Partiamo da Pitagora, il celebre filosofo greco al cui nome
è associato il teorema forse più famoso di tutti i tempi, sempre citato al
principio di ogni storia della matematica (magari insieme ad Archimede).
Pitagora
aveva le idee molto chiare: la matematica non è una invenzione dell’uomo, ma
una scoperta. E’ la realtà stessa ad essere intessuta di matematica, fondata
sul numero.
La filosofia greca coglie l’ordine, la razionalità dell’universo;
la filosofia di Pitagora identifica il numero come fonte di questa razionalità.
Scrive l’astrofisico italiano Mario Livio nel suo “Dio è un matematico”: “I
pitagorici radicavano letteralmente l’universo nella matematica. In effetti per
loro Dio non era un matematico ma la matematica era Dio”. Ciò significa che i
Pitagorici coglievano come vera sostanza della realtà qualcosa di intangibile,
di invisibile; qualcosa che precede la realtà materiale, che la supera e la
informa.
Sarà poi Platone, con la sua metafisica, a dare alla
matematica un ruolo fondamentale nella conoscenza umana, ritenendo l’esistenza
delle realtà matematiche “un fatto oggettivo tanto quanto l’esistenza
dell’universo stesso”[1].
Fatto: l’universo fisico esiste, non è capriccioso e
caotico, ma ordinato. Riflessione filosofica: la matematica, immateriale, ne
rappresenta il fondamento, la sostanza. Si vede bene che siamo, benchè in epoca
ancora pagana, sulla strada di una concezione teista, che non pone il mondo “a
caso”, ma al contrario, ne riconosce l’ intelligenza, l’armonia, la
matematicità.
Da dove viene questa armonia? Per Platone dal mondo
metafisico delle idee, e, tramite esse, dall’opera del Demiurgo.
Prima dunque che Galileo scriva che “la matematica è
l’alfabeto col quale Dio ha scritto l’universo”; prima che il grande pisano
definisca la natura come “il libro…scritto in lingua matematica”- alludendo
molto chiaramente, quanto all’autore del libro, ad un Dio Creatore- è evidente
a chi affronti questa disciplina che la matematica nasce da un atto di fede
nella non assurdità del mondo; da un atto di stupore di fronte al fatto che ciò
che ci circonda non è regolato dal capriccio, ma dall’ intuizione, per dirla
con Platone, che “Dio geometrizza sempre”.
Scriverà in pieno Novecento il grande matematico cattolico
Ennio De Giorgi: “il mondo è fatto di cose visibili e invisibili e la
matematica ha forse una capacità, unica tra le altre scienze, di passare dall’osservazione
delle cose visibili all’immaginazione delle cose invisibili”.
La matematica dunque ci mette di fronte ad un fatto:
l’universo si presenta come qualcosa di intelleggibile alla nostra ragione.
Non è un dato scontato. Per Einstein “il mistero più grande
è che il mondo sia comprensibile”, cioè che il pensiero sia in grado di fornire
un ordine alle esperienze sensoriali.
Per il premio Nobel L. De Broglie invece “noi non ci
meravigliamo abbastanza del fatto che una scienza sia possibile, cioè che la
nostra ragione ci fornisca i mezzi per comprendere almeno certi aspetti di ciò
che accade attorno a noi”[2].
Non ci meravigliamo abbastanza, si potrebbe chiosare, del
fatto che una sola creatura si ponga anzitutto domande che vanno ben al di là
dei bisogni primari, delle esigenze che evoluzionisticamente sarebbero
necessarie alla sopravvivenza, e che sia in grado di andare al fondo della
realtà, a ciò che la regola e la fonda.
Il mistero dell’intelleggibilità del cosmo fa il paio con il
mistero di una creatura, e solo quella, che vuole e sa leggere tale
intelleggibilità.
A dimostrazione, ne dedurrebbe un credente, che entrambe le
ragioni, quella di Dio che fonda l’universo, e quella dell’uomo, fatto “a
immagine e somiglianza di Dio”, che lo interpreta e lo penetra, hanno una
origine comune.
Sono ben comprensibili, allora, non soltanto la
divinizzazione del numero di Pitagora e la metafisica di Platone, ma anche il
linguaggio biblico, così spesso ripetuto nell’epoca delle cattedrali: Dio ha
fatto l’universo “secondo numero peso e misura” (Sap.11, 20).
Quest’idea appartiene anche alla storia del pensiero
medievale, in particolare di quello francescano, tutto intento nello scorgere
nella natura, nella sua bellezza, non un ammasso informe, non una materia
principio del male, ma i segni della Ragione e della Bontà creatrice.
Di qui l’idea di un grande antenato della scienza moderna,
il medievale Roberto Grossatesta, per cui Dio è il “Numerator et Mensurator
primus”; oppure il pensiero di san Bonaventura, il quale scriveva: “tutte
le cose sono dunque belle e in certo modo dilettevoli; e non vi sono bellezza e
diletto senza proporzione, e la proporzione si trova in primo luogo nei numeri:
è necessario che tutte le cose abbiano una proporzione numerica e, di
conseguenza, il numero è il modello principale nella mente del Creatore e il
principale vestigio che, nelle cose, conduce alla Sapienza”[3].
Giovanni Keplero, scopritore delle leggi del moto dei
pianeti, non argomenterà in modo dissimile la sua fiducia nella bontà e
bellezza della creazione. La sua intuizione di fondo fu infatti che la
matematica è “la struttura ontologica dell’Universo”.
Da ciò svilupperà “il suo intero lavoro di astronomo, in cui
ritroveremo strettamente intrecciate fra loro l’esplicita ripresa di antiche
dottrine pitagoriche e neoplatoniche e una fervente fede cristiana”. Infatti,
“certo del fatto che l’intera creazione dipenda da un disegno divino perfetto,
Keplero crede di averne trovato il segreto nell’idea che l’Universo sia
costruito sulla base di figure geometriche note sin dalla geometria antica con
il nome di ‘solidi regolari’…Dietro una tale rappresentazione dell’universo vi
è una concezione metafisica ben precisa. Keplero è convinto, infatti, che la
stessa mente di Dio sia costituita da idee geometriche originarie di cui la
mente dell’uomo diviene partecipe”. “Non è un caso che poi Keplero interpreti
in senso trinitario l’intera struttura del cosmo…Ciò che anima Keplero, è utile
ricordarlo, non è tanto la convinzione di un meccanicismo originario, quanto
l’idea che l’Universo sia pervaso da una armonia matematica divina”[4].
Al punto che Keplero scriveva: “La geometria precede
l’origine delle cose, è coeterna alla mente di Dio, è Dio in persona (cosa c’è
in Dio che non sia Dio?); la geometria ha fornito a Dio gli archetipi della
creazione e fu impiantata nell’uomo contemporaneamente alla somiglianza di Dio”[5].
Sulla stessa scia di Keplero e degli altri grandi pensatori
citati, si colloca a ben vedere tutto il pensiero matematico e in generale
scientifico, per secoli e secoli, a partire dalle origini.
Sempre la matematica è vista come una scoperta dell’uomo,
non come una sua invenzione. Si ritiene cioè che il linguaggio matematico sia
efficace, funzioni, non per caso, ma perché coglie l’oggettività di un ordine,
l’esistenza di leggi universali: ordine e leggi universali che richiedono un
Legislatore supremo. Un Dio “dell’ordine e non della confusione” (“God of order
and not of confusion”), come ebbe a dire un altro dei più grandi matematici
della storia, Isaac Newton.
Ha scritto il fisico contemporaneo Paul Davies: “Come
avviene che le leggi dell'universo siano tali da favorire l'emergenza di menti
a loro volta capaci di riflettere e modellare accuratamente queste stesse leggi
matematiche? Come è successo che il cervello dell'uomo, che è il sistema fisico
più complesso e sviluppato che conosciamo, abbia prodotto tra le sue funzioni
più avanzate qualcosa come la matematica, capace di spiegare con tanto successo
i sistemi più basilari della realtà fìsica? Perché la mente, che si colloca al
culmine dello sviluppo, si ripiega su se stessa e si collega con il livello
base dell'esistenza, cioè con l'ordine retto da leggi su cui l'universo è
costruito? A mio avviso questo strano loop suggerisce che la
mente è qualcosa che è legata ai più fondamentali aspetti della realtà fisica,
sicché se vi è un significato o un fine all'esistenza fisica, allora noi,
esseri coscienti, siamo di sicuro una parte profonda ed essenziale di questo
fine”[6].
Eric T. Bell, autore del celebre volume “I grandi
matematici”, inizia la sua narrazione partendo dai filosofi greci, per passare
quasi subito a Cartesio (1596-1650) e Pascal (1623-1662). Bell ricorda, di
entrambi, la fede esplicita in un Dio Creatore, e il rapporto privilegiato con
il celebre matematico padre Mersenne, intorno al quale nasceva in quegli anni
l’Accademia Francese di Scienze. Si potrebbero anche ricordare la dimostrazione
a priori dell’esistenza di Dio di Cartesio, convinto che “le verità matematiche
che voi chiamate eterne sono state stabilite da Dio e ne dipendono
interamente”, e la visione profondamente religiosa del matematico Pascal,
inventore, tra le altre cose, della prima “calcolatrice”, la “pascalina”.
Costui, perfettamente in linea con la teologia medievale, sosteneva da un lato
che “la natura ha perfezioni per mostrare che è l’immagine di Dio, e difetti
per mostrare che ne è solamente l’immagine” (Pensieri, 580), dall’altro
specificava così la sua visione del rapporto tra scienza e fede: “Il Dio dei
Cristiani non è un Dio solamente autore delle verità geometriche e dell'ordine
degli elementi, come la pensavano i pagani e gli Epicurei. [...] il Dio dei
Cristiani è un Dio di amore e di consolazione, è un Dio che riempie l'anima e
il cuore di cui Egli s'è impossessato, è un Dio che fa internamente sentire a
ognuno la propria miseria e la Sua misericordia infinita, che si unisce con
l'intimo della loro anima, che la inonda di umiltà, di gioia, di confidenza, di
amore, che li rende incapaci d'avere altro fine che Lui stesso” (Pensieri,
556).
Dopo Cartesio e Pascal, nella lista dei grandi matematici
della storia, Bell pone il già citato Newton, e, dopo di lui, Leibniz (1646-1717):
siamo sempre di fronte ad un filosofo, metafisico, giurista, fisico e
matematico, che oltre a perfezionare il calcolatore già inventato da Pascal e
ad offrire un importante contributo al calcolo infinitesimale, era fermamente
convinto, sino a dimostrarla a priori, dell’esistenza di Dio, visto come
“soggetto di tutte le perfezioni, cioè l’essere perfettissimo”.
Dopo Leibniz, che già a ventun anni aveva scritto un
trattatello intitolato “Testimonianza della natura contro gli atei”, Bell
ricorda il grande Leonardo Eulero (1707-1783), definito “il matematico più
prolifico della storia”: siamo nell’età della nascente miscredenza, degli atei
materialisti francesi, alla d’Holbach e alla Diderot.
Eulero, invece, è un fervente protestante che ogni sera
raduna la famiglia per leggere insieme brani della Bibbia. Leggiamo un aneddoto
curioso su di lui: “Invitato dalla grande Caterina a visitare la sua corte,
Diderot consacrava i suoi ozi a convertire i cortigiani all’ateismo; avvertita,
l’imperatrice incaricò Eulero di mettere la museruola al frivolo filosofo. Era
una missione facile, perché parlare di matematica a Diderot, era come
parlargli cinese…Diderot fu avvertito che un matematico d’ingegno possedeva una
dimostrazione algebrica dell’esistenza di Dio e che l’avrebbe esposta davanti a
tutta la corte, se avesse desiderato ascoltarla; Diderot accettò con
piacere…Eulero si avanzò verso Diderot e gli disse gravemente e con un tono di
perfetta convinzione: ‘Signore, a+b alla n, fratto n, uguale a x: dunque Dio
esiste: rispondete’.
Questo discorso aveva l’aria di essere sensato agli orecchi
di Diderot. Umiliato dalle pazze risate che accolsero il suo silenzio
imbarazzato, il povero filosofo domandò a Caterina il permesso di tornare in
Francia…”. Sappiamo che Eulero si era limitato a fare un po’ di commedia, in
quell’occasione, ma anche che in seguito provò a fornire “due solenni
dimostrazioni dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima”[7].
Non interessa qui sapere quanto quelle dimostrazioni siano
veramente efficaci, quanto notare che anche Eulero non trasse dai suoi studi
matematici motivi per la miscredenza, al contrario! Anche il grande matematico
italiano Paolo Ruffini, cattolico fervente, scriveva pochi anni dopo Eulero,
nel 1806, una dimostrazione matematica dell’esistenza dell’anima, mentre il
matematico napoletano Vincenzo Flauti cercò di dimostrare Dio per via
matematica nella sua “Teoria dei miracoli”. Imitato in questo tentativo ardito
da George Boole (1818-1864), pioniere della logica matematica, nel suo “Leggi
del pensiero” e da uno dei più grandi geni della matematica e della logica di
tutti i tempi, Kurt Gödel (1906-1978), il quale tra gli anni ’40 e gli anni ’70
del Novecento, intento com’era “ricondurre il mondo ad unità razionale”,
scrisse pagine fitte di formule tese a dimostrare l’esistenza di un Dio non
solo come Ente Razionale ma con gli attributi del Dio cristiano[8].
Gödel era filosoficamente un realista, credeva cioè nella
matematica come scoperta (“le leggi della natura sono a priori”, non una
“creazione umana”); criticava fortemente lo “spirito dei tempi” suoi,
improntato al materialismo ed al meccanicismo; da battista luterano qual’era, e
da matematico, professava la fede in un Dio trascendente, “nel solco di
Leibnitz più che di Spinoza”; sosteneva l’irriducibilità della mente al
cervello, dei processi psichici a spiegazioni solamente meccaniche, e affermava
che “il cervello è un calcolatore connesso a uno spirito” individuale ed
immortale; riteneva “confutabile” l’idea che il cervello umano “sia venuto nel
modo darwiniano”, per cause puramente meccaniche e casuali e rifletteva sul
fatto che il mondo, dal momento che “ha avuto un inizio e molto probabilmente
avrà una fine nel nulla”, non si giustifica da se stesso[9].
Si potrebbe continuare a lungo, nella lista dei grandi
matematici credenti, citando Carl Friedrich Gauss (1777-1855), considerato
da molti “il principe dei matematici”, che fu un uomo dalla natura
profondamente religiosa, abituato a leggere il Nuovo Testamento in lingua
greca, convinto che “il mondo sarebbe un non senso, l'intera creazione una
assurdità, senza immortalità” dell’anima e senza Dio[10];
il cecoslovacco Bernad Bolzano (1781-1848), sacerdote cattolico, che diede
importanti contributi alla matematica, anticipando alcune idee di Cantor; il
norvegese Niels Henrik Abel (1802-1829), figlio e nipote di ecclesiastici
protestanti; il tedesco Karl Theodor Wilhelm Weierstrass (1815-1897), un
matematico tedesco, spesso chiamato “padre dell’analisi moderna”, di cui
portano il nome teoremi, teorie e oggetti matematici, figlio di un protestante
convertito al cattolicesimo e cattolico anch’egli (tanto da insegnare in varie
scuole cattoliche)[11];
il tedesco Bernhard Riemann (1826-1866), considerato uno dei massimi matematici
di sempre, anch’egli figlio di un pastore protestante, che fu sempre spirito
“religiosissimo” e devoto[12]…
Oppure potremmo citare il grande Georg Cantor (1845-1918),
figlio di padre luterano e di madre cattolica, grande appassionato di filosofia
e teologia medievale, così simpatizzante per la Chiesa cattolica da desiderare
il consenso alla autorità cattolica romana riguardo alle sue speculazioni sui
numeri infiniti (speculazioni che confinavano, diciamo così, con la metafisica
e la teologia)…
[1] Mario
Livio, “Dio è un matematico”, Rizzoli, Milano, 2009, p.48, 49.
[2] L.
De Broglie, “Fisica e Metafisica”, Einaudi, Torino, 1950, p.216.
[3] Citato
in Stefano Zecchi, “Storia dell’estetica”, vol.I, Il Mulino, Bologna, 1995, p.
159.
[4] Costantino
Esposito, Pasquale Porro, “Filosofia moderna”, Laterza, Bari, 2009, p. 67-69.
[5] Citato
in R. Timossi, “Dio e la scienza moderna”, Mondadori, Milano, 1999, p.41.
[6] Citato
in Bersanelli-Gargantini, “Solo lo stupore conosce”, op.cit.
[7] E.
Bell, “I grandi matematici”, Sansoni, Firenze, 1966, p.147-148.
[8] R.
G. Timossi, “Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt
Gödel. Storia critica degli argomenti ontologici”, Marietti 1820, Genova
Milano, 2005.
[9] Gabriele
Lolli, “Sotto il segno di Gödel”, Il Mulino, Bologna, 2007, in particolare cap.
VIII. Lolli ricorda anche quattro lettere scritte da Gödel alla madre, nel
1961, per esprimere “le sue ragioni per credere in un’altra vita”, mentre ad un
amico malato, Gödel scriveva: “L’affermazione che il nostro ego consiste di
molecole di proteine mi sembra una delle più ridicole mai sentite…”.
[10] G.
Waldo Dunnington, “Carl Friedrich Gauss: Titan of Science”, The Mathematical
Association of America, 2004, pp. 298-311. Dunnington riporta questa frase
di Gauss: “Ci sono domande le cui risposte io porrei ad un valore
infinitamente più alto che quello della matematica, per esempio quelle
riguardanti l'etica, o il nostro rapporto con Dio, il nostro destino ed il
nostro futuro; ma la loro soluzione resta irraggiungibile sopra di noi, fuori
dall'area di competenza della scienza”. Inoltre nota il biografo che il grande
matematico amava moltissimo il seguente passo di James Thomson: “Padre di luce
e vita! Dio Supremo!/Il Bene insegnami, insegnami Te!/Salvami da follia, vanità
e vizi,/da ogni ricerca vana; nutri l'anima/di sapienza, di pace e di virtù
-Sacra, carnale, eterna beatitudine!”.
[11] Félix
Klein, Róbert
Hermann, “Development of mathematics in the 19th century”, Math Sci Press,
1979, p.260.
[12] John
Derbyshire, “Prime obsession: Bernhard Riemann and the greatest unsolved
problem on mathematics”, J. Nenry Press, 2003: viene riportata anche la lapide
posta sulla sua tomba, in cui si legge “Qui riposa in Dio Bernhard Riemann…”, e
in conclusione una frase di san Paolo: “Tutto concorre al bene di coloro che
amano Dio”. di Francesco Agnoli
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