Paolo VI del 15 novembre 1972 sul Diavolo, come agente oscuro e nemico, come essere personale che agisce nella storia e nella vita degli uomini, e vi hanno visto una involuzione e quasi un tradimento dello spirito “moderno” del Concilio.
Il bene e il male, dunque, come falso problema; come le due polarità di una visione del mondo lacerata e divisa; come incapacità di guardare oltre le apparenze e di riconoscere l’assoluta unità dell’esistente, nella dimensione dell’amore?
È questo un modo di vedere caro a quanti, consapevolmente o meno, vorrebbero negare la reale presenza e consistenza ontologica del male e, più in generale, si immaginano l’amore come una sorta di bacchetta magica capace di trasformare tutto il male in bene o, addirittura, di rivelare che il male non possiede una propria dimensione specifica e sussistente, ma è solo un errore di prospettiva, una illusione ottica, un equivoco dovuto a pregiudizi e insufficienza visiva.
Ma è una linea di pensiero accettabile e coniugabile con l’etica, non diciamo cristiana, ma con l’etica in quanto tale, se l‘etica è la scienza del bene e del male e se la sua ragion d’essere è quella di guidare gli uomini verso il bene e di trattenerli dal male?
Apparentemente, sembrerebbe che il pensiero di Ugo Spirito venga incontro al pensiero di San Paolo e al genuino messaggio cristiano, così come lo sintetizza Bernanos nella celebre espressione: «Tutto è grazia»; e anche a quelle frange di pensiero cristiano che vedono, per esempio, in Giuda una figura non solo necessaria, ma anche ammirevole, perché, senza di lui e senza il suo tradimento nei confronti di Cristo, il piano di salvezza divino rivolto a tutti gli uomini non avrebbe potuto realizzarsi.
Però, a ben guardare, questo tipo di impostazione tradisce una origine gnostica che da sempre è presente nelle pieghe del cristianesimo e che, a ben guardare, si fonda su un sofisma, e più precisamente su una confusione di piani tra ciò che è contingente e relativo, e ciò che è necessario ed assoluto.
Noi, al presente, viviamo nella dimensione del contingente e del relativo: in essa siamo immersi, con essa dobbiamo fare i conti; non è lecito confonderla con la dimensione dell’assoluto e del necessario, nella quale la prospettiva delle cose di quaggiù si modifica sensibilmente, nel senso che acquistano chiarezza e intelligibilità quelle realtà che, per ora, rimangono profondamente avvolte nel mistero, prima fra tutte quella del male.
Nella nostra presente dimensione, il bene è bene e il male è male: c’è poco da fare, c’è poco da arzigogolare; nessuno possiede la bacchetta magica per trasformare il male in bene, e tanto meno per trasformare il bene in male.
Non solo non li si può confondere, ma non li si può nemmeno azzerare, in nome di una unità indifferenziata in cui tutto è amabile: una tale operazione sarebbe scorretta e velleitaria sul piano teoretico, e profondamente dannosa sul piano pratico.
Sul piano dell’assoluto e del necessario, invece, le cose stanno altrimenti: ma quello è il piano del divino; noi non vi possiamo accedere, se non fugacemente, in qualche raro momento d’estasi; in quei momenti, e solo in quei momenti, vediamo, capiamo, sentiamo, che tutto è luce, tutto è amore, tutto è vita: ma poi torniamo con i piedi sulla terra, e finché siamo destinati a restarvi, ci rendiamo conto che noi non abbiamo gli strumenti per superare l’antinomia del bene e del male, e che sarebbe fuorviante e pericoloso volerla negare, perché noi non siamo Dio.
Di questa aporia, così come di altre cose che sfuggivano al distratto conformismo di molti, si è perfettamente reso conto un acuto teologo come Romano Amerio, il quale, per aver osato dire che non tutto era oro quello che luccicava nel “rinnovamento” della Chiesa conciliare e post-conciliare, ha subito un vero ostracismo ed è stato relegato in una posizione più che emarginata; per ricevere infine, ma solo post mortem, un parziale e tardivo riconoscimento della sua lucidità e della sua estrema onestà intellettuale.
Il suo libro più importante, «Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX», apparso nel 1985, mano a mano che passano gli anni e sbiadiscono certe mode, sempre più si rivela un’opera poderosa, di cristallina coerenza e di insospettata lungimiranza, e sempre più ci consegna l’immagine del suo autore come di un uomo che, lungi dall’essere un retrogrado e, magari, un reazionario, possedeva una straordinaria acutezza di pensiero e aveva anche il dono di una non comune indipendenza di giudizio.
Pescando fra le oltre settecento pagine di quel notevolissimo studio, si scopre una vera e propria miniera di spunti, di osservazioni, di valutazioni, che aiutano a farsi un’idea più concreta e veritiera del travaglio che la Chiesa cattolica ha vissuto nella moderna società secolarizzata e, di riflesso, che ha subito anche il pensiero cristiano, nello sforzo di “tenersi al passo coi tempi”, ma anche di restare fedele a se stesso, di non negare i punti di discordanza con il “modo”, di non edulcorare la natura di quei dissensi, ma anzi di guardarli bene in faccia, così come onestà e coerenza esigono.
Per quanto riguarda la tesi di Ugo Spirito sulla vita come amore “totale”, ecco le brevi, misurate ma lucidissime osservazioni del teologo svizzero (da: R. Amerio, «Iota unum», a cura di Enrico Maria Radaelli, Lindau Torino, 2009, pp. 356-58):
«… Né soltanto è la carità la più eccellente delle virtù, ma è propriissima del cristianesimo, giacché i Pagani non conobbero quasi né amore di Dio per il mondo né amore dell’uomo per Dio. Aristotele nell’”Etica a Nicomaco” nega, per la trascendenza dell’uno sull’altro, poter essere amicizia tra Dio e l’uomo e Platone, nel “Simposio” lo nega parimenti, perché l’amore è figlio di Penia e implica indigenza.
Questa eccellenza dell’amore viene contraffatta dalle correnti neoteriche. Come aboliscono il logico in favore del vissuto, così aboliscono la legge in favore dell’amore e i tal modo, la legge essendo la struttura della moralità e della religione, vengono a ridurre la Chiesa stessa a fermento d’amore.
Nell’opera di Ugo Spirito “La vita come amore” questa risoluzione di tutti i valori, e massime dei logici, nella categoria del’amore è teorizzata con coerenza inflessibile e qualificata come il tramonto della civiltà cristiana, troppo signoreggiata dal Logo. La tesi dello Spirito implica infatti, come dicemmo già tante ma non troppe volte, la negazione del Verbo, cioè dell’organismo triadico, cioè di Dio. L’autore sostiene che il Logo sia incompatibile con l’agape e che si possa giungere all’amore soltanto eliminando la dualità e opposizione di bene e male e conseguentemente il giudizio di valore da cui l’opposizione è espressa. Per poter amare occorre un’acrisia assoluta che levi ogni “discretio spirituum” e che degradi insomma il principio di contraddizione in forza del quale il male non è il bene e deve essere odiato, mentre il bene va amato. Secondo Ugo Spirito la crisi del mondo è propriamente e formalmente effetto del giudizio onde l’uomo è diviso tra vari e disvalori tra cose amabili e cose odibili. La profondità metafisica e veramente principale di questo amore assunto come il trascendente i cui tutto si fa uno, non può certo sfuggire. In realtà l’amore sarebbe possibile soltanto nella nullità dei valori. Ma vi è intrinseca contraddizione nel dire che una cosa è amabile perché non può essere giudicata amabile. Il circolo vizioso è l’identico circolo vizioso del pirronismo: se si supera la distinzione tra l’amabile e l’odibile per forza d amore, occorre ancora quella distinzione per scegliere come abile la in distinzione. “utcumque philosophandum est”.
È superfluo osservare che la teoria della vita come amore aborre da giudizi assoluti e perciò rigetta il giudizio assoluto che nell’etica chiamasi inferno. E questo non perché si dica che tutti sono salvati, i giusti ala giustizia e i malvagi dalla misericordia di Dio, ma perché virtù e crimine sono uno nell’amore che si situa al di là di ogni contrapposto.
Come nell’infinito lo Spirito santo procede dal Verbo e nella creatura spirituale la volontà dall’intelletto, così la negazione di quella processione importa l‘assorbimento della legge nell’amore. L’uomo avente la carità è libero dalla legge la quale è presa unicamente come ordine obbligante e coercitivo. Anzi si contrappone la legge allo Spirito e se ne fa il carattere dell’uomo antico e il contrario del vangelo. La dottrina cattolica viceversa insegna che l’amore contiene l’obbedienza alla legge e modella la volontà sull’ordine della legge. Le parole di Cristo in Iohann., 14, 15, sono irrefragabili: “Si diligitis me, mandata mea servate”. Se non fosse la legge, come si manifesterebbe l’amore? L’amore non scioglie la legge, ma l’adempie, come, metaforicamente, la volontà suppone l’intelletto e, teologicamente, lo Spirito santo suppone (se è lecito dirlo) il Verbo….»
Come si vede da questa pagina, la questione relativa alla vita come amore che negherebbe l’esistenza reale del male, non è che un aspetto della più vasta problematica, sulla quale si incentra il poderoso e lucidissimo saggio di Amerio, del rapporto fra amore e legge; rapporto che, da sempre, alcune frange del pensiero cristiano vorrebbero risolvere a favore dell’amore, come se esso fosse contrapposto alla legge.
Ora, è ben vero che San Paolo contrappone, per così dire, l’amore e la legge, quando afferma che, secondo la legge, gli uomini sarebbero inesorabilmente condannati, mentre sono salvati per mezzo dell’amore; ma ciò che li salva è l’amore di Dio, che non contraddice la necessità, per essi, di rispettare la legge, e non l’amore degli uomini, che, imperfetto com’è, non sarebbe in grado di salvare nessuno, e neppure se stesso.
Come si vede, anche all’origine di quest’ultimo dibattito vi è un equivoco di fondo: perché, quando si parla dell’amore, bisognerebbe distinguere nel modo più chiaro l’amore di Dio per l’uomo, che è totale e assoluto e che, ovviamente, comprende la legge, ma senza abolirla, e l’amore degli uomini fra di loro e verso Dio, che è imperfetto e che, da solo, non ha la forza di farsi norma a se stesso, e sempre si inscrive all’interno della legge.
E, per evitare possibile fraintendimento, precisiamo subito che per “legge” non si intende solo la legge formale, la legge mosaica, inglobata poi nel cristianesimo, ma s’intende anche e soprattutto - e qui il discorso è aperto, apertissimo alla cultura laica, ma su un piano di distinzione che non esclude possibili punti d’incontro, anzi li desidera e li cerca, però sul piano delle rispettive identità - la legge morale in quanto tale, la legge morale che distingue il bene dal male e chiama ciascuno di essi con il suo nome, senza ambiguità o, peggio, senza confusioni.
Si obietterà che molte filosofie e religioni orientali, d’indirizzo non dualista, negano la netta distinzione, o meglio, negano la netta contrapposizione del bene e del male, così come la conosce la cultura occidentale e, in essa, specialmente il cristianesimo; e che tale distinzione, tale dualismo, potrebbero leggersi come sintomi di scissione psicologica, di autentica schizofrenia.
Il discorso sarebbe qui troppo lungo e richiederebbe una analisi dettagliata di quelle filosofie e di quelle religioni, peraltro non sempre ben comprese in Occidente, che esula dai limiti e dalle finalità della presente riflessione.
Pertanto ci limitiamo, per adesso, a porre la questione nei termini più semplici possibili, all’interno delle coordinate culturali che sono proprie della nostra cultura e che risultano, quindi, di più immediata comprensibilità non solo per lo studioso di filosofia e di religioni comparate, ma per l’uomo comune, che non può certo essere considerato come una variabile secondaria in un dibattito sul senso complessivo dell’etica: se si afferma che tutta la vita è amore, allora ci si dovrebbe prendere anche la responsabilità di dichiarare incomprensibile e inaccettabile la presenza del male, oppure negarla addirittura.
Ma, a quel punto, bisognerebbe anche spiegare a una mamma che ha perso il suo bambino per una dolorosa e fatale malattia, a un padre che ha visto suo figlio ucciso in una guerra crudele o in un attentato di terroristi fanatici, che si è trattato solo di apparenze ingannevoli; che non vi è stata sofferenza; che non vi è stato proprio nulla di moralmente problematico.
C’è qualcuno che, in tutta onestà, si sentirebbe di farlo?
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
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