ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 2 maggio 2012

Verba volant

ROMANO AMERIO - IOTA UNUM - IL DIALOGO

Ringrazio l'amico Piero Mainardi per aver riportato, in forma sintetica, importanti passaggi del libro di Romano Amerio, Iota Unum, e di avermi concesso di riportarli nel mio blog.

CAP. XVI IL DIALOGO

1.1   DIALOGO E DISCUSSIONISMO NELLA CHIESA CONCILIARE - 

Nel vocabolo dialogo si è consumata la più grande variazione della mentalità della Chiesa post-conciliare, soltanto paragonabile a quella seguita al vocabolo libertà nel secolo precedente. Il vocabolo è sconosciuto e mai usato fino alla dottrina del Concilio. Non si trova mai nei Concilii precedenti, nelle encicliche papali, nell’omiletica pastorale. Nel Vaticano II il termine dialogo è usato 28 volte (12 nel decreto Unitatis Reditegratio). Ma questa parola nuovissima nella Chiesa cattolica, diventò, con una propagazione fulminea e con enorme dilatazione semantica, il vocabolo principe della protologia (cioè il discorso primo metafisico) postconciliare e la CATEGORIA UNIVERSALE DELLA MENTALITA’ NEOTERICA.


Si parla di dialogo ecumenico, di dialogo tra Chiesa e mondo, di dialogo ecclesiale. Sia scrive struttura dialogica alla teologia, alla pedagogia, alla catechesi, alla Monotriade, alla storia della salvezza, alla scuola, alla famiglia, al sacerdozio, ai sacramenti, alla redenzione ecc.
Il passaggio dal discorso tetico, proprio della religione, a quello ipotetico e problematico lo si coglie nei titoli dei libri.Da Institutiones, Manuali, Trattati si è passati a “Problemi di filosofia”, “Problemi di teologia”. La manualistica viene aborrita e disprezzata in ogni campo: si pubblica non più il “Manuale dell’infermiere” ma “I problemi dell’infermiere” .
Nell’agosto del ’64 Paolo VI dedicò la terza parte dell’Ecclesiam suam al dialogo. Paolo VI poneva equazione tra il dovere che incombe alla Chiesa di evangelizzare il mondo col suo dovere di dialogare col mondo. Ma l’equazione non trova appoggio né nella Sacra Scrittura né nel lessico. Nella Scrittura  dialogus non di trova mai, colloquium sta per incontro di capi e conversazione, ma mai in quello moderno di incontro di persone. Tre volte nel NT lo si usa nel senso di disputa. Nei Vangeli l’evangelizzazione è un annuncio e non una disputa ed è comandata agli Apostoli direttamente come un  insegnare.
Alla dottrina e non alla disputa si riferisce il mandato apostolico.
Negli Atti Pietro e Paolo disputano nelle sinagoghe ma non è il dialogo in senso moderno, cioè di ricerca,   ma di confutazione e di impugnazione dell’errore. La possibilità dialogale cessa nel momento in cui il disputante, per ostinazione o incapacità, non è più suscettibile di persuasione.
Negli Atti e nei Vangeli si mostra che Cristo e poi gli apostoli parlavano con autorità.  Il fondo della questione è che la parola della Chiesa non è parola d’uomo, ma parola rivelata, destinata all’accettazione e non alla controversia.
Al paragrafo 38 di Ecclesiam suam Paolo VI mantiene il concetto tradizionale affermando:” Anche la nostra missione è annuncio di verità indiscutibili e di salute necessaria; non si presenterà armata di esteriore coercizione, ma solo per le vie legittime dell’umana educazione”. Tale affermazione fu così tradizionale che il segretario del Consiglio Ecumenico il protestante Wisser Hooft si affettò a notificare che il concetto papale COME COMUNICAZIONE DI VERITA’ senza reciprocanza, non era conforme al concetto ecumenico.

1.2   Filosofia del dialogo – 

Il dialogo nella filosofia neoterica, e lo professa lo stesso Osservatore Romano del 15 gennaio ’71, ha per base la “perpetua problematicità del soggetto cristiano”, cioè l’impossibilità di fermarsi in qualcosa che non sia un problema.
Il dialogo incappa in una prima aporia quando lo si fa coincidere  con l’universale officio  della evangelizzazione e lo si preconizza come mezzo di diffusione della verità. E’ impossibile che tuti dialoghino. La possibilità del dialogo è in funzione della scienza che si abbia del soggetto e non, come si pretende, in funzione della libertà o della dignità dell’anima. Il titolo a disputare dipende dalla cognizione e non dalla generale disputazione dell’uomo alla verità. La perizia è poi effetto della fatica e dello studio, della riflessione non corsiva o estemporanea, ma metodica e assidua. Nel dialogo contemporaneo invece si suppone che ogni uomo, perché razionale, sia atto a dialogare con tutti e sopra tutte le cose. Si richiede perciò che il vivere della comunità civile e il vivere della comunità ecclesiale siano ordinati in modo tale che tutti partecipino non, come vuole il sistema cattolico, recando ciascuno la propria scienza, bensì la propria opinione e non adempiendo la parte che gli spetta, ma pronunciandosi su tutto.
Vi è poi un abbaglio sull’onere della prova supponendo che il dialogo debba e possa soddisfare  a tutte le obiezioni del contraddicente. Che un uomo si offra a un altro uomo per procurargli un’intera soddisfazione intellettuale sopra un punto qualunque della religione, arguisce un vizio morale. E’ infatti  temerario affermare il vero e d esporsi a una discussione estemporanea e onnimoda. Ogni soggetto presenta mille lati di cui ne conosce solo pochi.
Ma anche dal lato dell’interrogante il dialogo patisce difficoltà perché poggia su un supposto gratuito: un intelletto può essere capace di formulare un’obiezione e contemporaneamente incapace di comprendere l’obiezione che la scioglie.
Nessun individuo è certo che la propria forza intellettuale sia  pari alla forza delle obiezioni che si muovono contro. E’ l’errore di Cartesio che nel suo metodo supponeva che la Ragione fosse uguale in tutti gli individui e in tutti gli individui ugualmente esercitabile.

1.3   I fini del dialogo. Paolo VI. Il segretariato per i non credenti – 

Notevole è il divario tra dialogo tradizionale e moderno, quando si considera il fine assegnato al dialogo, che per i neoterici non ha per fine la confutazione dell’errore né la conversione dell’interlocutore. Il concetto di polemica è indissolubile da quello di vero e falso.
Il fine del dialogo per il cattolico non può essere euristico, perché egli, quanto alla verità religiosa, è  in possesso e non in ricerca. Neppure può essere eristico, cioè di carattere contenzioso, perché hai per motivo e per obiettivo la carità. Il dialogo invece è inteso a dimostrare un vero, a produrre in altri una persuasione e ultimamente una conversione. Questa finalità del dialogo fu insegnata chiaramente da Paolo VI il 27 giugno ’68:” Non basta avvicinare gli altri, ammetterli alla nostra conversazione, confermare ad essi la nostra fiducia, cercare il loro bene. Bisogna inoltre adoperarsi affinché si convertano. Occorre predicare perché ritornino. Occorre recuperarli all’ordine divino che è uno solo”.
Dichiarazione che acquista un’importanza particolare perché si parlava di dialogo ecumenico.
Ciononostante nell’Osservatore Romano del 21 agosto 1975 il Segretario del Segretariato per i non credenti faceva questa dichiarazione diametralmente opposta: ”Senza dubbio il Segretariato è sorto non con l’intento di fare proselitismo tra i non credenti, anche se esso viene inteso in senso positivo, e neppure con intento apologetico, ma piuttosto con quello di promuovere il dialogo tra credenti e non credenti”.

1.4   Se il dialogo sia sempre arricchimento. Il dialogo cattolico – 

In primo luogo accanto al dialogo convertitore esiste un dialogo pervertitore in cui collocutore vien distolto dalla verità e fatto cadere nell’errore.
In secondo luogo occorre considerare la situazione del dialogo. Mancando ai due interlocutori un principio comune dal quale sillogizzare, per cui è impossibile provare la verità, e il dialogo si risole in improduttivo.
Il dialogo cattolico ha per fine la persuasione e, in un ordine più elevato, la conversione del collocutore.
In genere si tende a confondere il dialogo in materia naturale e il dialogo di fede soprannaturale. Il primo si svolge sotto il lume della ragione che accomuna tutti gli uomini e avviene alla pari: i dialoganti sentono sopra il loro dialogo il Logo, che è più importante del loro dialogo. Vi è però un altro dialogo nel quale è impegnata la fede e nel quale i collocutori non posso o muoversi convergendo verso il vero né situarsi in condizioni di parità. Il collocutore non credente sta infatti in una posizione di rifiuto o di dubbio nel quale il credente non può collocarsi.
Si potrebbe obiettare che il credente potrebbe mettersi nella condizione cartesiana del rifiuto e dubbio metodico e provvisorio solo per dialogare. Ma se il dubbio e il rifiuto sono reali si perde la fede e si cade nel peccato, se è finto il dialogo è viziato da simulazione e ha una base immorale.
In un articolo sull’Osservatore Romano del 26-7 dicembre 1981 si tenta di mantenere il dialogo fruttuoso anche per il credente. Ma la contraddizione è manifesta perché se si ammette che “se il Signore Gesù che si possiede è la verità suprema totalizzante dell’uomo … allora si tratta di apprendere qualcosa d’altro e di più di quanto si è ricevuto per grazia”. Se invece Cristo è la verità suprema e totalizzante allora “non si vede come gli si possa aggiungere un’idea o un’esperienza”. Ma poi l’autore trova che anche il credente trova qualcosa da aggiungere alla sua fede “alla condizione che tali nuove acquisizioni non siano percepite come delle aggiunte  a Cristo. Sono semplicemente delle sfaccettature, dimensioni, aspetti del mistero di Cristo che il credente possiede già e scopre sotto lo stimolo di chi, pur non essendo cristiano consapevole lo è in concreto”. Qui si dice che l’aggiunta di cognizioni non è aggiunta di cognizioni, che l’ateo è un cristiano implicito; che l’ateo tiene sfaccettature del mistero, che il cristiano esplicito non conosce, e gliele suggerisce.
Concludendo sul dialogo della Chiesa postconciliare diciamo che il dialogo neoterico non è il dialogo cattolico. Primo perché ha funzione puramente euristica come se la Chiesa dialogante non possedesse ma cercasse la verità o se nel dialogare potesse prescindere dal possesso della verità.
Secondo: perché non riconosce la posizione superiore della verità rivelata, come se fosse caduta la distinzione di grado assiologico tra natura e Rivelazione.
Terzo: perché suppone parità, sia pure soltanto metodica, tra i dialoganti, come se il prescindere dal vantaggio della fede divina non fosse un peccato contro la fede.
Quarto: perché postula che tutte le posizioni dell’umana filosofia siano indefinitamente disputabili, come se non esistessero punti di contraddizione principali che troncano il dialogo.
Quinto: perché suppone che il dialogo sia sempre fruttuoso e che “nessuno deve sacrificare  alcunché, come se non vi fosse un dialogo corruttore che spianta la verità e impianta l’errore.
Il dialogo verso una verità più alta e più universale non conviene alla Chiesa cattolica, perché non le conviene un processo euristico che la metta sulle tracce della verità ma soltanto un’operazione della carità la quale vuole comunicare una verità posseduta per grazia e trarre non a sé ma alla verità. La superiorità infatti non è del credente dialogante sopra il non credente dialogante, bensì della verità sopra tutte le persone dialoganti. Non si scambi l’atto con cui un uomo persuade un l'altro della verità con un atto di sopraffazione e di offesa della altrui libertà. La contraddizione logica e l’aut aut sono strutture dell’essere, e non violenza.

L’EFFETTO SOSCIOLOGICO DEL PIRRONISMO E DEL CONSEGUENTE DISCUSSIONISMO E’ IL PULLULARE DI CONVEGNI, INCONTRI, COMMISSIONI, CONGRESSI, COMINCIATO COL VATICANO II. DI QUI LA CONSUETUDINE DI RIMETTERE TUTTO IN PROBLEMA E TUTTI I PROBLEMI AFFIDARE  A COMMISSIONI PLURIME E SCIOGLIERE LA RESPONSABILITA’, UNA VOLTA PERSONALE, IN CORPI COLLEGIALI.

Daniele Sottosanti (noreply@blogger.com) Mar maggio 1, 2012 

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