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lunedì 19 marzo 2012

Modernisti ma non liturgisti vaticani

Il latino dei tempi moderni non è l’inglese. Londra lo sa, Roma doesn’t

La regola del buon costume è che non si deve parlare male dei morti. Quando il soggetto in questione, poi, è una lingua allora non solo bisogna osservare rispetto, ma spesso anche invocarne la resurrezione. Così Tim de Lisle del More Intelligent Life, il magazine dell’Economist, alla domanda su quale sia la lingua più utile da studiare ha risposto: il latino. Perché il latino è rigoroso e complesso. Il latino è una forma mentis, educa alla comprensione e al rispetto delle regole, insegna l’importanza che assumono le strutture grammaticali e sintattiche nella comunicazione. Spesso anche nella vita. Dice De Lisle: “Se il tuo lavoro ha a che fare con le parole, il latino è la lezione di Pilates che ti accompagnerà per sempre, fortificando l’anima”. Si potrebbe quasi dire “aerobica del linguaggio”, quindi, con effetti tonificanti sul cervello, un vero toccasana psico-linguistico.
Ed è comprensibile: il popolo di Roma è stato costretto a coinvolgere all’interno di strutture ferree un impero così vasto, eterogeneo, così complesso che l’Eurozona di oggi farebbe sghignazzare Cesare Augusto. La lingua dello Ius ne divenne il collante, modellandosi su forme tanto rigorose quanto a volte artificiali. Per certi versi è il contrario dei cugini greci, che anche allora con l’austerity, seppure linguistica, non avevano grande affinità: il greco della poesia, nel senso di poiesis, ricreare, plasmare, avvolgere, è un concetto ben lontano – seppure invidiato ed emulato – dalla mentalità giuridica romana. Il segreto dell’eterna giovinezza del latino? Rigor mortis, per Tim de Lisle, questo è il prezzo da pagare: solo una lingua morta può conservare un rigore, appunto, così statuario.

L’elogio al latino visto dal More Intelligent Life potrebbe riaccendere un barlume di speranza in Tullio Gregory, direttore dell’Istituto per il lessico intellettuale europeo e storia delle idee, che di recente sul Corriere della Sera ha sfidato a singolar tenzone la progressiva anglofilia nell’istruzione italiana.
E’ il ministro dell’Istruzione italiano, Francesco Profumo, ad avere provocato battaglia, proponendo per l’Università italiana un progetto di apertura agli studenti stranieri tramite corsi di laurea esclusivamente in lingua inglese. Così Tullio Gregory ha fatto notare che a parer suo non se ne sentiva l’esigenza, anzi il problema è esattamente il contrario: “Mentre la conoscenza e la pratica della lingua italiana regredisce nelle nostre scuole medie e la capacità di comprendere un testo scritto è sempre più ridotta negli adulti, si apre il miraggio dell’inglese”. La pietra filosofale.

E così mentre gli anglosassoni vedono nella cultura umanistica un lasciapassare per la formazione individuale e professionale, l’Italia affetta da ansia da prestazione è spaventata dall’astratto non meccanicamente produttivo. Solo una moda o addirittura un rischio, l’anti classicismo potrebbe seppellire (con morte ma senza rigore) la grande e sottovalutata risorsa umanistica della tradizione italiana. Il pensiero corrente vuole autocensurare l’indole per la cultura “fine a se stessa”: ecco la reazione patologica all’autostima del paese, ormai frantumata in mille pezzi. “La verità è che gli studi umanistici, classici, letterari, filologici, storici sono del tutto fuori dagli orizzonti di coloro che da decenni hanno governato e governano la nostra scuola e i nostri enti di ricerca”, dice Tullio Gregory. Un dramma che si riverserà anche sulle imprese. Perché un cittadino colto che ha avuto accesso alle lezioni di “Pilates intellettivo” porterà sempre con sé la prontezza intellettuale, principio fondamentale, secondo il giornalista – inglese – Tim de Lisle, per la comprensione delle regole che sostengono il mondo contemporaneo.
di Elisa Adelgardi

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