ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 5 luglio 2012

IL “DISCORSO CRITICO” CHE LA GERARCHIA NON VUOL FARE.


 Recensione a: BRUNERO GHERARDINI, "Concilio Vaticano II . Il discorso mancato. Ed. Lindau" 
di Paolo Pasqualucci


Nel presente saggio l’Autore spiega in modo chiaro ed esaustivo, evitando le polemiche inutili e limitandosi a puntualizzare sobriamente le inesattezze di certe superficiali critiche, i motivi per i quali ritiene suo dovere continuare il “discorso critico” da lui avviato sul Concilio Vaticano II  (1962-1965) a partire dalla sua monografia del 2009 (Concilio Ecumenico Vaticano II.  Un discorso da fare, Casa Mariana Ed., Frigento, 2009), già tradotta nelle principali lingue europee; seguita nel 2010 da un’altra non meno importante sul concetto di Tradizione della Chiesa (“Quod et tradidi vobis”. La tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Collana ‘Divinitas’ n. 4, Città del Vaticano, 2010).  La proposta del “discorso da fare”, rivolta in primo luogo ai vertici della Chiesa, pur destando ampio interesse in ambito ecclesiale e non, ha incontrato finora una diffusa quanto preconcetta ostilità da parte del fronte mediatico collegato all’ufficialità vaticana.  Il discorso “da fare” non è stato recepito, esso è “mancato”.  Si tratta, allora, di ribadire i temi del “discorso [finora] mancato”.  Essi riguardano tutti il significato da attribuire al Vaticano II, a cominciare dal suo famoso “spirito”.

Per comprendere lo “spirito” del Concilio bisogna innanzitutto mettersi nella giusta prospettiva, che non coincide, secondo l’Autore, con nessuna di quelle dominanti, tra loro contrapposte – come è noto – ed insofferenti di qualsiasi critica.  È infatti inaccettabile l’ermeneutica progressista della cosiddetta “Scuola di Bologna”, ufficiosa ma “seguita da non pochi uomini di Chiesa”, che vede nel Concilio una rottura radicale con “tutta la realtà ecclesiale precedente”, perché da esso “sarebbe nata una Chiesa nuova, rispetto alla quale inesorabilmente vecchia ed inattuale sarebbe la Chiesa tradizionale, quella delineata dai Concili del passato, soprattutto dal Tridentino e dal Vaticano I”.  Ugualmente inaccettabile la trionfalistica interpretazione ufficiale, che porta in palmo di mano il Concilio quale “provvidenziale e tempestiva risposta della Chiesa al dialogo con la cultura imperante” e ai bisogni dell’uomo contemporaneo (Il discorso mancato, pp. 10-12).  Quest’ultima interpretazione non vede naturalmente alcuna frattura né contraddizione tra la Chiesa propugnata dal Concilio e quella di sempre, attribuendo solo agli eccessi del post-concilio la grave crisi imperante (ma l’anarchia nella liturgia, osservo, non cominciò già durante il Concilio, allorché si trattò di render operante la neo-approvata costituzione sulla riforma liturgica, nell’inverno del 1964?).
Affermò l’allora cardinale Ratzinger (nel famoso Rapporto sulla fede del 1985, intervista a cura di V. Messori) che chi invocava lo “spirito del Concilio” per demolire la Chiesa dall’interno era in realtà pervaso da un gegen-Geist, da “un contro-spirito conciliare” (nemico di quella che sarebbe stata l’autentica “ispirazione soprannaturale e tradizionale del Concilio”).  Questo “contro-spirito” voleva imporre la propria visione, succube “delle correnti culturali più rivoluzionarie d’allora” (p. 21).  Per il cardinale, come per i vescovi “in genere” e per vari organi ufficiali e semiufficiali, se “il postconcilio era impazzito, il Vaticano II era l’espressione attualizzata di quanto era stato proclamato dai precedenti Concili” (p. 12).  Pertanto, la “riforma” impostata dal Concilio era da considerarsi in piena “continuità” con l’insegnamento della Chiesa.  Assurto al sacro Soglio, il cardinale avrebbe poi postulato coerentemente l’esigenza di una “ermeneutica della riforma nella continuità”. (C’è comunque da chiedersi – annoto – perché, in tutta la storia dei Concili ecumenici, solo al Vaticano II sia seguito un “postconcilio impazzito”, che mira a distruggere la Chiesa stessa dall’interno, e per qual motivo, solo per questo Concilio, si debba ricorrere ad una “ermeneutica” impegnata a dimostrarne la “continuità” con il Magistero precedente).
Secondo l’Autore, l’errore dei novatori (“bolognesi” o meno) è evidente:  non risulta che il Concilio volesse introdurre una cesura radicale con il Magistero precedente.  L’esigenza della accomodatio della dottrina e della pastorale alle istanze del mondo moderno, fatta valere dall’ “enigmatico” Giovanni XXIII quale causa eminente della convocazione del Concilio stesso, andava sempre compresa come esigenza da attuarsi in accordo con la dottrina tradizionale della Chiesa, non in antitesi ad essa (pp. 26-28). La volontà di mantenere quest’ accordo è stata, del resto, ribadita  anche nei documenti conciliari.   Ma nemmeno soddisfa l’interpretazione ufficiale che di fatto “incensa” il Vaticano II “solo perché Concilio ecumenico”, che, “in quanto tale, non poteva contenere altro che l’insegnamento ufficiale della Chiesa:  un insegnamento sottratto, perciò, ad ogni discussione, assoluto, universale […] Proprio qui s’annidava l’errore della celebrazione ufficiale[…]”(p. 24).  Questo “errore” è chiarito ulteriormente dall’Autore nel rilievo che i suoi due studi sopra citati, “hanno in comune con l’ermeneutica ratzingeriana la rilevazione ed il rifiuto del gegen-Geist” sopra descritto, quale unico autentico “spirito” del Concilio.  “Le due pubblicazioni, tuttavia, non assumono l’idea che quel gegen-Geist avrebbe cancellato radicalmente, o avrebbe tentato di farlo, il vero “spirito” del Concilio.  Si chiedono, anzi, paradossalmente e provocatoriamente se l’autentico “spirito” del Concilio non abbia praticamente colluso con il “contro-spirito”” (p. 26).
Collusione, dunque, di “contro-spirito del Concilio” con il vero “spirito del Concilio”.  Questa è la chiave ermeneutica da sviluppare. Ciò che questa collusione o (se si vuole) commistione comporta per l’interprete, l’Autore lo spiega con la massima chiarezza:  di fronte alla gravissima e perdurante crisi della Chiesa bisogna finalmente avere il coraggio di operare – con l’avallo della Suprema Auctoritas – una “revisione e precisazione critica” (p. 80) del pastorale e non dogmatico Vaticano II per accertare se nei suoi testi, accanto alle affermazioni soggettivamente ed oggettivamente conformi al Magistero di sempre, non si siano infiltrate proposizioni ambigue e teologicamente sospette, che testimonierebbero appunto la presenza del suddetto “contro-spirito”.
Di queste infiltrazioni e dello spirito-contro che le anima, l’Autore offre ampia e ragionata sintesi.    “I ragionamenti rigorosamente teologici sono quasi assenti nell’insieme dei documenti conciliari”, premette.  Durante il concilio, operarono quotidianamente vere e proprie “quinte colonne:  gruppi di pressione, conferenze di celebrati maestri, stampati di varia provenienza, una massiccia persuasione occulta per incrementar il vento di fronda e preparare le votazioni conciliari […] Il diritto di cittadinanza era riservato alla novità, le proposte di cambiamento si succedevano a getto continuo ed un non precisato rinnovamento, detto presto aggiornamento, diventava il criterio per valutare la bontà delle proposte stesse”, che non si rivelavano “in armonia con i princìpi che sino a quel momento avevano retto la Chiesa” (p. 32).  Le “quinte colonne”, ricordo, erano in genere costituite dai numerosi esponenti della nouvelle théologie, riprovati (sia pure moderatamente nella forma) da Pio XII ed immessi invece a sorpresa da Giovanni XXIII nelle commissioni preconciliari e conciliari quali consultori.  “Edotti e persuasi, i Padri eseguivano.  I documenti, animatamente discussi, venivan da loro riformulati in modo che le non poche innovazioni fossero supportate da riferimenti biblici, da precedenti magisteriali e da rimandi a qualche Padre della Chiesa.  In apparenza e sul piano puramente formale, ciò era indubbiamente conforme al metodo teologico classico.  Se ne discostava lo “spirito” che animava l’insieme.  Quante volte, verificando quei riferimenti, ho dovuto constatarne l’approssimazione o la non piena corrispondenza. Nei confronti, pertanto, dei valori tradizionali, lo “spirito del Concilio” era esso stesso un gegen-Geist, prima che questo fosse diffuso da interessati commentatori.  Lo “spirito del Concilio” l’aveva contrapposto in genere a quanto la Chiesa aveva finora accreditato come suo pane quotidiano, in particolare ai Concili di Trento ed al Vaticano I; e fa davvero meraviglia la presenza di non poche frasi, disseminate all’interno d’alcuni documenti, soprattutto nei punti strategici dell’innovazione introdotta, per assicurar una consonanza fra ieri ed oggi, che di fatto non c’è.  Son frasi intese a tacitar apprensioni e turbamenti, come, per esempio, l’affermazione:  - di Lumen Gentium 1 sulla continuità delle sue tematiche ecclesiologiche e quelle dei precedenti Concili;  - o di LG 18 che riproporrebbe la stessa dottrina del Vaticano I sul primato del Romano Pontefice; - o di LG 51 che farebbe propri gl’insegnamenti del Niceno II, del Fiorentino e del Tridentino circa le relazioni con i trapassati;  - o di LG 56 ed Unitatis redintegratio 15 circa il culto mariano; - o di UR 18 circa il pieno riconoscimento, da parte del Vaticano II, di quanto dichiarato e promulgato dagli altri Concili, e ciò non soltanto in campo ecclesiologico; -  o d’Optatam totius 22, che intende proseguire l’opera del Tridentino; - o di Dei Verbum 1 che aggancia il dettato del Vaticano II sulla divina Rivelazione a quanto fu dichiarato sulla medesima materia dal Tridentino e dal Vaticano I” (ivi, pp. 33-4. Sottolineature mie).
Una “consonanza” di dottrina che “di fatto non c’è”, dunque, e in non pochi casi, nonostante le ripetute dichiarazioni di fedeltà.  Queste le conclusioni cui è costretta a giungere l’acribia filologica (che si adorna, lo ricordo, del bimillenario motto: “Caesar non est supra gramaticos”).  Un rovesciamento generale della dottrina cattolica, allora, ad opera del Vaticano II?  Non proprio.  Piuttosto, il suo inquinamento (se così posso esprimermi) ad opera di una contro-teologia che i Capi non sono stati capaci di tenere sotto controllo né di combattere come si doveva.  “Non si pensi ad un capovolgimento generale, come se il Vaticano II avesse innovato l’intero complesso delle verità contenute nel Credo e definite dai precedenti Concilii;  la questione non è quantitativa, bensì qualitativa.  Non per nulla si parla di “spirito” e di “contro-spirito” all’interno del Concilio.  Prima che su determinate materie, la rottura s’era effettuata sull’ispirazione di fondo:  era stato sentenziato l’ostracismo non ad una o ad un’altra delle verità rivelate e dalla Chiesa come tali proposte, ma ad un certo modo di presentarle, ad una metodologia teologica, che nel caso era quella della non più tollerata Scolastica, e con particolare accanimento contro il tomismo…” (ivi, p. 34).  L’ostracismo alle ardue ma cristalline argomentazioni di S. Tommaso, fondate sulla metafisica classica, veniva – sottolineo – da chi si inebriava alle fumose ma eccitanti pagine dei Blondel, dei Martin Buber, degli Heidegger, l’irrazionalismo dei quali (dal culto dell’azione a quello dell’utopistico e sincretistico “dialogo” tra fedi e valori, inseriti l’una e l’altro nell’attuazione del “progetto” esistenziale del cosiddetto Esserci dell’uomo, “aperto” a tutte le possibilità) spingeva di fatto a riesumare le pulsioni del modernismo, nessuna esclusa.  “Non so se proprio tutt’i Padri conciliari se ne rendessero conto, ma, obiettivamente parlando, il loro strappo dalla secolare mentalità che, fin a quel momento, aveva espresso la motivazione di fondo della vita, della preghiera, dell’insegnamento e del governo della Chiesa, stava riproponendo la mentalità modernista, contro la quale san Pio X aveva preso netta posizione nell’intento di ‘ricentrare tutto in Cristo’(Ef 1,10).  Anche questo, questo anzi in modo particolare, è gegen-Geist” (ivi, pp. 34-35.  Sottolineature mie).
Tale “contro-spirito”, che invece di “ricentrare tutto in Cristo” si preoccupava di instaurare una sorta di “culto dell’Uomo”, non poteva evidentemente restare confinato sul piano “puramente ideale”, nel regno delle intenzioni.  Esso ha dato luogo “a rotture particolari, specifiche, su punti nevralgici della Fede e delle sue verità” (p. 35).  Uno dei testi maggiormente imputati in questo senso risulta esser da sempre la costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, alla quale l’Autore dedica quattro pagine, rilevando in particolare l’afflato antropocentrico (nient’affatto in continuità con l’insegnamento perenne della Chiesa) che la pervade (e che tracima nei famosi articoli 22 e 24).
Per ragioni di spazio, non posso ricordare le ulteriori “rotture su punti particolari ma nevralgici” della fede che compaiono in altri famosi passaggi conciliari, puntualmente richiamati dall’Autore; passaggi che inquinano per l’appunto quanto di dottrinalmente legittimo i testi dei medesimi documenti possono contenere (pp. 39-43).
Mons. Gherardini non sottovaluta certo le “responsabilità enormi del post-concilio”. Egli ricorda come sia stato lo stesso cardinale Ratzinger ad individuarle (p. 68) e come questo impressionante disordine morale e teologico post-conciliare derivi anche e soprattutto dalla latitanza dei vescovi, che lasciano fare (pp. 69-76).  Certamente il post-concilio è andato ben al di là del Concilio.  L’opera di “revisione e precisazione critica” deve pertanto distinguere preliminarmente tra i due, dando a ciascuno il suo ma senza dimenticare che il post-concilio è pur sempre frutto del Concilio, rivelatosi un vero e proprio “otre d’Eolo” (pp. 76-80).  L’illustre teologo non chiede certo l’abrogazione del Vaticano II da parte del Papa.  Più semplicemente, chiede che si cominci finalmente a separare il grano dal loglio nei documenti del Concilio.  E questa sua più che legittima richiesta esprime sicuramente un’esigenza condivisa da una minoranza qualificata che si va ingrossando ogni giorno, com’è­ vero che ad ogni giorno che passa si aggrava la crisi spaventosa della Chiesa cattolica.
Quale premessa di carattere generale del lavoro di “revisione critica”, l’Autore sviluppa alla fine (pp. 81-96) alcune importanti considerazioni chiarificatrici sulla natura effettiva dei sedici documenti del mastodonte che è il Vaticano II:  quattro Costituzioni, 9 Decreti, 3 Dichiarazioni - 596 fitte pagine nella diffusa edizione in italiano delle Edizioni Paoline.  Costituzioni, Decreti e Dichiarazioni sono fonti che non possiedono la medesima autorità, anche se appartengono tutti ad un Concilio che deve considerarsi autenticamente ecumenico, data la validità della sua convocazione.  Essi “esprimon tutti un magistero conciliare”, che è di sua natura “straordinario” e “solenne”, da non confondersi con il “magistero ordinario” della Chiesa (p. 81).  Detto questo, bisogna però “distinguere la qualità dei suoi documenti, perché il carattere solenne del loro insegnamento né li mette tutti su un piano di pari importanza, né comporta sempre di per sé la loro validità dogmatica e quindi infallibile” (p. 82).
Ma le quattro Costituzioni, da sempre i documenti più importanti di un Concilio ecumenico, non mettono secondo molti il Vaticano II sullo stesso piano dei precedenti, dogmatici Concili (Tridentino e Vaticano I)?  Il paragone è improponibile, specifica l’Autore, perché le “constitutiones” del Vaticano II sono atipiche rispetto a quelle dei Concili precedenti.  Esse, anche le due che si attribuiscono il titolo di “dogmatiche”, non ricorrono “al modello classico” della “costituzione”, modello “consolidatosi nel corso dei secoli come tramite della volontà definitoria della Chiesa”.  Non vi ricorrono, anche perché il Concilio ha voluto esplicitamente escludere (come è noto) qualsiasi “intento dogmatico-definitorio, con il relativo modulo espressivo” (pp. 82-84).  Ciò significa, in pratica, che “in nessuna delle sue quattro Costituzioni [comprese le due cosiddette “dogmatiche”] il Vaticano II ‘definisce come obbliganti per tutta la Chiesa’ [ossia come dogmi] i propri pronunciamenti dottrinali”(p. 84).  Quando poi il Vaticano II richiama espressamente dogmi definiti da precedenti Concili, esso non diviene per ciò stesso integralmente “dogmatico”:  “lo è semplicemente ed esclusivamente nella dogmatica irriformabilità ed infallibilità dei dogmi citati” (p. 86).
Queste precisazioni sono di fondamentale importanza, dal momento che non pochi insistono ancor oggi nel voler scorrettamente attribuire all’insegnamento del Vaticano II un valore dogmatico che non ha (e che non ha voluto espressamente avere), attribuendolo persino a documenti come i nove Decreti, nei quali l’istanza contingente dell’aggiornamento – sottolinea l’Autore – si rende specialmente palese (p. 87).  Come si possa poi pretendere di inserire “il non sempre provvido aggiornamento conciliare” tout court nel Magistero (dogmatico) della Chiesa, non si riesce a comprendere – chiosa l’Autore – se si pensa ad esempio che l’art. 13.2 del decreto Presbyterorum ordinis sul ministero e la vita sacerdotale, echeggiando la costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa, art. 28.1, “colloca intenzionalmente il ministero della parola al primo posto degli uffici presbiterali”, modificando ed anzi ribaltando l’insegnamento tridentino, per il quale la funzione primaria del sacerdozio cattolico è, come si sa, “ad conficiendam eucharistiam”:  la Consacrazione dell’Eucaristia (p. 87, 88).
Nella breve Conclusione finale (pp. 97-106), l’Autore ricorda, infine, che S. Paolo ha esortato “i cristiani dell’Urbe a render a Dio il famoso rationabile ossequium – Rm 12, 1” (pp. 97-98).  Ciò significa che “la verifica storica e teologica” di documenti pastorali approvati dal Romano Pontefice (come sono quelli del Concilio) è perfettamente legittima e non contraddice affatto la fede (p. 97).  Così come è perfettamente legittimo esprimere, senza venir meno “al dovuto rispetto”, la profonda insoddisfazione del credente e dello studioso per lo spirito del tutto acritico con il quale gli ultimi Pontefici hanno senza posa riproposto l’insegnamento del Vaticano II, come se si trattasse di un Concilio assolutamente dogmatico, scaricando interamente sul post-concilio la colpa della crisi della Chiesa, e contribuendo in tal modo ampiamente alla “volgata” ostinatamente celebrativa che da cinquant’anni tiene banco (pp. 99-102).

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