Recensione a: BRUNERO GHERARDINI, "Concilio Vaticano II . Il discorso
mancato. Ed. Lindau"
di Paolo Pasqualucci
Nel presente saggio l’Autore spiega in modo chiaro ed
esaustivo, evitando le polemiche inutili e limitandosi a puntualizzare
sobriamente le inesattezze di certe superficiali critiche, i motivi per i quali
ritiene suo dovere continuare il “discorso critico” da lui avviato sul Concilio
Vaticano II (1962-1965) a partire dalla sua monografia del 2009 (Concilio
Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Ed., Frigento,
2009), già tradotta nelle principali lingue europee; seguita nel 2010 da
un’altra non meno importante sul concetto di Tradizione della Chiesa (“Quod et
tradidi vobis”. La tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Collana
‘Divinitas’ n. 4, Città del Vaticano, 2010). La proposta del “discorso da
fare”, rivolta in primo luogo ai vertici della Chiesa, pur destando ampio
interesse in ambito ecclesiale e non, ha incontrato finora una diffusa quanto
preconcetta ostilità da parte del fronte mediatico collegato all’ufficialità
vaticana. Il discorso “da fare” non è stato recepito, esso è
“mancato”. Si tratta, allora, di ribadire i temi del “discorso [finora]
mancato”. Essi riguardano tutti il significato da attribuire al Vaticano
II, a cominciare dal suo famoso “spirito”.
Per comprendere lo “spirito” del Concilio bisogna
innanzitutto mettersi nella giusta prospettiva, che non coincide, secondo
l’Autore, con nessuna di quelle dominanti, tra loro contrapposte – come è noto
– ed insofferenti di qualsiasi critica. È infatti inaccettabile
l’ermeneutica progressista della cosiddetta “Scuola di Bologna”, ufficiosa ma
“seguita da non pochi uomini di Chiesa”, che vede nel Concilio una rottura
radicale con “tutta la realtà ecclesiale precedente”, perché da esso “sarebbe
nata una Chiesa nuova, rispetto alla quale inesorabilmente vecchia ed inattuale
sarebbe la Chiesa tradizionale, quella delineata dai Concili del passato,
soprattutto dal Tridentino e dal Vaticano I”. Ugualmente inaccettabile la
trionfalistica interpretazione ufficiale, che porta in palmo di mano il
Concilio quale “provvidenziale e tempestiva risposta della Chiesa al dialogo
con la cultura imperante” e ai bisogni dell’uomo contemporaneo (Il discorso
mancato, pp. 10-12). Quest’ultima interpretazione non vede naturalmente
alcuna frattura né contraddizione tra la Chiesa propugnata dal Concilio e
quella di sempre, attribuendo solo agli eccessi del post-concilio la grave
crisi imperante (ma l’anarchia nella liturgia, osservo, non cominciò già
durante il Concilio, allorché si trattò di render operante la neo-approvata
costituzione sulla riforma liturgica, nell’inverno del 1964?).
Affermò l’allora cardinale Ratzinger (nel famoso Rapporto
sulla fede del 1985, intervista a cura di V. Messori) che chi invocava lo
“spirito del Concilio” per demolire la Chiesa dall’interno era in realtà
pervaso da un gegen-Geist, da “un contro-spirito conciliare” (nemico di quella
che sarebbe stata l’autentica “ispirazione soprannaturale e tradizionale del
Concilio”). Questo “contro-spirito” voleva imporre la propria visione,
succube “delle correnti culturali più rivoluzionarie d’allora” (p. 21).
Per il cardinale, come per i vescovi “in genere” e per vari organi ufficiali e
semiufficiali, se “il postconcilio era impazzito, il Vaticano II era
l’espressione attualizzata di quanto era stato proclamato dai precedenti
Concili” (p. 12). Pertanto, la “riforma” impostata dal Concilio era da
considerarsi in piena “continuità” con l’insegnamento della Chiesa.
Assurto al sacro Soglio, il cardinale avrebbe poi postulato coerentemente
l’esigenza di una “ermeneutica della riforma nella continuità”. (C’è comunque
da chiedersi – annoto – perché, in tutta la storia dei Concili ecumenici, solo
al Vaticano II sia seguito un “postconcilio impazzito”, che mira a distruggere
la Chiesa stessa dall’interno, e per qual motivo, solo per questo Concilio, si
debba ricorrere ad una “ermeneutica” impegnata a dimostrarne la “continuità”
con il Magistero precedente).
Secondo l’Autore, l’errore dei novatori (“bolognesi” o meno)
è evidente: non risulta che il Concilio volesse introdurre una cesura
radicale con il Magistero precedente. L’esigenza della accomodatio della
dottrina e della pastorale alle istanze del mondo moderno, fatta valere dall’
“enigmatico” Giovanni XXIII quale causa eminente della convocazione del
Concilio stesso, andava sempre compresa come esigenza da attuarsi in accordo
con la dottrina tradizionale della Chiesa, non in antitesi ad essa (pp. 26-28).
La volontà di mantenere quest’ accordo è stata, del resto, ribadita anche
nei documenti conciliari. Ma nemmeno soddisfa l’interpretazione
ufficiale che di fatto “incensa” il Vaticano II “solo perché Concilio
ecumenico”, che, “in quanto tale, non poteva contenere altro che l’insegnamento
ufficiale della Chiesa: un insegnamento sottratto, perciò, ad ogni
discussione, assoluto, universale […] Proprio qui s’annidava l’errore della
celebrazione ufficiale[…]”(p. 24). Questo “errore” è chiarito ulteriormente
dall’Autore nel rilievo che i suoi due studi sopra citati, “hanno in comune con
l’ermeneutica ratzingeriana la rilevazione ed il rifiuto del gegen-Geist” sopra
descritto, quale unico autentico “spirito” del Concilio. “Le due
pubblicazioni, tuttavia, non assumono l’idea che quel gegen-Geist avrebbe
cancellato radicalmente, o avrebbe tentato di farlo, il vero “spirito” del
Concilio. Si chiedono, anzi, paradossalmente e provocatoriamente se
l’autentico “spirito” del Concilio non abbia praticamente colluso con il
“contro-spirito”” (p. 26).
Collusione, dunque, di “contro-spirito del Concilio” con il
vero “spirito del Concilio”. Questa è la chiave ermeneutica da
sviluppare. Ciò che questa collusione o (se si vuole) commistione comporta per
l’interprete, l’Autore lo spiega con la massima chiarezza: di fronte alla
gravissima e perdurante crisi della Chiesa bisogna finalmente avere il coraggio
di operare – con l’avallo della Suprema Auctoritas – una “revisione e
precisazione critica” (p. 80) del pastorale e non dogmatico Vaticano II per accertare
se nei suoi testi, accanto alle affermazioni soggettivamente ed oggettivamente
conformi al Magistero di sempre, non si siano infiltrate proposizioni ambigue e
teologicamente sospette, che testimonierebbero appunto la presenza del suddetto
“contro-spirito”.
Di queste infiltrazioni e dello spirito-contro che le anima,
l’Autore offre ampia e ragionata sintesi. “I ragionamenti
rigorosamente teologici sono quasi assenti nell’insieme dei documenti
conciliari”, premette. Durante il concilio, operarono quotidianamente
vere e proprie “quinte colonne: gruppi di pressione, conferenze di
celebrati maestri, stampati di varia provenienza, una massiccia persuasione
occulta per incrementar il vento di fronda e preparare le votazioni conciliari
[…] Il diritto di cittadinanza era riservato alla novità, le proposte di
cambiamento si succedevano a getto continuo ed un non precisato rinnovamento,
detto presto aggiornamento, diventava il criterio per valutare la bontà delle
proposte stesse”, che non si rivelavano “in armonia con i princìpi che sino a
quel momento avevano retto la Chiesa” (p. 32). Le “quinte colonne”,
ricordo, erano in genere costituite dai numerosi esponenti della nouvelle
théologie, riprovati (sia pure moderatamente nella forma) da Pio XII ed immessi
invece a sorpresa da Giovanni XXIII nelle commissioni preconciliari e
conciliari quali consultori. “Edotti e persuasi, i Padri
eseguivano. I documenti, animatamente discussi, venivan da loro
riformulati in modo che le non poche innovazioni fossero supportate da
riferimenti biblici, da precedenti magisteriali e da rimandi a qualche Padre
della Chiesa. In apparenza e sul piano puramente formale, ciò era
indubbiamente conforme al metodo teologico classico. Se ne discostava lo
“spirito” che animava l’insieme. Quante volte, verificando quei
riferimenti, ho dovuto constatarne l’approssimazione o la non piena
corrispondenza. Nei confronti, pertanto, dei valori tradizionali, lo “spirito
del Concilio” era esso stesso un gegen-Geist, prima che questo fosse diffuso da
interessati commentatori. Lo “spirito del Concilio” l’aveva contrapposto
in genere a quanto la Chiesa aveva finora accreditato come suo pane quotidiano,
in particolare ai Concili di Trento ed al Vaticano I; e fa davvero meraviglia
la presenza di non poche frasi, disseminate all’interno d’alcuni documenti,
soprattutto nei punti strategici dell’innovazione introdotta, per assicurar una
consonanza fra ieri ed oggi, che di fatto non c’è. Son frasi intese a
tacitar apprensioni e turbamenti, come, per esempio, l’affermazione: - di
Lumen Gentium 1 sulla continuità delle sue tematiche ecclesiologiche e quelle
dei precedenti Concili; - o di LG 18 che riproporrebbe la stessa dottrina
del Vaticano I sul primato del Romano Pontefice; - o di LG 51 che farebbe
propri gl’insegnamenti del Niceno II, del Fiorentino e del Tridentino circa le
relazioni con i trapassati; - o di LG 56 ed Unitatis redintegratio 15
circa il culto mariano; - o di UR 18 circa il pieno riconoscimento, da parte
del Vaticano II, di quanto dichiarato e promulgato dagli altri Concili, e ciò
non soltanto in campo ecclesiologico; - o d’Optatam totius 22, che
intende proseguire l’opera del Tridentino; - o di Dei Verbum 1 che aggancia il
dettato del Vaticano II sulla divina Rivelazione a quanto fu dichiarato sulla
medesima materia dal Tridentino e dal Vaticano I” (ivi, pp. 33-4.
Sottolineature mie).
Una “consonanza” di dottrina che “di fatto non c’è”, dunque,
e in non pochi casi, nonostante le ripetute dichiarazioni di fedeltà.
Queste le conclusioni cui è costretta a giungere l’acribia filologica (che si
adorna, lo ricordo, del bimillenario motto: “Caesar non est supra
gramaticos”). Un rovesciamento generale della dottrina cattolica, allora,
ad opera del Vaticano II? Non proprio. Piuttosto, il suo inquinamento
(se così posso esprimermi) ad opera di una contro-teologia che i Capi non sono
stati capaci di tenere sotto controllo né di combattere come si doveva.
“Non si pensi ad un capovolgimento generale, come se il Vaticano II avesse
innovato l’intero complesso delle verità contenute nel Credo e definite dai
precedenti Concilii; la questione non è quantitativa, bensì
qualitativa. Non per nulla si parla di “spirito” e di “contro-spirito”
all’interno del Concilio. Prima che su determinate materie, la rottura
s’era effettuata sull’ispirazione di fondo: era stato sentenziato
l’ostracismo non ad una o ad un’altra delle verità rivelate e dalla Chiesa come
tali proposte, ma ad un certo modo di presentarle, ad una metodologia
teologica, che nel caso era quella della non più tollerata Scolastica, e con
particolare accanimento contro il tomismo…” (ivi, p. 34). L’ostracismo
alle ardue ma cristalline argomentazioni di S. Tommaso, fondate sulla
metafisica classica, veniva – sottolineo – da chi si inebriava alle fumose ma
eccitanti pagine dei Blondel, dei Martin Buber, degli Heidegger,
l’irrazionalismo dei quali (dal culto dell’azione a quello dell’utopistico e
sincretistico “dialogo” tra fedi e valori, inseriti l’una e l’altro
nell’attuazione del “progetto” esistenziale del cosiddetto Esserci dell’uomo,
“aperto” a tutte le possibilità) spingeva di fatto a riesumare le pulsioni del
modernismo, nessuna esclusa. “Non so se proprio tutt’i Padri conciliari
se ne rendessero conto, ma, obiettivamente parlando, il loro strappo dalla
secolare mentalità che, fin a quel momento, aveva espresso la motivazione di
fondo della vita, della preghiera, dell’insegnamento e del governo della
Chiesa, stava riproponendo la mentalità modernista, contro la quale san Pio X
aveva preso netta posizione nell’intento di ‘ricentrare tutto in Cristo’(Ef
1,10). Anche questo, questo anzi in modo particolare, è gegen-Geist”
(ivi, pp. 34-35. Sottolineature mie).
Tale “contro-spirito”, che invece di “ricentrare tutto in
Cristo” si preoccupava di instaurare una sorta di “culto dell’Uomo”, non poteva
evidentemente restare confinato sul piano “puramente ideale”, nel regno delle
intenzioni. Esso ha dato luogo “a rotture particolari, specifiche, su
punti nevralgici della Fede e delle sue verità” (p. 35). Uno dei testi
maggiormente imputati in questo senso risulta esser da sempre la costituzione
pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, alla quale
l’Autore dedica quattro pagine, rilevando in particolare l’afflato
antropocentrico (nient’affatto in continuità con l’insegnamento perenne della
Chiesa) che la pervade (e che tracima nei famosi articoli 22 e 24).
Per ragioni di spazio, non posso ricordare le ulteriori
“rotture su punti particolari ma nevralgici” della fede che compaiono in altri
famosi passaggi conciliari, puntualmente richiamati dall’Autore; passaggi che
inquinano per l’appunto quanto di dottrinalmente legittimo i testi dei medesimi
documenti possono contenere (pp. 39-43).
Mons. Gherardini non sottovaluta certo le “responsabilità
enormi del post-concilio”. Egli ricorda come sia stato lo stesso cardinale
Ratzinger ad individuarle (p. 68) e come questo impressionante disordine morale
e teologico post-conciliare derivi anche e soprattutto dalla latitanza dei
vescovi, che lasciano fare (pp. 69-76). Certamente il post-concilio è
andato ben al di là del Concilio. L’opera di “revisione e precisazione
critica” deve pertanto distinguere preliminarmente tra i due, dando a ciascuno
il suo ma senza dimenticare che il post-concilio è pur sempre frutto del
Concilio, rivelatosi un vero e proprio “otre d’Eolo” (pp. 76-80).
L’illustre teologo non chiede certo l’abrogazione del Vaticano II da parte del
Papa. Più semplicemente, chiede che si cominci finalmente a separare il
grano dal loglio nei documenti del Concilio. E questa sua più che
legittima richiesta esprime sicuramente un’esigenza condivisa da una minoranza
qualificata che si va ingrossando ogni giorno, com’è vero che ad ogni giorno
che passa si aggrava la crisi spaventosa della Chiesa cattolica.
Quale premessa di carattere generale del lavoro di
“revisione critica”, l’Autore sviluppa alla fine (pp. 81-96) alcune importanti
considerazioni chiarificatrici sulla natura effettiva dei sedici documenti del
mastodonte che è il Vaticano II: quattro Costituzioni, 9 Decreti, 3
Dichiarazioni - 596 fitte pagine nella diffusa edizione in italiano delle
Edizioni Paoline. Costituzioni, Decreti e Dichiarazioni sono fonti che
non possiedono la medesima autorità, anche se appartengono tutti ad un Concilio
che deve considerarsi autenticamente ecumenico, data la validità della sua
convocazione. Essi “esprimon tutti un magistero conciliare”, che è di sua
natura “straordinario” e “solenne”, da non confondersi con il “magistero
ordinario” della Chiesa (p. 81). Detto questo, bisogna però “distinguere
la qualità dei suoi documenti, perché il carattere solenne del loro
insegnamento né li mette tutti su un piano di pari importanza, né comporta
sempre di per sé la loro validità dogmatica e quindi infallibile” (p. 82).
Ma le quattro Costituzioni, da sempre i documenti più
importanti di un Concilio ecumenico, non mettono secondo molti il Vaticano II
sullo stesso piano dei precedenti, dogmatici Concili (Tridentino e Vaticano
I)? Il paragone è improponibile, specifica l’Autore, perché le
“constitutiones” del Vaticano II sono atipiche rispetto a quelle dei Concili
precedenti. Esse, anche le due che si attribuiscono il titolo di
“dogmatiche”, non ricorrono “al modello classico” della “costituzione”, modello
“consolidatosi nel corso dei secoli come tramite della volontà definitoria
della Chiesa”. Non vi ricorrono, anche perché il Concilio ha voluto
esplicitamente escludere (come è noto) qualsiasi “intento
dogmatico-definitorio, con il relativo modulo espressivo” (pp. 82-84).
Ciò significa, in pratica, che “in nessuna delle sue quattro Costituzioni
[comprese le due cosiddette “dogmatiche”] il Vaticano II ‘definisce come
obbliganti per tutta la Chiesa’ [ossia come dogmi] i propri pronunciamenti
dottrinali”(p. 84). Quando poi il Vaticano II richiama espressamente
dogmi definiti da precedenti Concili, esso non diviene per ciò stesso
integralmente “dogmatico”: “lo è semplicemente ed esclusivamente nella
dogmatica irriformabilità ed infallibilità dei dogmi citati” (p. 86).
Queste precisazioni sono di fondamentale importanza, dal
momento che non pochi insistono ancor oggi nel voler scorrettamente attribuire
all’insegnamento del Vaticano II un valore dogmatico che non ha (e che non ha
voluto espressamente avere), attribuendolo persino a documenti come i nove
Decreti, nei quali l’istanza contingente dell’aggiornamento – sottolinea
l’Autore – si rende specialmente palese (p. 87). Come si possa poi
pretendere di inserire “il non sempre provvido aggiornamento conciliare” tout
court nel Magistero (dogmatico) della Chiesa, non si riesce a comprendere –
chiosa l’Autore – se si pensa ad esempio che l’art. 13.2 del decreto
Presbyterorum ordinis sul ministero e la vita sacerdotale, echeggiando la
costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa, art. 28.1, “colloca intenzionalmente
il ministero della parola al primo posto degli uffici presbiterali”,
modificando ed anzi ribaltando l’insegnamento tridentino, per il quale la
funzione primaria del sacerdozio cattolico è, come si sa, “ad conficiendam
eucharistiam”: la Consacrazione dell’Eucaristia (p. 87, 88).
Nella breve Conclusione finale (pp. 97-106), l’Autore
ricorda, infine, che S. Paolo ha esortato “i cristiani dell’Urbe a render a Dio
il famoso rationabile ossequium – Rm 12, 1” (pp. 97-98). Ciò significa
che “la verifica storica e teologica” di documenti pastorali approvati dal
Romano Pontefice (come sono quelli del Concilio) è perfettamente legittima e
non contraddice affatto la fede (p. 97). Così come è perfettamente
legittimo esprimere, senza venir meno “al dovuto rispetto”, la profonda insoddisfazione
del credente e dello studioso per lo spirito del tutto acritico con il quale
gli ultimi Pontefici hanno senza posa riproposto l’insegnamento del Vaticano
II, come se si trattasse di un Concilio assolutamente dogmatico, scaricando
interamente sul post-concilio la colpa della crisi della Chiesa, e contribuendo
in tal modo ampiamente alla “volgata” ostinatamente celebrativa che da
cinquant’anni tiene banco (pp. 99-102).
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