Tutto comincia nel giugno del 2006, con l’allora segretario del
cardinale Angelo Sodano, monsignor Piero Pioppo, che rumors vaticani
dicono inviato a Genova per cercare di convincere l’arcivescovo Tarcisio
Bertone che “no”, non era cosa da salesiano accettare la nomina a
segretario di stato del Vaticano.
Dopo Sodano, per l’ala diplomatica, e cioè per la vecchia guardia che da Agostino Casaroli in poi ha fatto grande il pontificato giovanpaolino supportando lo spirito messianico di Karol Wojtyla con un’indubbia intelligenza di governo, l’unico candidato possibile era Giovanni Battista Re, allora prefetto dei vescovi, ma dal 1979 al 1987 anche “uomo macchina” della stessa segreteria di stato.
Bertone non ci sta. Non ascolta il consiglio che Pioppo gli porta, di fatto, a nome della scuola diplomatica di piazza della Minerva e ottiene dal Papa il 7 luglio la nomina a “numero due”.
Sodano la prende male. Si tiene per mesi l’appartamento che spetterebbe a Bertone all’interno del palazzo apostolico, lo umilia pesantemente costringendolo ad abitare come un esule nella vecchia torre situata in cima ai giardini vaticani e poi, come ultima dirompente azione di governo, nomina Pioppo prelato dello Ior, una carica vacante dai tempi di Paul Casimir Marcinkus, estrema prova di forza che sa di sfida lanciata apertamente al suo successore. Come dire: “Il potere è nelle tue mani, ma sappi che io ti controllo”.
Il resto discende da qui. Da questa prima dirompente frattura all’interno della curia romana: i diplomatici contro Bertone. Certo, ci aveva provato Bertone a convincere stampa a prelati che il suo avvento non era un unicum.
E non aveva tutti i torti: prima di lui, spiegò, ci fu un grande segretario di stato non diplomatico, Jean-Marie Villot, in curia dal 1970 sotto il regno di Paolo VI. Ma si dimenticò, Bertone, di dire che Villot venne scelto da un Papa super diplomatico come era Giovanni Battista Montini, e non da un Pontefice scrittore e insieme teologo come è Benedetto XVI. Alla carenza di dimestichezza diplomatica di Villot suppliva la formazione di Montini. Mentre a quella di Bertone non può, per forza di cose, supplire Joseph Ratzinger.
Benedetto XVI inizia il pontificato certamente consapevole del pandemonio che la scelta di Bertone avrebbe provocato anzitutto entro le mura leonine. Ma crede che sia una svolta salutare, un cambio da fare: versare vino nuovo in otri vecchi, in fondo, è insegnamento che ha imparato non certo dall’ultimo arrivato.
E si lancia, il Papa, nel pontificato profetico, un pontificato di parole conficcate nel cuore della contemporaneità, dardi che provocano terremoti. Il discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 col quale chiede di rileggere il Vaticano II non come momento di rottura ma di continuità col passato fu una sconfessione aperta di quell’ermeneutica della discontinuità che tanto fece penare non soltanto Wojtyla ma anche Paolo VI: “Si ha come l’impressione che il fumo di Satana sia entrato nelle fessure della chiesa”, disse Montini il 29 giugno 1972 anche perché impotente di fronte a un vento di rinnovamento che lui per primo non riusciva a incanalare sulla giusta strada.
Poi venne la lectio di Ratisbona, il manifesto di un Papa che chiedeva di “allargare i confini della ragione” fino all’apertura a Dio. Discorso ripetuto al collegio dei Bernardini, in Francia, con l’auspicio del ritorno a quel monachesimo che in un’Europa senza Dio ricostruì una civiltà intera.
Quindi il viaggio in Africa, dove una parola spesa circa l’inopportunità dell’uso del preservativo quale rimedio contro la diffusione dell’Aids fece ribellare, stizzite, le cancellerie di mezza Europa; il viaggio in Brasile con le stilettate ripetute, in scia a Wojtyla, a un’applicazione deleteria della teologia della liberazione.
E poi i gesti più dirompenti all’interno della cattolicità. Su tutti il Motu proprio Summorum Pontificum che liberalizzando l’antico rito aprì le porte della chiesa al ritorno degli scismatici lefebvriani.
E’ qui che il “numero due” inizia pericolosamente a traballare. Quando pochi mesi dopo il Papa, in scia al Motu proprio, revoca la scomunica al vescovo Richard Williamson senza che i suoi collaboratori lo avvertano delle sue tesi negazioniste sulla Shoah, qualcosa cambia. Il mondo tedesco e austriaco dei cardinali Walter Kasper, allora ancora potente uomo di curia, e Christoph Schönborn, stimato arcivescovo di Vienna nonché allievo di Ratzinger, reagisce stizzito.
E i due porporati, pressati dalle proteste provenienti non solo dal mondo protestante ed ebraico ma anche da quello cattolico dei loro paesi, iniziano a dubitare di chi è in sella alla governance vaticana. Un fronte contrario che in Italia deflagra col “caso Boffo”.
Nel settembre del 2009 una velina anonima e fasulla uscita da ambienti vaticani arriva sulla prima pagina del Giornale. Boffo, calunniato, deve dimettersi dalla direzione di Avvenire. Lascia e si scatena il putiferio. Poco dopo, infatti, il direttore dell’Osservatore Romano Gian Maria Vian, avvalora la tesi del Giornale con un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, intervista che porta molti a dire: in Vaticano hanno voluto fare fuori Boffo. Del resto i dissidi tra segreteria di stato e Conferenza episcopale italiana ci sono tutti. Bertone, infatti, una volta dimessosi Camillo Ruini (nel febbraio del 2007) dalla guida della Cei, scrive una lettera al suo successore, Angelo Bagnasco, spiegando che da quel momento i rapporti con la politica li gestisce lui.
Ma non basta. Bertone vuole di più. Vuole il controllo della roccaforte economica della chiesa italiana: l’Istituo Toniolo, la cassaforte dell’Università Cattolica. E poi l’acquisizione dell’Ospedale Gemelli. I sospetti che Boffo sia stato fatto fuori per scardinare l’ala ruiniana del Toniolo sono forti. Ma Bertone, che già ha contro la vecchia scuola diplomatica (Sodano e Re) e alcune chiese importanti d’Europa (Austria e Germania), forse non si rende conto che con l’assalto al Toniolo, legittimo o meno che sia, si mette contro ad altri poteri consolidati: Dionigi Tettamanzi, anzittuto, al quale tra l’altro viene intimato di lasciare la presidenza del Toniolo perché il Papa vuole così. Poi la gloriosa chiesa ambrosiana. E quindi, indirettamente, quella finanza bianca che ha oltre il Tevere diversi esponenti di prestigio (tra questi Attilio Nicora, il cardinale dell’impresa strategica dell’8 per mille, che Bertone ha di fatto esautorato dei suoi poteri in seguito al “caso Viganò” sugli appalti del governatorato).
La misura per gli oppositori è colma: Ruini chiama in soccorso Angelo Scola, allora ancora patriarca di Venezia. I due assieme a Bagnasco e a Schönborn chiedono di vedere a Castel Gandolfo il Papa. E’ il 2009. Vogliono la testa di Bertone. Ma il Papa non dà loro spago e fa capire di non voler cambiare nessuno. E sull’Osservatore Romano, all’inizio del 2010, egli riconferma il suo “numero due” scrivendo: “Non vorrei rinunciare a questa sua preziosa collaborazione”.
In soccorso di Bertone paradossalmente arriva anche l’annus horribilis della pedofilia del clero. Il Papa è investito dalle violentissime accuse di aver coperto quando era prefetto dell’ex Sant’Uffizio i peccati carnali del clero. Il New York Times apre le danze rispolverando il caso di padre Lawrence C. Murphy, l’“orco del Wisconsin” accusato di abusi su duecento bambini audiolesi. Poi le accuse di pedofilia nel collegio Canisius di Berlino, gli schiaffi che il fratello del Papa, Georg Ratzinger, deve ammettere di aver dato ad alcuni bambini della scuola preliminare di Domspatzen, fino allo sventramento della polizia belga delle tombe dei cardinali Jozef-Ernest van Roey e Léon-Joseph Suenens sotto l’altare centrale nella cripta della cattedrale di Malines alla ricerca parossistica di prove.
L’attenzione viene spostata lontano da Bertone. E’ la vecchia guardia vaticana legata al fondatore dei legionari, anch’egli macchiato di pedofilia, Marcial Maciel Degollado, a subire un importante danno d’immagine. E di più, quando il Papa decide di svoltare in senso penitenziale il proprio magistero, è lo stesso Bertone a emergere spingendo il pontificato sulla strada di un sostanziale mea culpa.
Ma passata la buriana, i nodi sono tornati al pettine. Monsignor Carlo Maria Viganò, vicino a Sodano, viene spedito negli Stati Uniti per il suo antagonismo a Bertone e per quella denuncia di “corruzione” che a suo dire dilaga in Vaticano. Gotti Tedeschi viene anch’egli dimesso bruscamente per “inefficienza”. Un corvo anonimo scrive a Bertone preannunciandogli, l’arrivo di “grandi funerali a corte!”.
Lapilli di una guerra arrivata alle sue fasi più cruente. L’aiutante di camera del Papa, Paolo Gabriele, viene arrestato perché accusato di furto di documenti dall’appartamento papale. Il Papa rinnova la fiducia a Bertone che si dice abbia però chiaro che il fronte degli oppositori si è allargato a macchia d’olio. Lo aveva capito già lo scorso 30 gennaio: il cardinale Re festeggiava il suo compleanno. Tra i convitati si fece vivo Bertone. Ma Re, vedutolo, non lo salutò. Quello stesso Re che la domenica di Pentecoste, insieme a Sodano, ha disertato a sorpresa la messa del Papa.
Dopo Sodano, per l’ala diplomatica, e cioè per la vecchia guardia che da Agostino Casaroli in poi ha fatto grande il pontificato giovanpaolino supportando lo spirito messianico di Karol Wojtyla con un’indubbia intelligenza di governo, l’unico candidato possibile era Giovanni Battista Re, allora prefetto dei vescovi, ma dal 1979 al 1987 anche “uomo macchina” della stessa segreteria di stato.
Bertone non ci sta. Non ascolta il consiglio che Pioppo gli porta, di fatto, a nome della scuola diplomatica di piazza della Minerva e ottiene dal Papa il 7 luglio la nomina a “numero due”.
Sodano la prende male. Si tiene per mesi l’appartamento che spetterebbe a Bertone all’interno del palazzo apostolico, lo umilia pesantemente costringendolo ad abitare come un esule nella vecchia torre situata in cima ai giardini vaticani e poi, come ultima dirompente azione di governo, nomina Pioppo prelato dello Ior, una carica vacante dai tempi di Paul Casimir Marcinkus, estrema prova di forza che sa di sfida lanciata apertamente al suo successore. Come dire: “Il potere è nelle tue mani, ma sappi che io ti controllo”.
Il resto discende da qui. Da questa prima dirompente frattura all’interno della curia romana: i diplomatici contro Bertone. Certo, ci aveva provato Bertone a convincere stampa a prelati che il suo avvento non era un unicum.
E non aveva tutti i torti: prima di lui, spiegò, ci fu un grande segretario di stato non diplomatico, Jean-Marie Villot, in curia dal 1970 sotto il regno di Paolo VI. Ma si dimenticò, Bertone, di dire che Villot venne scelto da un Papa super diplomatico come era Giovanni Battista Montini, e non da un Pontefice scrittore e insieme teologo come è Benedetto XVI. Alla carenza di dimestichezza diplomatica di Villot suppliva la formazione di Montini. Mentre a quella di Bertone non può, per forza di cose, supplire Joseph Ratzinger.
Benedetto XVI inizia il pontificato certamente consapevole del pandemonio che la scelta di Bertone avrebbe provocato anzitutto entro le mura leonine. Ma crede che sia una svolta salutare, un cambio da fare: versare vino nuovo in otri vecchi, in fondo, è insegnamento che ha imparato non certo dall’ultimo arrivato.
E si lancia, il Papa, nel pontificato profetico, un pontificato di parole conficcate nel cuore della contemporaneità, dardi che provocano terremoti. Il discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 col quale chiede di rileggere il Vaticano II non come momento di rottura ma di continuità col passato fu una sconfessione aperta di quell’ermeneutica della discontinuità che tanto fece penare non soltanto Wojtyla ma anche Paolo VI: “Si ha come l’impressione che il fumo di Satana sia entrato nelle fessure della chiesa”, disse Montini il 29 giugno 1972 anche perché impotente di fronte a un vento di rinnovamento che lui per primo non riusciva a incanalare sulla giusta strada.
Poi venne la lectio di Ratisbona, il manifesto di un Papa che chiedeva di “allargare i confini della ragione” fino all’apertura a Dio. Discorso ripetuto al collegio dei Bernardini, in Francia, con l’auspicio del ritorno a quel monachesimo che in un’Europa senza Dio ricostruì una civiltà intera.
Quindi il viaggio in Africa, dove una parola spesa circa l’inopportunità dell’uso del preservativo quale rimedio contro la diffusione dell’Aids fece ribellare, stizzite, le cancellerie di mezza Europa; il viaggio in Brasile con le stilettate ripetute, in scia a Wojtyla, a un’applicazione deleteria della teologia della liberazione.
E poi i gesti più dirompenti all’interno della cattolicità. Su tutti il Motu proprio Summorum Pontificum che liberalizzando l’antico rito aprì le porte della chiesa al ritorno degli scismatici lefebvriani.
E’ qui che il “numero due” inizia pericolosamente a traballare. Quando pochi mesi dopo il Papa, in scia al Motu proprio, revoca la scomunica al vescovo Richard Williamson senza che i suoi collaboratori lo avvertano delle sue tesi negazioniste sulla Shoah, qualcosa cambia. Il mondo tedesco e austriaco dei cardinali Walter Kasper, allora ancora potente uomo di curia, e Christoph Schönborn, stimato arcivescovo di Vienna nonché allievo di Ratzinger, reagisce stizzito.
E i due porporati, pressati dalle proteste provenienti non solo dal mondo protestante ed ebraico ma anche da quello cattolico dei loro paesi, iniziano a dubitare di chi è in sella alla governance vaticana. Un fronte contrario che in Italia deflagra col “caso Boffo”.
Nel settembre del 2009 una velina anonima e fasulla uscita da ambienti vaticani arriva sulla prima pagina del Giornale. Boffo, calunniato, deve dimettersi dalla direzione di Avvenire. Lascia e si scatena il putiferio. Poco dopo, infatti, il direttore dell’Osservatore Romano Gian Maria Vian, avvalora la tesi del Giornale con un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, intervista che porta molti a dire: in Vaticano hanno voluto fare fuori Boffo. Del resto i dissidi tra segreteria di stato e Conferenza episcopale italiana ci sono tutti. Bertone, infatti, una volta dimessosi Camillo Ruini (nel febbraio del 2007) dalla guida della Cei, scrive una lettera al suo successore, Angelo Bagnasco, spiegando che da quel momento i rapporti con la politica li gestisce lui.
Ma non basta. Bertone vuole di più. Vuole il controllo della roccaforte economica della chiesa italiana: l’Istituo Toniolo, la cassaforte dell’Università Cattolica. E poi l’acquisizione dell’Ospedale Gemelli. I sospetti che Boffo sia stato fatto fuori per scardinare l’ala ruiniana del Toniolo sono forti. Ma Bertone, che già ha contro la vecchia scuola diplomatica (Sodano e Re) e alcune chiese importanti d’Europa (Austria e Germania), forse non si rende conto che con l’assalto al Toniolo, legittimo o meno che sia, si mette contro ad altri poteri consolidati: Dionigi Tettamanzi, anzittuto, al quale tra l’altro viene intimato di lasciare la presidenza del Toniolo perché il Papa vuole così. Poi la gloriosa chiesa ambrosiana. E quindi, indirettamente, quella finanza bianca che ha oltre il Tevere diversi esponenti di prestigio (tra questi Attilio Nicora, il cardinale dell’impresa strategica dell’8 per mille, che Bertone ha di fatto esautorato dei suoi poteri in seguito al “caso Viganò” sugli appalti del governatorato).
La misura per gli oppositori è colma: Ruini chiama in soccorso Angelo Scola, allora ancora patriarca di Venezia. I due assieme a Bagnasco e a Schönborn chiedono di vedere a Castel Gandolfo il Papa. E’ il 2009. Vogliono la testa di Bertone. Ma il Papa non dà loro spago e fa capire di non voler cambiare nessuno. E sull’Osservatore Romano, all’inizio del 2010, egli riconferma il suo “numero due” scrivendo: “Non vorrei rinunciare a questa sua preziosa collaborazione”.
In soccorso di Bertone paradossalmente arriva anche l’annus horribilis della pedofilia del clero. Il Papa è investito dalle violentissime accuse di aver coperto quando era prefetto dell’ex Sant’Uffizio i peccati carnali del clero. Il New York Times apre le danze rispolverando il caso di padre Lawrence C. Murphy, l’“orco del Wisconsin” accusato di abusi su duecento bambini audiolesi. Poi le accuse di pedofilia nel collegio Canisius di Berlino, gli schiaffi che il fratello del Papa, Georg Ratzinger, deve ammettere di aver dato ad alcuni bambini della scuola preliminare di Domspatzen, fino allo sventramento della polizia belga delle tombe dei cardinali Jozef-Ernest van Roey e Léon-Joseph Suenens sotto l’altare centrale nella cripta della cattedrale di Malines alla ricerca parossistica di prove.
L’attenzione viene spostata lontano da Bertone. E’ la vecchia guardia vaticana legata al fondatore dei legionari, anch’egli macchiato di pedofilia, Marcial Maciel Degollado, a subire un importante danno d’immagine. E di più, quando il Papa decide di svoltare in senso penitenziale il proprio magistero, è lo stesso Bertone a emergere spingendo il pontificato sulla strada di un sostanziale mea culpa.
Ma passata la buriana, i nodi sono tornati al pettine. Monsignor Carlo Maria Viganò, vicino a Sodano, viene spedito negli Stati Uniti per il suo antagonismo a Bertone e per quella denuncia di “corruzione” che a suo dire dilaga in Vaticano. Gotti Tedeschi viene anch’egli dimesso bruscamente per “inefficienza”. Un corvo anonimo scrive a Bertone preannunciandogli, l’arrivo di “grandi funerali a corte!”.
Lapilli di una guerra arrivata alle sue fasi più cruente. L’aiutante di camera del Papa, Paolo Gabriele, viene arrestato perché accusato di furto di documenti dall’appartamento papale. Il Papa rinnova la fiducia a Bertone che si dice abbia però chiaro che il fronte degli oppositori si è allargato a macchia d’olio. Lo aveva capito già lo scorso 30 gennaio: il cardinale Re festeggiava il suo compleanno. Tra i convitati si fece vivo Bertone. Ma Re, vedutolo, non lo salutò. Quello stesso Re che la domenica di Pentecoste, insieme a Sodano, ha disertato a sorpresa la messa del Papa.
Pubblicato sul Foglio lunedì 4 giugno 201
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